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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m... 10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....
19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
La Banca d´Italia ed il Ministero della Giustizia hanno firmato un accordo di collaborazione per accelerare i tempi di pagamento, da parte dello Stato, degli indennizzi ai cittadini lesi dall´eccessiva durata dei processi (legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”).
... 26/11/2014
Sentenza Corte giustizia europea precariato: vittoria! Giornata storica.
La Corte Europea ha letto la sentenza sull´abuso dei contratti a termine. L´Italia ha sbagliato nel ricorrere alla reiterazione dei contratti a tempo determinato senza una previsione certa per l´assunzione in ruolo.
Si apre così la strada alle assunzioni di miglialia di precari con 36 mesi di preca... 02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
La Consulta boccia la norma d´interpretazione autentica di cui all’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede c...
27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....
25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
... 05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...
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lunedì 3 luglio 2006
SS.UU.: DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE E PROVA DEL DANNO ESISTENZIALE a cura di Ermelinda Biesuz - Componente Comitato Scientifico di LavoroPrevidenza.com - SS.UU.: demansionamento del lavoratore e prova del danno esistenziale Cassazione, Sezioni Unite Civili 24 marzo 2006 n. 6572 Massima Ai fini del riconoscimento del danno da demansionamento non è sufficiente fornire la prova dell’illecito datoriale, configurando lo stesso un mero inadempimento del datore di lavoro, ma occorre provare l’esistenza del pregiudizio sofferto dal lavoratore. Con riferimento al danno esistenziale, in particolare, il lavoratore deve dimostrare, anche mediante presunzioni, che il demansionamento ha inciso sulla propria sfera esistenziale, causando un’alterazione delle abitudini di vita e pregiudicando l’equilibrio del lavoratore. Nota La sentenza in epigrafe riveste particolare interesse, in quanto affronta un tema più che mai attuale, costituito dal riconoscimento del danno esistenziale subito dal lavoratore in seguito al suo demansionamento. Segnatamente, le SS.UU. sono state chiamate a risolvere il contrasto avente ad oggetto la sussistenza o meno dell’onere del lavoratore di provare il pregiudizio subito a seguito del demansionamento, ai fini del riconoscimento del danno, in particolare del danno esistenziale. Secondo un primo indirizzo, infatti, il danno conseguirebbe in re ipsa al demansionamento e sarebbe suscettibile di liquidazione in via equitativa ex art. 1226 c.c. “in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto” (cfr. ex multis Cass. n. 10157/04, 8271/04, 15868/02). Alla stregua di un contrapposto orientamento, invece, il lavoratore dovrebbe fornire, in base al principio sancito dall’art. 2697 c.c., la prova del danno subito ed il nesso di causalità esistente fra lo stesso e l’adibizione a mansioni dequalificanti. Il danno, in quest’ottica, non costituirebbe una conseguenza automatica del demansionamento del lavoratore, ma, al contrario, dovrebbe prima essere provato per poi essere valutato in via equitativa (cfr. ex multis n. 10361/04, 16792/03). A questo secondo indirizzo aderiscono le SS.UU., il cui iter argomentativo si snoda attraverso l’analisi dapprima della natura della responsabilità del datore di lavoro e poi dei profili risarcitori ad essa riconnessi. Per quel che concerne il primo aspetto, la sentenza accoglie la tesi della dottrina e giurisprudenza maggioritarie, sancendo la natura contrattuale della responsabilità datoriale da demansionamento, per quel che concerne sia la lesione della professionalità del lavoratore sia il danno alla sua salute o alla sua personalità. Ciò in quanto, secondo le SS.UU., tanto la lesione della professionalità quanto quella della salute e della personalità del prestatore di lavoro trovano il proprio fulcro in un comportamento illegittimo del datore – costituito, rispettivamente, dalla violazione degli artt. 2103 c.c. e 2087 c.c. – che integra un inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, come tale rientrante nell’inadempimento contrattuale di cui all’art. 1218 c.c.. Nell’affermare la natura contrattuale della suddetta responsabilità le SS.UU. operano un’importante precisazione con riferimento al danno esistenziale, evidenziando come il risarcimento di tale danno in caso di demansionamento, trovando il proprio fondamento normativo nell’art. 2087 c.c., sia sottratto ai limiti previsti dall’art. 2059 (come interpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 233/03 e dalle sentenze gemelle della Corte di Cassazione n. 8827 e 8828/03), il quale richiede che l’interesse leso dalla condotta illecita del datore sia espressamente tutelato a livello costituzionale. Tale inadempimento, tuttavia, secondo le SS.UU., non comporta l’esistenza in via automatica del danno, che sussiste solo nel caso in cui dal comportamento illecito del datore derivi una lesione aggiuntiva per il lavoratore, essendo l’inadempimento già sanzionato con l’obbligo di corrispondere la retribuzione. A riguardo, si afferma infatti che “la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento”. Le SS.UU., inoltre, osservano come la varietà dei danni che possono derivare dalla dequalificazione del lavoratore (dal danno professionale al danno biologico al danno alla vita di relazione) renda necessario l’indicazione del tipo di danno subito e l’allegazione in giudizio degli elementi volti a fornirne la prova. Ciò premesso, nella sentenza si analizza in particolare il “danno non patrimoniale all’identità personale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale)”, poiché proprio con riferimento a questo tipo di danno si è posto in modo più radicato il contrasto, che la pronuncia in epigrafe è stata chiamata a risolvere. Nel risolvere la quaestio, le SS.UU. forniscono dapprima una definizione di danno esistenziale, affermando che “per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”, per poi ribadire che anche con riferimento a tale tipo di danno sussiste l’onere del lavoratore di provare come il demansionamento subito abbia inciso su aspetti relativi alla propria sfera esistenziale, alterandone l’equilibrio. In mancanza, si deve riconoscere l’esistenza dell’inadempimento del datore ma non del danno, come autorevolmente affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 378/94 - richiamata nella sentenza in oggetto - secondo cui: “È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”. Le SS.UU. precisano che la prova del danno esistenziale subito a seguito del demansionamento può essere fornita attraverso tutti i mezzi messi a disposizione dall’ordinamento processuale quali la prova testimoniale, documentale o presuntiva. E’proprio a quest’ultimo strumento che viene attribuita grande rilevanza, dato l’evidente immaterialità del bene leso. In particolare, nella sentenza si osserva, mediante il riferimento a precedenti pronunce, che la prova per presunzioni può essere utilizzata dal giudice anche in via esclusiva per la formazione del suo convincimento, “purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 Cc venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 Cpc a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”. A conclusione di tale rigoroso iter logico-giuridico, le SS.UU. cassano la sentenza impugnata per mancanza della necessaria allegazione, da parte del lavoratore, del danno subito, rimettendo la causa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI sentenza 2 febbraio-24 marzo 2006, n. 6572 Presidente Carbone – Relatore Pm Martone – difforme – Ricorrente Rete Ferroviaria Italiana Spa
Con sentenza in data 31 gennaio 2000, il Tribunale del lavoro di Roma dichiarava la nullità del licenziamento intimato dalle Ferrovie dello Stato Spa a F. C. e per l’effetto condannava la società suindicata alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra, nonché al risarcimento del danno derivante dal demansionamento, che faceva decorrere dal 1992, pari a lire 486.660.000. A seguito dell’impugnazione dalla società, In punto di danno da demansionamento, Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Rete Ferroviaria Italiana Società per azioni, già Ferrovie dello Stato di Trasporti e Servizi per azioni, sulla base di quattro motivo, cui ha resistito con controricorso F. C., il quale ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a quattro motivi, cui la società ha risposto con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie. La trattazione dei ricorsi è stata rimessa alle Su per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza concernente la questione dell’onere probatorio in caso di domanda di risarcimento danni del demansionamento professionale del lavoratore prospettata con il quarto motivo del ricorso principale.
Con il primo motivo del ricorso principale la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, in relazione agli articoli 99, 414, 420, 436 e 437 Cpc, in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione, in conseguenza della ravvisata illegittimità del licenziamento, dell’indennità supplementare di cui all’articolo 30, comma 10, del Ccnl Dirigenti Ferrovie dello Stato 29 maggio 1990, giacché la domanda in tal senso, non contenuta nel ricorso introduttivo, sarebbe stata inammissibilmente proposta dal C. solo nelle note autorizzate dal giudice di primo grado. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 n. 5 Cpc, insufficiente, contraddittoria e omessa motivazione su punto determinante della controversia in tema di criteri di liquidazione della indennità supplementare. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 416, 115 e 116 Cpc, in relazione all’articolo 2697 e all’articolo 2103 Cc e difetto di motivazione. La censura si riferisce all’accertamento del giudice di appello circa l’avvenuto demansionamento del C. nel periodo successivo al Con il quarto motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 414 e 420 Cpc, in relazione all’articolo 2697 Cc e agli articoli 432 Cpc e 1226 Cc. Si assume che nessuna prova era stata offerta, né tanto meno nessun fatto specifico era stato allegato in linea assertiva in ordina alla dimostrazione di un qualsivoglia danno derivante a carico del C. per la lamentata dequalificazione, e comunque nessuna domanda poteva essere accolta a tale titolo per difetto di prova. La sentenza, prosegue la ricorrente, sarebbe errata per avere individuato il presupposto della condanna risarcitoria non già sulla base delle allegazioni della parte, che difettavano completamente (rasentando il ricorso la nullità assoluta), ma in vere e proprie “illazioni imperscrutabili e putative”. Inoltre, la motivazione sarebbe assolutamente apparente, o comunque insufficiente, non consentendo di verificare da quali elementi del processo il giudice avrebbe tratto il convincimento della verificazione del pregiudizio. Tali ipotesi (non suffragate da fatti di sorta, né da prova di essi) nella loro genericità ed astrattezza non integrerebbero la prova specifica del danno – il cui onere gravava a carico del ricorrente – e quindi del presupposto che consente di ricorrere, nella determinazione del quantum, alla valutazione equitativa, vigendo anche nella giurisprudenza relativa all’articolo 1226 Cc il principio secondo il quale l’equità è solo un criterio di determinazione di una riconosciuta pretesa. In subordine, con il medesimo motivo di ricorso, la ricorrente censura anche l’applicazione dei criteri liquidativi del danno con ricorso all’equità ex articoli 432 Cpc e 1226 Cc. Con il primo motivo, il ricorrente incidentale deduce, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 e 5, Cpc violazione e/o falsa applicazione degli articoli 420 e 416 Cpc, in relazione agli articoli 2696 e 2103 Cc, sulla valutazione del danno da demansionamento con riferimento all’articolo 9 Ccnl dirigenti Fs, nonché omessa o contraddittoria motivazione in relazione agli articoli 2103 e 2087 Cc, in ordine alla determinazione del medesimo e omessa insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia, per avere escluso il demansionamento, pure riconosciuto dal giudice di primo grado, per il periodo 1992-1996; per avere ritenuto compensativi incarichi privi di contenuto operativo; per avere disatteso la clausola del Ccnl (articolo )) pur ad essa facendo riferimento; per non avere tenuto conto del danno emergente consistente nella perdita, conseguente alla rimozione dell’incarico di direttore finanziario, dei premi ex articolo 38 Ccnl e dell’indennità di funzione ex articolo 37 del medesimo Ccnl. Con il secondo motivo, il C. deduce violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, sulla domanda di reintegra nel posto di lavoro, contestando che in alcun atto vi è stata rinuncia a tale domanda da parte di esso ricorrente, né valida rinuncia da parte del procuratore. Con il terzo motivo si deduce la nullità del licenziamento in relazione al difetto di poteri del funzionario che lo aveva disposto. La inefficacia della procura al direttore delle risorse umane 27 luglio La violazione e falsa applicazione dell’articolo 435 Cpc in relazione agli articoli 416 e 420 Cpc e all’articolo 2697 Cc. Insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc, violazione o falsa applicazione dell’articolo 429 comma 3 Cpc, in materia di rivalutazione monetaria e interessi su somme dovute a titolo di risarcimento del danno. Omessa motivazione su un punto determinante della controversia. Appare logicamente preliminare – rispetto alla questione oggetto del contrasto, di cui al quarto motivo del ricorso principale ed al primo motivo del ricorso incidentale – la trattazione del terzo motivo del ricorso principale, perché con esso si critica la sentenza per avere ravvisato l’esistenza, dal 1996, del dedotto demansionamento e quindi il presupposto stesso da cui è stato fatto discendere il diritto al risarcimento del danno. Il motivo non è fondato. In primo luogo in ricorso non si contesta una circostanza decisiva affermata nella sentenza impugnata, e cioè essere pacifico – avendolo ammesso la stessa società – che il C., una volta dimessosi da tutte le cariche precedentemente rivestite, lasciata la società Metropolis e rientrato presso le Ferrovie dello Stato, era rimasto del tutto inoperoso. La società invero si giustifica allegando, e lamentando la mancata ammissione di prova sul punto, il profondo riassetto organizzativo, delinea compiutamente in ricorso il nuovo organigramma, con l’indicazione di tutte le numerose direzioni e del personale che ne era rispettivamente a capo, al fine di dimostrare una sorta di impossibilità sopravvenuta di assegnare al C. una qualsiasi mansione. Ma il riassetto organizzativo che si intende provare non appare però decisivo per infirmare le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito, giacché proprio la complessità della organizzazione, la pluralità di settori di intervento, con articolazione in molteplici direzioni (che comprendevano l’amministrazione, la finanza operativa e straordinaria, gli acquisti, il patrimonio, il settore legale, la tesoreria, il bilancio, la contabilità, il settore fiscale ed altro) portano invece logicamente ad escludere l’esistenza di detta impossibilità, rendendo poco credibile che non si fosse in condizione di reperire – nell’ambito di un ragionevole periodo di tempo quale è quello trascorso dal 1996 al licenziamento del maggio 1998 – una posizione compatibile con la qualifica e le competenze professionali del C.. In particolare, mentre si deduce che il medesimo era esperto in materia fiscale, non si spiega in ricorso il motivo per cui il medesimo non potesse trovare utile collocazione in detto settore, che pure risulta essere stato variamente articolato (adempimenti fiscali, imposte dirette, Iva ed altre imposte indirette e contenzioso). Il terzo motivo del ricorso principale è quindi infondato. Parimenti infondato è il primo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta che non sia stato ravvisato il demansionamento fin dal 1992, allorquando il C. era stato rimosso dalla posizione di direttore dell’area finanziaria e patrimonio, avente un peso che non sarebbe stato adeguatamente valutato dai giudici di merito. La prospettiva in cui si muove il ricorrente appare invero erronea, non potendosi il demansionamento ritenere integrato solo dalla revoca di un incarico di direzione, ancorché prestigioso, e remunerativo, essendo pur sempre rimesso al datore il cosiddetto ius variandi, ossia l’assegnazione a mansioni diverse, purché equivalenti a quelle svolte da ultimo; ed infatti, diversamente opinando, ne conseguirebbe la impossibilità di modificare in alcun modo l’organizzazione aziendale, il che però si porrebbe in patente contrasto con i poteri riservati all’imprenditore dall’articolo 2094 Cc ed anche con i principi di rango costituzionale (articolo 41 Costituzione). E quanto alla equivalenza delle nuove mansioni, assegnate dopo la revoca di quell’incarico, nella sentenza impugnata sono state puntualmente indicate le funzioni di vertice svolte dal 1992 al 1996 (dal 30 aprile 1992 al 30 aprile 1994, era stato assistente dal presidente per la diversificazione delle attività ferroviarie e responsabile per le Diversificate e il Patrimonio; contemporaneamente era stato consigliere di amministrazione di Metropolis fino al 18 novembre 1996 e vice presidente della medesima società del 18 maggio 1993 al 28 giugno 1996); inoltre non si indicano in ricorso gli elementi comprovanti la tesi difensiva svolta, per cui detti incarichi sarebbero stati privi di contenuti operativi e che la società Metropolis avrebbe agito solo sulla carta, per cui non si può ascrivere alla sentenza impugnata né di averli pretermessi, né di averli incongruamente valutati. Il primo motivo del ricorso incidentale va quindi rigettato. Quanto al quarto motivo del ricorso principale, concernente i danni derivanti dal demansionamento per il periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai giudici di merito, è effettivamente sussistente un contrasto nella giurisprudenza della sezione lavoro di questa Corte. La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cosiddetto esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all’assolvimento, da parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio. Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova. 1. Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cassazione 13299/92, 11727/99, 14443/00, 13580/01, 15868/02, 8271/04, 10157/04, le quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 Cc, anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze dal caso concreto». 2.Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cassazione 7905/98, 2561/99, 8904/03, 16792/03, 10361/04, le quali enunciano il seguente principio «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche sulla sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificatine del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’articolo 2697 Cc». Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificatine fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall’adempimento dell’obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale. Le Su ritengono di aderire a quest’ultimo indirizzo. 1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 8tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i casi, giacchè l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione in inadempimento contrattuale regolato dall’articolo 1218 Cc, con conseguente esonero dall’onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessine con l’articolo 1223 dello stesso codice. Vi è da aggiungere che l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 Cc (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall’articolo 2059 Cc (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte costituzionale 233/03 e l’indirizzo inaugurato da Cassazione 7283/03), verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del Cc. 2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 Cc, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa 3. È noto poi che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra. Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 Cpc – non può invece mai sopperire all’inere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cassazione Su 1099/98). 4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore. 5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacchè questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della legge 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’articolo 13 del D.Lgs 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte costituzione con la sentenza 233/03). 6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema gabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita. Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza 378/94 per cui «È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato». 6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 Cc venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 Cpc a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi. 7. Applicando detti criteri al caso di specie, In primo luogo detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente, perché non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l’espressione usata «Si pensi alla lesione della personalità professionale e morale al “discredito” nell’ambiente di lavoro» sembra alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto autonomamente, in altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti dalla parte nel processo, così contravvenendo all’obbligo di decidere iuxta alligata ed provata di cui all’articolo 115 Cpc. Inoltre ciò di cui si da conto è, non già – come si dovrebbe – il danno conseguenza della lesione, e cioè l’esistenza dei riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita, ma l’esistenza della lesione medesima, essendosi fatto ricorso ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette controversie con l’apposizione di un formulario “fisso” e quindi con elusione delle specificità delle singole fattispecie. Del tutto generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al cv ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative dell’interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero state frustrate dall’inadempimento datoriale, né alla conoscenza della vicenda al di fuori dell’ambiente di lavoro, né alla perdita di [omissis] del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale. La causa va poi rimessa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi.
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