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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m... 10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....
19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
La Banca d´Italia ed il Ministero della Giustizia hanno firmato un accordo di collaborazione per accelerare i tempi di pagamento, da parte dello Stato, degli indennizzi ai cittadini lesi dall´eccessiva durata dei processi (legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”).
... 26/11/2014
Sentenza Corte giustizia europea precariato: vittoria! Giornata storica.
La Corte Europea ha letto la sentenza sull´abuso dei contratti a termine. L´Italia ha sbagliato nel ricorrere alla reiterazione dei contratti a tempo determinato senza una previsione certa per l´assunzione in ruolo.
Si apre così la strada alle assunzioni di miglialia di precari con 36 mesi di preca... 02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
La Consulta boccia la norma d´interpretazione autentica di cui all’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede c...
27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....
25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
... 05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...
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venerdì 13 febbraio 2004
LEGGE PINTO E CAUSE DI LAVORO: SE PERDE L AZIENDA GLI STIPENDI PREGRESSI NON SONO DANNO PATRIMONIALE - Sezione prima civile - sentenza 15 novembre 2004-19 gennaio 2005, n. 1094 con commenti del Prof. Sergio Sabetta Dr. Federico Colletti Commento alla Sentenza 15 novembre 2004 – 19 gennaio 2005 n. 1094 della Cassazione- sezione prima civile. ( Prof. Sergio Sabetta ) La sentenza in esame della suprema Corte analizza in forma esaustiva l’applicazione del diritto all’equa riparazione di cui alla legge 24.3.2001 n. 89, l’importanza della stessa deriva dai limiti che vengono chiaramente definiti nell’applicazione di questo nuovo istituto di derivazione comunitaria - Convenzione europea dei diritti dell’uomo . La decisione nasce da un ricorso contro il decreto in data 5.6.2003 della Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro, con cui si è ritenuto sussistere la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, Cedu, per l’irragionevole durata del processo a seguito del presunto ritardo della decisione con cui è stata disposta la reintegra nel posto di lavoro per un illegittimo licenziamento. Il “termine ragionevole” viene individuato in diciotto mesi “in relazione alla utilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, alla delicatezza della lite, alla necessità di espletare attività istruttoria e di discutere la causa previo deposito di note difensive”, a fronte di un giudizio protrattosi per 36 mesi. Il ministero della Giustizia lamenta che il periodo di diciotto mesi per il giudizio di primo grado è stato individuato in forma apodittica senza sufficiente motivazione ed in contrasto con i canoni forniti dalla Corte Europea che fissa in tre anni la durata del giudizio di primo grado e in due anni quello del giudizio d’appello, né l’art. 2 della L. n 89/01 stabilisce il sussistere del danno per la sola circostanza dell’irragionevole durata ma deve legarsi ad un effettivo danno derivante in via diretta ed immediata dalla durata eccessiva della procedura. La suprema Corte ribadisce che la nozione di ragionevolezza non ha carattere assoluto, bensì relativo e non si presta ad una predeterminazione certa e predefinita, in quanto va definita singolarmente per ogni fattispecie valutandone la complessità, il comportamento seguito dalle parti e dal giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi ( Cassazione 6856/04 e 4207/04 ). Si tratta, pertanto, di una valutazione nel merito riservata alla Corte territoriale e censurabile solo per vizi di motivazione dalla Cassazione che dovrà comunque considerare il tipo di provvedimento ( decreto ) e le esigenze di speditezza ( Cassazione 123/04; 13741/03; 6168/03 e 1600/03 ). Viene inoltre acclarata la natura indennitaria e non risarcitoria del danno, pertanto non si richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cc in quanto l’obbligazione “…non nasce ex delicto, ma ex lege,…”, perciò prescinde dalla colpa dell’agente ( Cassazione 6071/04 e 119/04). Può accadere senz’altro che vi sia un riflesso indiretto dell’esito della causa sulla determinazione del pregiudizio subito dalla parte per la durata del giudizio, ma comunque occorre mantenere una netta distinzione tra i due oggetti in modo da evitare che il giudizio sulla congruità dei termini del processo si trasformi in una indiretta replica al merito della precedente controversia ( Cassazione 6163/03 ); infatti debbono escludersi nella determinazione del danno risarcibile tutti quei pregiudizi connessi alla decisione di merito del processo ( Cassazione 3143/04 ). Occorre pertanto individuare quali siano gli effetti pregiudizievoli del ritardo limitandosi esclusivamente a quelli casualmente riconducibili alla violazione della L. n. 89/2001, ossia a quei danni che sono effetto immediato di tale ritardo ( Cassazione 2382/03 ) ; in tal seno anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo richiede la prova di un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura ed il danno ( Corte europea dei diritti dell’uomo, 16 maggio 2002 N c. Italia ), principio fatto proprio dalla suprema Corte ( Cassazione 15106/04 ) per cui si incorre nel vizio di violazione di legge nell’ipotesi di risarcimento di danno patrimoniale in modo automatico per eccessiva durata del processo. Consegue che nell’ipotesi di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione spetta a tutte le parti del processo a prescindere dall’esito della causa, “…salvi i casi di abuso…” ( Cassazione 13211/03; 6163/03; 3973/03 3410/03 e 1069703 ), in altre parole vengono esclusi dal risarcimento coloro che risultino avere promosso lite temeraria o resistito artatamente in giudizio con fini dilatori per conseguire la fattispecie prevista dall’art. 2 della L. n.89/01, configurando in tal modo un’ipotesi di abuso del diritto ( Cassazione 3410/03 ). Da quanto esposto la Corte ne deduce l’inesistenza del danno patrimoniale non essendo stato dimostrato nell’ipotesi in esame, ma derivandolo automaticamente dalla durata processuale ritenuta irragionevole, pertanto accoglie il ricorso del ministero della Giustizia, cassa la sentenza e rinvia alla Corte di appello di Potenza in diversa composizione. La motivazione della presente sentenza appare estremamente ampia ed articolata esaminando i vari aspetti sulla natura dell’obbligazione, la struttura del nesso di causalità, l’eventuale rilevanza dell’esito della lite e la natura del danno. Tuttavia l’aspetto più rilevante su cui merita particolarmente soffermarsi è dato dalla individuazione dei limiti dell’uso dell’istituto sia per la determinazione del danno che nell’ipotesi in cui possa essere applicato, evitandone, per quest’ultimo caso, un abuso processuale al fine di ottenere surrettiziamente un riesame nel merito della decisione ribaltando sulla collettività i costi processuali per cause perse nel merito approfittando, secondo un uso distorto del diritto, delle difficoltà gestionali e delle complessità procedurali. Commento alla Sentenza 15 novembre 2004 – 19 gennaio 2005 n. 1094 della Cassazione- sezione prima civile. del Dr. Federico Coletti La sentenza in commento si distingue per l’attenta analisi dei criteri interpretativi riguardanti la legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo), meglio nota come legge “Pinto”. La controversia nasce dal fatto che una società s.p.a. era stata chiamata in causa da un suo ex dipendente, il quale agiva in giudizio contro la prima per essere stato licenziato illegittimamente; pertanto, si chiedeva la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Il giudizio di primo grado si era protratto per tre anni e quattro mesi e la società s.p.a. presentava ricorso alla Corte di Appello deducendo la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito Cedu), per il mancato rispetto del “termine ragionevole” del processo. Infatti la società s.p.a. lamentava un danno patrimoniale subito per il protrarsi irragionevole della durata del processo, in quanto la stessa era stata condannata a corrispondere al lavoratore, ai sensi dell’art. 18, comma 4, legge 300/70, le retribuzioni dalla data del licenziamento alla reintegra ed agli enti, assicuratore e previdenziale, i premi ed i contributi maturati nelle more di un giudizio protrattosi per 36 mesi. La Corte di Appello -sezione lavoro- mediante “decreto”, ha ritenuto sussistere la violazione dell’art. 6 del Cedu, riconoscendo alla società s.p.a. di aver subito un danno patrimoniale. Contro questo decreto proponeva ricorso in Cassazione il Ministero della Giustizia, ottenendone l’accoglimento ed il rinvio nuovamente alla Corte di Appello. I giudici della Corte Suprema, con la sentenza in commento, prendono spunto dal caso in esame per compiere un’attenta analisi dell’art. 2 della legge 89/01 e dei suoi criteri interpretativi, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali formatisi recentemente. La suddetta norma, infatti, prevede che chiunque abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per il mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 del Cedu, ha diritto ad una “equa riparazione”. Attraverso questa legge si è voluto in qualche modo “nazionalizzare” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, ponendosi, il legislatore nazionale, in linea con le recenti indicazioni costituzionali e convenzionali. All’origine dell’emanazione della legge Pinto è principalmente la volontà di evitare sanzioni per il nostro Paese, arginando le ripetute condanne riportate dall’Italia ad opera della Corte di Strasburgo, ed adeguarlo a quanto disposto dall’art. 13 del Cedu. Passando ad analizzare i punti salienti della motivazione in commento, la Cassazione affronta e risolve uno dei problemi applicativi principali della legge Pinto: quello relativo all’individuazione del limite oltre il quale la durata di un processo possa essere ritenuta irragionevole. Uniformandosi ad un indirizzo giurisprudenziale maggioritario, i giudici di legittimità affermano che la nozione di “ragionevole durata del processo” non ha carattere assoluto bensì relativo: è lo stesso legislatore che, all’art. 2, co. 2, legge 89/01, fornendo al giudice dell’equa riparazione (rectius Corte di Appello) dei criteri di valutazione specifici da utilizzare nell’accertamento della durata del processo (es. la complessità del caso, il comportamento delle parti e del giudice, ecc.), dimostra di avere riguardo alla specificità del caso concreto, non accettando cadenze temporali rigide. Altro punto di particolare interesse che la motivazione in commento affronta è costituito dall’inquadramento dogmatico del risarcimento previsto dalla legge 89/01 in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo. Precisamente l’art. 2 della suddetta legge attribuisce, a chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per la violazione dell’art. 6 del Cedu, il diritto ad una “equa riparazione”. Anche su questo punto i giudici della Corte Suprema aderiscono ad un orientamento maggioritario che attribuisce a tale riparazione natura indennitaria, non risarcitoria: questa non richiede l’accertamento di un illecito ex art. 2043, né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico dell’agente. Inoltre, si aggiunge, l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione non si configura come obbligazione ex delicto, bensì come obbligazione ex lege, riconducibile ai sensi dell’art. 1173 c.c. ad ogni altro atto o fatto idoneo a costruire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico. Il decreto della Corte di Appello viene dai giudici di legittimità criticato sotto vari aspetti. Tra quelli più rilevanti si sottolinea la mancanza, da parte della corte territoriale, di distinzione tra l’oggetto della causa antecedente e quello della causa di equa riparazione ex art. 2 legge 89/01, in quanto questa non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia. Infatti la sentenza impugnata aveva fatto derivare “in modo automatico” il danno patrimoniale subito dalla società dal fatto in sé della durata del processo, commisurandolo erroneamente all’indennità (di natura risarcitoria) ex art. 18, legge 300/70 che la società è stata condannata a pagare al lavoratore licenziato. Per di più, si osserva da parte della Cassazione in commento, verrebbe a mancare quel nesso di causalità diretta tra la durata del processo ed il danno patrimoniale subito dalla società (costituito dal risarcimento del danno subito dal lavoratore licenziato illecitamente, previsto dall’art. 18 legge 300/70), che, secondo la giurisprudenza costante di legittimità, costituisce requisito indispensabile per ottenere l’equa riparazione di cui alla legge n. 89/01. In conclusione, il danno patrimoniale risarcibile ex legge Pinto è soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, che costituisce l’effetto immediato e diretto di tale ritardo, al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale. Cassazione - Sezione prima civile - sentenza 15 novembre 2004-19 gennaio 2005, n. 1094 Secondo il ricorrente, la Corte d appello «ha ritenuto erroneamente ed apoditticamente, senza alcuna congrua e sufficiente motivazione, di individuare in soli diciotto mesi il termine ragionevole di durata del giudizio di primo grado: con ciò ponendosi in contrasto con i canoni forniti dalla Corte Sopranazionale, che fissa in tre anni la durata del primo grado del giudizio e in due anni quella del giudizio di appello, e senza peraltro dar conto del processo logico-giuridico che l ha portata ad individuare un termine tanto riduttivo». La delicatezza della lite ed il riferimento ai criteri della giurisprudenza europea avrebbero invece dovuto condurre a ritenere ragionevole la durata del primo grado di tre anni e quattro mesi. Secondo un principio più volte affermato, che va qui ribadito, la sospensione dei termini processuali nel periodo dall 1 agosto al 15 settembre ha, infatti, carattere generale e le eccezioni a questa regola, elencate nell articolo 3, legge 742/1969, hanno carattere tassativo, in quanto è questa una norma eccezionale, quindi, di stretta interpretazione, non suscettibile di esegesi estensiva e, a fortiori, di applicazione analogica. Si tratta di una configurazione che, come condivisibilmente è stato rimarcato, si impone «anche per evidenti esigenze di certezza del diritto e di garanzia della difesa delle parti, che devono essere in grado di desumere espressamente ed univocamente dal testo della legge -e non ricavare per implicito attraverso opinabili operazioni interpretative- se, relativamente alle controversie cui esse siano interessate, i termini processuali siano o non sottratti alla generale sospensione nel periodo feriale» (Cassazione 12964/02, richiamabile, benché concernente una diversa materia; successivamente, cfr. Cassazione 7077/03; 6963/03) . Orbene, la controversia in esame non è compresa tra quelle alle quali non è applicabile la succitata sospensione e neppure è riconducibile tra quelle di cui all articolo 409 Cpc. In contrario non rileva, infatti, che il diritto all equa riparazione sia invocato in riferimento ad un giudizio di siffatta natura, trattandosi di elemento insufficiente a connotare la presente controversia della identica qualificazione, dato che essa ha ad oggetto un diritto che non trae origine da quel rapporto, che dello stesso costituisce mera occasione, poiché il fatto genetico va identificato in una violazione della Cedu in relazione ad un determinato processo (Cassazione, Su 1340/04). Inoltre, per questa considerazione è del tutto ininfluente, al fine di derivarne l inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale, la circostanza che la causa sia stata decisa dalla «Corte di appello di Potenza magistratura del lavoro», che peraltro attiene ad un profilo sul quale questa Corte non è chiamata a pronunciarsi, in difetto di ogni rilievo delle parti sia nel processo a quo che nel presente giudizio di legittimità, essendo comunque appena il caso di osservare che la succitata designazione attiene alla ripartizione degli affari all interno dell ufficio giudiziario e non involge questioni di competenza (Cassazione 5368/03; 3702/87; 5755/82). in applicazione di questo principio, poiché il decreto, secondo quanto emerge dagli atti, è stato notificato il.23 giugno 2003 ed il ricorso, anche avendo riguardo alla notifica ex officio, risulta notificato il 23 settembre 2003 -quindi, tenuto conto della sospensione dei termini nel periodo feriale, nel termine dell articolo 325 Cpc - deve affermarsi che l eccezione dì inammissibilità non merita accoglimento. La valutazione in ordine alla ragionevolezza della durata del processo costituisce, quindi, una tipica valutazione di merito e si risolve in un apprezzamento di fatto che, in quanto tale, è riservato alla Corte territoriale ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizi di motivazione (ex multis, Cassazione 123/04; 13741/03; 13211/03, 11715/03; 1600/03; 3/2003) . Peraltro, la sufficienza della motivazione del decreto occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (decreto) -benché esso abbia natura sostanziale di sentenza- e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare (Cassazione 6168/03; 1600/03; 8/2003; 16256/02; 15852/02) . Ciò implica che l onere motivazionale deve ritenersi adempiuto, qualora si accerti che il giudice dell equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall articolo 2, comma 2, cit., esplicitando le ragioni del suo convincimento, non essendo necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie 2.3. - In riferimento al secondo profilo di censura, concernente il riconoscimento e la quantificazione dei danno patrimoniale asseritamente subito dalla controricorrente, va ricordato che dalla violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all articolo 6, paragrafo 1 della Cedu, deriva il diritto ad una equa riparazione della parte che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di questa violazione (articolo 2, comma 1, legge 89/01). Dunque, «il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l effetto immediato di tale ritardo e a condizione che si ricolleghi al ritardo stesso sulla base di una normale sequenza causale (íd quod plerumque accidit)» (Cassazione 2382/03). In altri termini, danno risarcibile è quello che costituisce «conseguenza "immediata e diretta" del fatto causativo» (ex articolo 1223, richiamato dall articolo 2, comma 3, legge 89/01, attraverso il rinvio all articolo 2056 Cc, Cassazione 123 /04), in quanto sia ricollegabile al superamento del termine e trovi causa nel non ragionevole ritardo nella definizione del processo. In tal senso va ricordato che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell uomo è appunto consolidata nel richiedere, in riferimento al danno patrimoniale, la prova di «un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura» ed il danno (Corte europea dei dirittidell uomo, 16 maggio 2002, N.c. Italia; 28 marzo 2002, M. c. Italia; 12 febbraio 2002, 1 c. Italia; 11 dicembre 2001, S. c. Italia) , in forza di un principio fatto proprio da questa Corte, sottolineando -proprio in relazione al danno patrimoniale- che l equa riparazione «compete solo nella misura in cui essa valga ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo» (Cassazione 15106/04; cfr. anche Cassazione 7524/04) . «atti o fatti idonei a produrla secondo l ordinamento giuridico», non fondano alcun automatismo nella sua attribuzione -in particolare, nel l attribuzione del danno patrimoniale- in favore del soggetto che lamenti la violazione del suo diritto alla ragionevole durata del processo. La società soccombente ha dedotto che il danno patrimoniale subito a causa della durata del succitato giudizio sarebbe costituito appunto dalla somma che è stata condannata a pagare al lavoratore «dal licenziamento alla reintegra». Questa prospettazione rende, quindi, necessario ricordare che la norma da ultimo richiamata prevede che il giudice, con la sentenza con la quale ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, «condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento ( ... ) stabilendo un indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell effettiva reintegrazione», disponendo altresì che «in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto». Inoltre, anche a causa dell omessa esplicitazione di ogni considerazione in ordine alla natura dell indennità ex articolo 18, comma 4, cit., alle ragioni che la fondano, alle modalità con le quali deve essere determinata, l affermazione, l identificazione e la quantificazione del danno sono state operate in violazione dei principi richiamati ai §§ 2.3.2 e 2.3.3., quindi erroneamente. In particolare, non risulta in alcun modo apprezzata la circostanza che l obbligo di corrispondere la somma de qua è per una quota fissa ed irriducibile ed ha carattere di penale che trova radice esclusivamente nel rischio di impresa. Per la residua parte, come è stato sopra precisato, essa non è oggetto di un obbligazione derivante dalla reviviscenza della lex contractus, costituendo la retribuzione non corrisposta a seguito del licenziamento e fino alla reintegrazione nel posto di lavoro un mero parametro per la liquidazione del danno da risarcire, derivante dall illecito civile imputabile al datore di lavoro. La Corte d appello non ha, quindi, tenuto conto che danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell articolo 2, legge 89/01, è soltanto quello configurabile quale conseguenza della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, che costituisce l effetto immediato e diretto di tale ritardo al quale deve ricollegarsi sulla base di una normale sequenza causale. La mancata, corretta valutazione dell oggetto del giudizio che si è ritenuto protrattosi per una durata irragionevole e della natura dell obbligo a carico del datore di lavoro ha peraltro anche condotto alla omissione della doverosa valutazione del suo esito e delle ragioni stesse dell obbligo posto a carico della società, che invece occorre considerare ed apprezzare allo scopo di valutarne l incidenza sull identificazione e sulla misura del pregiudizio patrimoniale asseritamente subito dalla parte a causa di detta eccessiva durata. L esistenza del danno patrimoniale, in buona sostanza. neppure ha costituito oggetto di specifica dimostrazione, come invece è necessario per quanto precisato al § 2.3.4., ma è stato derivato automatica mente dalla ritenuta durata irragionevole del processo. In conclusione, sussiste il vizio denunciato e, conseguentemente, il ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza cassata, con rinvio della causa alla stessa Corte di appello di Potenza, ma in persona di giudici diversi, che provvederà al riesame della controversia, conformandosi principio enunciato, pronunciandosi inoltre anche sulle spese dì questo giudizio di legittimità. PQM La Corte, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Potenza, in diversa composizione. |
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