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11/11/2016
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10/04/2016
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26/11/2014
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02/04/2014
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27/11/2013
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25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
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05/05/2013
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   sabato 1 ottobre 2005

OMISSIONE CONTRIBUTIVA – CRITERI DI DISTINZIONE DALL’EVASIONE CONTRIBUTIVA – OMISSIONE DI UNA DELLE DENUNCE O REGISTRAZIONI OBBLIGATORIE – E’ SUFFICIENTE PERCHÉ SI CONFIGURI EVASIONE EX L. N. 662/1996

CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni Unite, 7 marzo 2005, n. 4808 con nota del dr. Donatello Garcea (Direzione Generale INPS)




CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni Unite, 7 marzo 2005, n. 4808; Carbone Pres. – Foglia Estens., Martone P.M. (conf.) – Bulloneria Balestri s.r.l. (avv. Scognamiglio) c. INPS (avv.ti Fonzo, Correra e Pulli)


Conferma A. Milano 18 aprile 2000




Omissione contributiva – Criteri di distinzione dall’evasione contributiva – Omissione di una delle denunce o registrazioni obbligatorie – E’ sufficiente perché si configuri evasione ex l. n. 662/1996.





La fattispecie dell’omissione contributiva deve ritenersi limitata all’ipotesi del solo mancato pagamento da parte del datore di lavoro in presenza di tutte le denunce e registrazioni obbligatorie necessarie, mentre la mancanza di uno solo degli altri, necessari adempimenti è sufficiente ad integrare gli estremi dell’evasione.


con nota del dr. Donatello Garcea




(Omissis). Cio’ premesso sul piano della base normativa, va detto che la questione posta all’esame di queste Sezioni Unite puo’ tradursi nel seguente interrogativo: se il mancato pagamento dei contributi previdenziali – nel caso in cui l’obbligato abbia omesso di trasmettere i modelli mensili DM10, pur in presenza di regolare iscrizione dei lavoratori nei libri aziendali – configuri la fattispecie dell’”omissione contrbutiva” di cui alla lettera A) della norma predetta, ovvero integri i diversi, più gravosi estremi dell’”evasione” di cui alla successiva lettera B), con conseguente obbligo in tale ultimo caso, di pagare la sanzione una tantum, non prevista, per converso, nel primo.


Su tale quesito, all’interno della sezione lavoro della Corte sono, emersi, di recente, due diversi orientamenti: il primo di questi (cfr. Cass. 15.1.2003, n. 533, e Cass. 2.10.2003, n. 14727) ritiene che il connotato essenziale dell’ipotesi più grave, della “evasione contributiva”, sia l’impossibilità di diretta rilevazione, da parte dell’ente previdenziale, dell’esistenza e dell’ammontare del credito contributivo vantato: tale ipotesi non ricorrerebbe, viceversa, tutte le volte in cui i relativi dati siano ricavabili dalle registrazioni obbligatori (libri paga e matricola), e, quindi, anche in assenza di regolare trasmissione delle denunzie attraverso i modelli mensili DM 10.


(Omissis). Secondo l’opposta tesi (sostenuta da Cass. 6.2.2003, n. 1552, e Cass., 5.4.2003, n. 5386) la mancata o tardiva presentazione del modello DM 10, recante la dettagliata indicazione dei contributi previdenziali dovuti, configurerebbe di per sé la fattispecie dell’evasione contributiva di cui alla lettera b), con conseguente obbligo di pagamento dell’una tantum (il cui importo andava da un minimo del 50% ad un massimo del 100% dei contributi dovuti) a carico del trasgressore.


A sostegno si è rilevato che per integrare la fattispecie più grave dell’evasione contributiva è sufficiente che sia omesso uno degli adempimenti obbligatori, sia la denuncia, sia le registrazioni, come reso palese dall’uso della disgiuntiva “o”, sia dalla minore sanzione stabilita dall’ultima parte della lett. b) per l’ipotesi di denuncia tardiva spontanea.


Tale interpretazione è stata seguita da Cass. 5386/2003, la quale ha ribadito il rilievo che il ravvedimento operoso previsto dall’ultima parte della lett. b) presuppone una denuncia mensile tardiva, la cui mancanza appartiene quindi all’ipotesi di evasione.


(Omissis). Va tenuto presente che gli obblighi di segnalazione del debito contributivo sono molteplici (Omissis).


(Omissis). In particolare, le modalità di denuncia e di versamento dei contributi previdenziali sono dal citato art. 30 della legge n. 843 del 1978 testualmente desunte dal d.m. 5.2.1969 (pubblicato su G.Uff., n. 67 del 13.3.1969) espressamente inspirato allo scopo di attuare un sistema di versamento “…tale da consentire la diretta rilevazione della retribuzione imponibile”. Detta finalità veniva perseguita proprio attraverso l’istituzione di un sistema di denunzia dei contributi basato sulla trasmissione degli elenchi nominativi dei lavoratori occupati, con l’indicazione delle retribuzioni corrisposte, di modo che i dati rilevabili da quegli elenchi potessero consentire anche la tempestiva ricostruzione delle posizioni assicurative, per una sollecita liquidazione delle pensioni degli aventi diritto, nonché la periodica informazione ai lavoratori dell’accreditamento dei contributi versati a loro favore.


Tutto cio’ premesso, e tenuto conto che, nel caso di specie, la società ricorrente non aveva provveduto a trasmettere all’Inps i modelli D.M.10 e 01/M contenenti tutti di dati costitutivi del debito contributivo (così come ammesso nello stesso ricorso), deve rilevarsi che l’orientamento interpretativo seguito dalla sentenza impugnata appare preferibile sul piano della coerenza logico-giuridica al sistema sopra delineato.


Non puo’ negarsi, infatti, che l’ipotesi meno grave, di cui alla lettera a) dell’art.1 comma 217, si articola in due sub-ipotesi, ravvisabili: a1) nel mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denuncie e retribuzioni obbligatorie; a2) nel mancato o ritardato pagamento di contributi o premi il cui ammontare è rilevabile dalle denunce o dalle registrazioni obbligatorie. Nell’ipotesi sub a1) la meno grave fattispecie dell’omissione contributiva si realizza quando tutti gli adempimenti obbligatori risultano regolarmente effettuati, mancando solo il pagamento, mentre l’ipotesi sub a2), pur nella sua apparente contraddittorietà si spiega perché vi sono casi in cui non vi è obbligo di registrazioni, pur sussistendo l’obbligo della denuncia (dome nel caso di collaboratori familiari) sicchè è sufficiente, perché si abbia omissione contributiva, che sia regolare la denuncia, senza il relativo pagamento.


Pertanto, la fattispecie dell’omissione contributiva deve ritenersi limitata all’ipotesi del (solo) mancato pagamento da parte del datore di lavoro, in presenza di tutte le denunce e registrazioni obbligatorie necessarie, mentre la mancanza di uno solo degli altri, necessari adempimenti – in quanto strettamente funzionali al regolare svolgimento dei compiti di istituto dell’Ente previdenziale, ed alla tempestiva soddisfazione dei diritti pensionistici dei lavoratori assicurati - è sufficiente ad integrare gli estremi dell’evasione.


Supporta tale conclusione la considerazione – fatta propria dalle citate sentenze nn. 1552/2003 e 5386/2003 – che, diversamente opinando, non troverebbe mai applicazione l’ipotesi particolare – ricadente appunto nella lettera b) e non nella lettera a) secondo l’espressa previsione dell’ultimo periodo dell’art. 1, comma 217, cit. – della spontanea denuncia tardiva (c.d. ravvedimento operoso) entro sei mesi dalla scadenza del termine stabilito per il pagamento dei contributi se il ritardo nella denuncia dovesse equipararsi per cio’ solo (e quindi sempre) alla fattispecie del mero mancato o ritardato pagamento dei contributi. E, se è vero che, nel caso di denuncia presentata spontaneamente entro i sei mesi dalla scadenza del termine di adempimento, la sanzione una tantum non è dovuta, realizzandosi una fattispecie di “ravvedimento operoso”, previsto dal legislatore, occorre pur sempre considerare che, per beneficiare della misura premiale dell’eliminazione della sanzione predetta, il versamento dei contributi o premi deve essere effettuato entro trenta giorni dalla denuncia stessa.


Senza trascurare di considerare che un’interpretazione meno rigorosa del concetto di omissione, esteso a tutte le ipotesi che in qualunque modo abbiano reso possibile all’Ente previdenziale l’accertamento degli inadempimenti contributivi, anche a distanza di tempo, o in ritardo rispetto alla cadenze informative periodiche prescritte alla legge n. 843 del 1978, aggraverebbe la posizione dell’Ente previdenziale, imponendo allo stesso un’incessante attività ispettiva, laddove il sistema postula, anche nel suo aspetto contributivo, per la sua funzionalità, una collaborazione spontanea tra i soggetti interessati.


Del resto, l’espresso riferimento da parte del legislatore alle denuncie mensili obbligatorie non puo’ restare privo di significato, anche in considerazione del valore legale attribuito a tali titoli: ne deriva, quindi, che nel vigore della legge n. 662 del 1966 (applicabile alla specie), in ogni ipotesi di cui le denuncie obbligatorie non siano state presentate è integrata la fattispecie legale sanzionabile, anche qualora i dipendenti risultino registrati nei libri matricola.


Non è inutile sottolineare, da ultimo, che il rigore della disciplina si giustifica in base alla circostanza che le denuncie mensili obbligatorie costituiscono titolo esecutivo ai sensi dell’art. 2 della legge n. 389 del 1989 e consentono, pertanto, all’Istituto previdenziale di agire immediatamente per il recupero del credito.


P.q.m. In conclusione la sentenza impugnata non merita censura, sicchè il ricorso – limitatamente al primo motivo per il quale sono state investite queste Sezioni Unite – non puo’ essere accolto. (Omissis).




NOTA



Gli effetti riflessi della S.U. 4808/2005 sul trattamento della parasubordinazione simulata.



Donatello Garcea


Direzione Generale – INPS



In corso di pubblicazione sul fascicolo 3/05 di Rivista Italiana di Diritto del Lavoro.


Si ringrazia il direttore prof. Ichino e l’editore Giuffrè per non essersi opposti alla divulgazione via internet. Ai sensi della circolare MLPS 18 aprile 2004 si chiarisce che il presente scritto è frutto delle personali conclusioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto.




Sommario: – 1. Premessa. Il conflitto giurisprudenziale. – 2. L’ermeneusi amministrativa. – 3. La critica dottrinale. – 4. Gli effetti riflessi della pronuncia. – 5. Conclusioni.





1. – Premessa.



La riformulazione legislativa delle sanzioni applicabili ai casi di omissione ed evasione contributiva ha introdotto il concetto di “intenzionalità” quale linea discretiva tra le due ipotesi, riconducendo la prima all’omesso o ritardato pagamento dei contributi desumibili dalle denuncie e/o scritture obbligatorie e la seconda all’occultamento di rapporti di lavoro o retribuzioni mediante la omissione di denuncie o scritture ovvero con la loro redazione non veritiera, con l’intenzione specifica di non versare i contributi.



In seno alla Suprema Corte di Cassazione, che ha talvolta criticato la cripticità della lettera legislativa (Cass., 15 gennaio 2003, n. 533: “...ancorché letteralmente la formula usata non sia tra le più chiare, perché non spiega ma dà per postulato il concetto di evasione...” (nota L. Carbone) in Foro it. 2003, 5, p. 1497), si sono prodotti due indirizzi interpretativi in ragione di una diversa valutazione delle caratteristiche intrinseche dell’evasione.



Con un primo indirizzo (Cass., 15 gennaio 2003, n. 533 e 2 ottobre 2003, n. 14727) fu ritenuto che, nel quadro di un generale ridimensionamento della sanzione previdenziale, l’evasione dovesse essere limitata alle sole ipotesi nelle quali non si potesse in alcun modo risalire alla esistenza del rapporto lavorativo in essere, e quindi nei casi nei quali non sussisteva nessuno dei vari elementi documentali previsti a titolo probatorio del rapporto lavorativo.


Soltanto la totale e completa omissione delle varie comunicazioni imposte al datore, distinguendo tra le “denuncie” (Art. 30, l. 21 dicembre 1978, n. 843 e art. 4, l. 4 agosto 1978, n. 467) e le altre “scritture” obbligatorie (Legge 5 gennaio 1953, n. 4 e art. 20, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124), configurava l’evasione contributiva, ritenendo invece elemento caratterizzante ed essenziale della omissione contributiva “…la possibilità di rilevazione da parte dell’Ente della esistenza e della misura dei contributi non pagati, con le conseguenza logica che la diversa e più grave ipotesi (di evasione) ricorre quando la rilevazione non sia possibile perché il credito non risulta da nessuna documentazione di provenienza del soggetto obbligato”.



Con un secondo indirizzo (Cass., 6 febbraio 2003, n. 1552 e 5 aprile 2003, n. 5386) era stato ritenuto che l’ipotesi lieve della omissione si configurasse solo quando tutti gli elementi legislativamente prescritti fossero stati adempiuti dal datore. In assenza della denuncia contributiva ovvero anche solo della registrazione nei libri matricolari aziendali era integrata l’ipotesi grave della evasione.


L’argomentazione seguita era di matrice puramente letterale, evidenziando l’uso della congiunzione disgiuntiva che come tale richiede alternatività e non mero cumulo.



Il conflitto è stato adesso risolto con la sentenza che su annota in cui si avalla la linea interpretativa per la quale l’evasione è ipotizzabile in tutti i casi nei quali mancano le denuncie contributive argomentando in ragione della violazione del principio di leale collaborazione che dovrebbe improntare il rapporto obbligatorio insistente tra l’ente previdenziale ed i datori di lavoro.


Le Sezioni unite ritengono dunque che il compendio di adempimenti imposti dalla legge al datore sia un unicum inscindibile relegando l’ipotesi lieve della omissione solo al caso nel quale pur in loro complessiva presenza il datore non abbia provveduto materialmente alla corresponsione del dovuto.



Tale nuovo indirizzo non mancherà di ripercuotersi sulla vexata quaestio del trattamento sanzionatorio da assicurare alla simulazione del rapporto di lavoro, e più in particolare di quale sia il regime sanzionatorio da applicare nel caso in cui una apparente parasubordinazione in realtà dissimuli un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.


Appena il caso di ricordare che i due rapporti di lavoro sono caratterizzati ancora da una rilevante differenza in ordine al quantum contributivo imposto, cosicché non è infrequente che i datori spingano per una dequalificazione celando il reale rapporto a tempo indeterminato.


Nella ipotesi il caso puo’ essere ricondotto alla lettera di entrambe le sanzioni, proprio a cagione di quella non chiara distinzione letterale della norma, già lamentata dalla giurisprudenza: il caso in parola è relativo ad un rapporto di lavoro effettivamente fatto oggetto di denuncie e scritture obbligatorie (e dunque astrattamente ascrivibile al concetto di omissione) pur se contemporaneamente il fatto integra l’occultamento del reale rapporto di lavoro, compiuto peraltro mediante dichiarazioni non veritiere.




2. – L’ermeneusi amministrativa.



Innanzi alla peculiarità del caso costituito da un rapporto di parasubordinazione che ne dissimula uno di subordinazione a tempo indeterminato, l’INPS (Circ. 10 aprile 2003, n. 74) ha ritenuto di potere configurare l’ipotesi come ricadente nell’alveo della omissione ed ha emanato la circolare di cui in rubrica, rivedendo il suo precedente orientamento (Circ. 23 maggio 2001, n. 110).


Si è ritenuto che la configurazione a titolo di evasione fosse foriera di alti “…livelli del contenzioso, con negativi riflessi sui tempi di recupero dei contributi accertati”, e che dunque fosse necessario adottare una esegesi “…più aderente allo spirito ed alla lettera della normativa introdotta dal citato art.116”.


Era parso, infatti, che la ratio della novella sia riconducibile ad un intento premiale, del resto confermato anche dall’introduzione del concetto di intenzionalità volto, evidentemente, a circoscrivere la portata applicativa della sanzione a titolo di evasione: l’Istituto ha ritenuto che nella simulazione, a fronte di un rapporto di lavoro per il quale sono effettuate una serie di denunce e registrazioni obbligatorie conosciute ed autorizzate dall’Istituto stesso (relative alla parasubordinazione), è “…fuor di dubbio che puo’ mancare del tutto l’intenzionalità che non puo’ essere provata in modo certo e inequivocabile”.



Il lavoratore simulato parasubordinato è dunque considerabile quale “parte integrante del contesto aziendale” ed è oggetto delle relative iscrizioni obbligatorie, ragion per la quale non è possibile evidenziarsi l’intenzione di occultare un rapporto di lavoro che in realtà è espressamente denunciato sussistente pur se è pure vero che il simulato parasubordinato è oggetto di iscrizioni “non veritiere” che occultano il reale rapporto di lavoro (a tempo indeterminato) concretamente in essere.


L’ambiguità del testo normativo permette entrambe le opzioni e, di fronte ad un testo ambiguo, l’interprete è tenuto ad applicare gli ordinari criteri di interpretazione correttiva che l’INPS ha così individuato:



a. In mancanza di univocità ermeneutica si deve preferire il generale principio interpretativo del favor debitoris preferendo l’esegesi contraddistinta da minore afflittività verso il contribuente, costituendo la sanzione un rimedio che reagisce ad una eccezionale patologia instauratasi nel rapporto;


L’intenzione del legislatore è di comprimere l’area delle sanzioni. È stato osservato in dottrina che la nuova formulazione presenti caratteri di premialità, cosicché innanzi ad una ambiguità che comporti la necessità di riferirsi ad una interpretazione correttiva alla luce della ratio legis da riconoscere alla norma si deve preferire una visione restrittiva della portata della norma disciplinante l’ipotesi di evasione;



b. L’irrogazione della sanzione più blanda comporta una minore litigiosità giudiziale, con conseguenti rilevanti risparmi in tema di spese legali. Tale preoccupazione risulta chiaramente nella circolare in oggetto di trattazione, ove si fa riferimento alle problematiche connesse ad un alto livello di contenzioso.


Sembra che la preoccupazione dell’INPS sia di ovviare alle croniche deficienze di organico della propria Avvocatura, evitando che una interpretazione rigorosa possa comportare un innalzamento del già preoccupante carico di controversie legali nelle quali l’Istituto è interessato.


Peraltro per effetto della legislazione in materia, spesso l’Istituto è interessato al pagamento delle spese di soccombenza, riducendo quindi la reale convenienza economica alla attivazione delle procedure di recupero coatto in caso di opposizione giudiziale del presunto debitore.



c. La denuncia del rapporto in essere, seppure diversamente qualificato, implica l’assenza di una volontaria intenzione alla evasione contributiva. Nel caso di parasubordinazione esiste “…una serie di denuncie e registrazioni obbligatorie delle quali l’Istituto non solo ne è a conoscenza, o puo’ venirvi a conoscenza in sede di accertamento ispettivo, ma è l’Organo che autorizza l’iscrizione e conseguentemente chiede il pagamento dei contributi”.


Come cennato, innanzi ad una valutazione soggettiva, si ritiene non potersi configurare evasione nel caso nel quale il datore di lavoro si attiva concretamente per fare risultare in atto il rapporto lavorativo con il prestatore: nel concetto di intenzionalità dovrebbero essere ascritte le condotte volte all’occultamento del rapporto in essere con il prestatore, che non si verifica nel caso de quo.



d. Assoggettare l’ipotesi simulatoria alla sanzione per evasione equiparerebbe, inoltre, un comportamento di minore gravità alla sanzione prevista per il caso più grave. Il datore tenuto alla sanzione sarebbe ugualmente soggetto alla medesima sanzione sia per il caso in cui ometta totalmente le denuncie e le scritture prescritte e sia per il caso in cui provveda ad una concreta, pur non veritiera qualificazione, individuazione del rapporto lavorativo in essere.







3. – La critica dottrinale.



Tale posizione dell’ente previdenziale fu oggetto di aspra critica (D. Garcea, Il trattamento sanzionatorio della simulazione, Altalex, 2003, 318):



a. Una interpretazione in favor non è giustificabile ove si consideri la natura non “amministrativa” ma “civile” (Sul carattere civilistico, M. Grandi, Le somme aggiuntive, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1992, 11, p. 92; e M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, p. 101; contra, nel senso di un carattere amministrativo M. Cinelli, Le “sanzioni civili” per inadempimento contributivo agli obblighi di contribuzione previdenziale dopo la legge 11/1986, in Foro it., 1987, I, p. 2725) delle sanzioni in oggetto poiché nella responsabilità aquiliana rapporto tra le parti è paritario, non potendosi configurare una posizione di favore nei confronti del danneggiante: il danneggiato è posto sullo stesso piano o, anzi, è il soggetto il cui semplice ristoro economico è oggetto di tutela da parte della norma.


Inoltre il favor debitoris, mutuato dal diritto tributario, puo’ configurarsi come operante solo nel rapporto diretto tra amministrazione e contribuente. Nel caso specifico sorgono effetti anche per un terzo soggetto, l’assicurato, che è direttamente interessato dal tipo di configurazione riconosciuta alla sua attività lavorativa (Rammentando che le procedure di certificazione introdotte dal d.lgs. 267/2003 non assumono efficacia vincolante: cfr. M. Tiraboschi , Le procedure di certificazione, in Tiraboschi M. (a cura di), La riforma Biagi, in Guida al lavoro, suppl. n. 4, 2003, p. 123; ID., La cosiddetta certificazione dei lavori “atipici” e la sua tenuta giudiziaria, in Lav. dir., 2003, p. 101)


Infine si puo’ osservare che l’intento premiale si realizza mediante la ridefinizione dell’entità delle sanzioni, e non circoscrivendo le fattispecie integrative delle varie ipotesi, come ritenuto in circolare. Pur introducendo il concetto di intenzionalità la norma nel suo complesso reca anche disposti di segno contrario, come ad esempio l’estensione dell’area della punibilità anche ai datori di lavoro pubblico.



b. l’Istituto si ingegna per introdurre una specie di “definizione agevolata” (Artt. 16 e 17, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472) al fine di contenere il contenzioso giudiziario dagli alti costi di legali. Tuttavia, è stato osservato, che tale scopo, seppur conforme alle esigenze di contenimento della spesa e al principio di economicità della gestione, non appare esperibile da un ente pubblico che deve applicare la legge, senza potere discrezionalmente disporre di un proprio diritto.


Sebbene la natura civile della sanzione puo’ comportare valutazioni di tipo transattivo (A. Giovati, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2000, p. 361 si deve altresì rammentare che proprio il carattere di sanzione, fa assumere all’art. 116 una valenza particolare (M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2001, p. 240) rispetto alle ordinarie pretese civilistiche in tema di risarcimento del danno illecito.


Il problema del forte contenzioso che l’irrogazione delle sanzioni per evasione contributiva dovrebbe essere risolto in via legislativa, con l’introduzione di meccanismi premiali disincentivanti il ricorso giudiziale, non residuando un potere transattivo ante giudizio nei confronti degli enti che non hanno facoltà, non potendo arrogarsi competenze legislative, di disapplicare il preciso dato normativo, mediante pur ingegnosi cavilli interpretativi.


La sanzione determina forfettariamente un danno predeterminato nel suo ammontare: se l’intenzione del legislatore fosse stata quella di consentire all’Istituto il ristoro dei danni patiti, lo stesso avrebbe lasciato alla determinazione giudiziale, in base agli ordinari criteri civilistici, delle conseguenze economiche patite dall’Istituto per effetto della violazione dell’obbligo previdenziale. La previsione di una sanzione proporzionale, invece, risponde evidentemente anche ad un effetto sanzionatorio afflittivo, che si combina con il carattere civilistico di ristoro del danno, di talchè si puo’ affermare che nell’istituto della sanzione civile convivono due diversi caratteri (pone in secondo piano la funzione risarcitoria M. Cinelli, op. cit., p. 240, il quale richiama a sostegno della natura amministrativa, Corte Cost., 16 giugno 1966, n. 76 in Giur. cost. prev., III, 1988, p. 487 e Corte Cost., 21 marzo 1974, n. 87, ivi, p. 500. Va pero’ segnalato un nutrito e più recente filone giurisprudenziale di segno contrario: Cass., 13 luglio 1996, n. 6369 in Orient. Giur. lav., 1996, 1005. Cass. civ., 10 maggio 1995, n. 5088 in Inf. prev., 1995, p. 929. Cass., S.U., 14 aprile 1994, n. 3476 in Mass. giur. lav. 1994, 424).


L’Istituto, pur nell’encomiabile intento di evitare costi superiori alle entrate effettive, e dunque nello spirito di una azione contraddistinta da criteri informatori di economicità, non ha tuttavia alcun potere di derogare alla legge vigente, poiché il legislatore potrebbe aver disposto la norma tenendo conto degli effetti complessivi (ad esempio dell’effetto disincentivizzante nei confronti dei datori). E’ chiaro che “disapplicando” la norma, l’INPS incide sul portato normativo e, di fatto, si sostituisce al legislatore.



c. Era sostenuto che si configurasse omissione ove il rapporto di lavoro comunque risultava dalla documentazione legale, cosicché comunque il lavoratore fosse considerabile parte integrante del contesto aziendale. Al converso sarebbe oltrepassata la linea discretiva che configura l’evasione.


Nel caso di specie, pero’, il rapporto apparente tra datore e lavoratore è un rapporto di natura diversa percui non risulta dalla documentazione legale “il” rapporto di lavoro (ordinario a tempo indeterminato), ma risulta “un” rapporto di lavoro inteso in senso lato, di talché potrebbe rientrare in questa definizione perfino un lavoro svolto in costanza di mandato.



d. Asserire che una illecita declassificazione del lavoratore subordinato non configuri una intenzione di evadere il differenziale contributivo equivarrebbe a sostenere che l’evasione si puo’ configurare solo come evasione totale del contributo dovuto. In realtà né in punto di lettera e né in via interpretativa è possibile ritenere che l’ipotesi grave debba incidere sulla “totalità” del contributo dovuto, ben potendosi immaginare un volontario comportamento volto alla evasione “parzialedel debito contributivo. La sanzione, in ragione della sua proporzionalità, diversamente inciderà sull’evasore “parziale”, rispetto alla ipotesi di maggiore ampiezza escludendo l’integrazione di quei profili di illegittima equiparazione tra diverse posizioni che potrebbero configurare la paventata violazione del disposto di cui all’articolo 3 della Costituzione.


Del resto tali considerazioni traspaiono anche dalla circolare in trattazione ove si legge che “...puo’ mancare del tutto l’intenzionalità, né questa puo’ essere provata in modo certo ed inequivocabile”: sembra che l’Istituto riconosca la possibilità che vi sia una intenzionalità di evasione (“...puo’ mancare...”) che ritenga, tuttavia, di non potere provare in modo esaustivo, dimenticando che in sede giudiziale, il giudice ben puo’ procedere per mezzo di presunzioni legali realizzando il proprio libero convincimento.




4. – Gli effetti riflessi della pronuncia.



In tale contesto di confutazione dottrinale si inserisce con effetto dirompente la summenzionata pronuncia della Suprema Corte che traccia una linea discretiva tra l’ipotesi omissiva e l’intento evasivo.


Come già cennato le Sezioni ritengono un unicum inscindibile il compendio di documentazione obbligatoria imposta ai datori, rifiutando quella interpretazione “in bona partem” in base alla quale non puo’ configurarsi l’intenzionalità di evadere l’obbligo contributivo qualora sia comunque possibile estrapolare la presenza del lavoratore in seno alla documentazione contabile aziendale.



Nello statuire in tal senso la Corte avalla le critiche dottrinali summenzionate.



a. innanzi al dato ambiguo non è tenuto in alcuna considerazione il principio generale interpretativo del favor debitoris. E’ bene chiarire che la disciplina interpretativa incardinata nell’articolo 12 delle preleggi impone di estrapolare il significato della norma dal suo contesto letterale, ovviando alle ambiguità per mezzo di una lettura correttiva in ragione della ratio delle previsione legislativa.


I principi generali informatori dell’ordinamento, tra i quali puo’ annoverarsi il favor debitoris tributario, rilevano solo in via chiaramente residuale qualora è concessa facoltà di ermeneusi creativa tramite il procedimento analogico per colmare una lacuna ordinamentale. Non deve confondersi un principio generale informatore con la ratio legis della norma che, quando eccezionale, puo’ ben discostarsene.



Si evidenzia dunque la fallace esegesi amministrativa che riconosce al criterio interpretativo una funzione assimilabile alla intenzione legislativa, adoperandolo dunque in seno al procedimento di esegesi correttiva.



b. l’argomentazione dell’ente interpretante in base alla quale nel rapporto parasubordinato non puo’ integrarsi intenzionalità evasiva ma mera omissione in ragione di “…una serie di denuncie e registrazioni obbligatorie delle quali l’Istituto non solo ne è a conoscenza, o puo’ venirvi a conoscenza in sede di accertamento ispettivo” è ritenuta irrilevante. Invero la posizione delle Sezioni è antipodica poiché una siffatta esegesi imporrebbe all’Istituto previdenziale “una incessante attività ispettiva, laddove il sistema postula, anche nel suo aspetto contributivo, per la sua funzionalità una collaborazione spontanea tra i soggetti interessati”.


Soltanto l’adempimento precipuo di tutti gli obblighi documentali importa l’esclusione della intenzione di evadere l’obbligo contributivo e, di conseguenza, l’irrogazione della blanda sanzione a titolo di omissione.



A fortiori, se si trasponde tale enunciazione di principio al caso in discussione inerente la dissimulazione di un rapporto parasubordinato, si comprende che sia del tutto irrilevante che il lavoratore risulti quale “parte integrante del contesto aziendale” nella documentazione contabile. Non è rilevante nemmeno nel caso di inadempimento relato ad un lavoratore subordinato tout court, a maggior ragione è quantomeno discutibile ritenere l ipotesi lieve nel caso in cui insista non solo l’inadempimento ma altresì una non veritiera classificazione della qualifica del lavoratore.



c. La Suprema Corte dunque, mostra di ritenere inutiliter datum un singolo adempimento contabile considerando che solo dal compendio complessivamente imposto possa escludersi l’animus psicologico imposto nell’evasione.


Si sostiene che l’occultamento del rapporto lavorativo “potrebbe infatti essere nascosta anche dietro una documentazione incompleta” e che comunque la legge (art. 30, l. 21 dicembre 1978, n. 843) attua “un sistema di versamento (dei contributi previdenziali) tale da consentire la diretta rilevazione della retribuzione imponibile … attraverso l’istituzione di un sistema di denunzia” e che, dunque, in assenza, non si risponderebbe appieno alla esigenza di leale collaborazione nel rapporto obbligatorio imponendo all’INPS una incessante attività ispettiva.



d. La Corte confuta anche l’ultima asserzione sulla quale si fonda l’assunto dell’interpretazione esplicativa dell’INPS sostenendo come non sia incoerente equiparare la mancata ottemperanza di tutti i numerosi obblighi di segnalazione del debito contributivo alla ipotesi nella quale l’omissione sia limitata alle sole denuncie mensili poiché comunque “in entrambi i casi le funzioni di accertamento risultano ostacolate”.



Le Sezioni dunque ritengono non irragionevole associare alla stessa pena (privata) edittale un comportamento pur differente nella sua esplicazione purchè sia finalizzato, o cagioni, lo stesso effetto sulla realtà circostante, e quindi nel caso in cui danneggi comunque il regolare afflusso della contribuzione.



L’unica linea discretiva è tracciata in riguardo alla possibilità che l’INPS si avveda o meno del fatto, ribaltando dunque la precedente opzione ermeneutica. L’indirizzo “bonario”, infatti, escludeva l’evasione tutte le volte in cui l’Istituto previdenziale godeva della “possibilità astratta ed ipotetica di estrapolare l’insistenza della debenza dalla regolare tenuta della documentazione contabile obbligatoria (nel corso di una eventuale ispezione), mentre in tale opzione si impone non una possibile “conoscibilità” ma una concreta “conoscenza” della posizione debitoria (che si ha solo in seguito all’invio della autodenuncia tramite DM-10).



5. – Conclusioni.



Il pronunciamento in Sezioni unite conferma le critiche dottrinali già illo tempore mosse verso l’esegesi amministrativa dell’Istituto previdenziale che, più realista del re, ha aderito ad una interpretazione eccessivamente bonaria del compendio legislativo in essere. È estremamente probabile che l’INPS torni su i suoi passi e riformuli, in re melius perpensa, le precedenti conclusioni, aderendo alla pronuncia delle Sezioni Unite.



Quid iuris per le ispezioni e le contestazioni esperite medio tempore, relative a fatti incorsi durante la vigenza della circolare in parola?


Una circolare è un atto amministrativo privo di cogenza, che non vincola né il giudice e né lo stesso Istituto (Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 931 in Foro amm. CDS 2002, f. 2 (s.m.). cfr., Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 2000, n. 5506; in Riv. cancellerie 2001, 640 s.m.) che non ha facoltà di disposizione sulle somme legislativamente dovutegli, ragion per la quale sono ipotizzabili contestazioni a titolo di evasione anche se relative al periodo in cui lo stesso INPS riteneva le ipotesi riconducibili nell’alveo della più blanda omissione.



L’Amministrazione non ha tuttavia alcun potere di derogare alla legge vigente nella interpretazione data dagli organi giurisdizionali non disponendo l’irrogazione della sanzione, poiché il legislatore ha disposto la norma tenendo conto degli effetti complessivi. La sanzione civile determina forfettariamente un danno predeterminato nel suo ammontare: se l’intenzione del legislatore fosse stata di consentire agli Istituti previdenziali il ristoro dei danni patiti avrebbe consentito la determinazione giudiziale, delle conseguenze economiche patite dalla violazione dell’obbligo previdenziale in base agli ordinari criteri civilistici (d. garcea, Il trattamento sanzionatorio della simulazione, Altalex, 2003, n. 318). La previsione di una sanzione proporzionale, invece, risponde evidentemente anche ed altresì ad un effetto afflittivo che si combina con il carattere civilistico di ristoro del danno (m. cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2001, 240).



E’ chiaro che “disapplicando” la norma l’Amministrazione incide sul portato normativo (vulnerando l’intenzione legislativa alla disincentivazione preventiva e retributiva nei confronti dei datori) e, di fatto, si sostituisce al legislatore.



Il datore sanzionato non potrebbe, nel caso, godere della speciale riduzione prevista in caso di oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi (art. 116, co. 10, legge 23 dicembre 2000, n. 388) in quanto limitata alle sole omissioni e non anche all’evasione contributiva e né eccepire l’assenza di responsabilità psicologica, ritenuta irrilevante nelle sanzioni civili previdenziali dalla giurisprudenza (Cass.,, S.U., 14 aprile 1994, n. 3476, in Giust. civ. Mass. 1994, 484 s.m..; cfr., Cass., 24 giugno 2000, n. 8644 in Giust. civ. Mass. 2000, p. 1400. Cass., 19 giugno 2000, n. 8324 in Giust. civ. Mass. 2000, p. 1336) a cagione del loro carattere di ristoro del danno presunto iuris et de iure patito dagli enti previdenziali.


Le sanzioni costituiscono conseguenze automatiche dell’inadempimento e sono poste allo scopo di rafforzare l’obbligazione contributiva risarcendo in misura predeterminata dalla legge il danno cagionato all’istituto assicuratore “sicchè non è consentita alcuna indagine sull’imputabilità o sulla colpa in ordine all’omissione di tale pagamento” eccezion fatta per l’indagine sulla intenzionalità quale linea discretiva per distinguere l’ipotesi omissiva dalla più gravemente sanzionata evasione , come chiarito nella sentenza che qui si annota.



Residua, pero’, una responsabilità dell’Istituto per l’erronea assicurazione fornita in seno alla precedente circolare. Analogizzando la giurisprudenza formatasi nei casi di erronea informazione fornita dall’INPS con atti amministrativi, il titolo di responsabilità non è pacifico poiché un orientamento risalente lo qualifica quale extracontrattuale (Cass. 24 aprile 2001, n. 6047; in Guida Norm., 11 luglio 2001, 124, p. 34, con nota di R. De Ritis), demandando al giudice ordinario la competenza sulla controversia, mentre quello più recente (Cass., 24 aprile 2004, n. 7859 in Sett. giur. 2004, 1) esclude che si tratti di una ordinaria azione di responsabilità per danni, ma lo configura quale tipica azione di responsabilità contrattuale, di competenza del giudice del lavoro ai sensi dell’art. 442 cod. proc. civ., argomentando in ordine al rapporto giuridico che si instaura tra l’ente creditore e il datore debitore.








Donatello Garcea


Direzione Generale – INPS


(il presente scritto è frutto delle personali conclusioni dell’autore e non riflette l’ermeneusi dell’Istituto)






 
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