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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m...


10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....


19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
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26/11/2014
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02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
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27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....


25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
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05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...









   sabato 11 settembre 2004

Contraddittorio, procedimento di repressione della condotta antisindacale e impugnativa del licenziamento individuale: aspetti problematici.

dell Avv. Lucia e Marco

Contraddittorio, procedimento di repressione della condotta antisindacale e impugnativa del licenziamento individuale: aspetti problematici.

1) Il “vaso di Pandora”.

“Controversie di lavoro puramente individuali, prive cioè di qualsiasi incidenza sull’interesse dei gruppi a cui le parti aderiscono, esistono solo nell’armamentario concettuale dei giuristi e, in particolare, degli studiosi di procedura civile. I rapporti sociali conoscono soprattutto conflitti tra gruppi; e ciò risulta particolarmente evidente quando si controverte sull’inesistenza o sulla portata di diritto o di obblighi posti dai gruppi nell’esercizio della loro autonomia”.

Questo giudizio icastico di Federico Mancini pone bene in rilievo la difficoltà dell’argomento che ci accingiamo a trattare, la cui problematicità deriva soprattutto dalla scarsezza e dalla equivocità dei dati normativi.

L’art.28 Stat.dei Lav. può essere immaginato, volendo utilizzare un riferimento alla mitologia greca, come “il vaso di Pandora” in cui sono racchiusi tutti questi “mali ”.

Probabilmente, l’art.28 “Statuto dei Lavoratori” rappresenta, la più importante trovata del legislatore nell’ambito del diritto del lavoro: con questa norma, infatti, “il diritto sindacale viene portato nelle aule giudiziarie”.

In effetti tutta la Legge 20 maggio 1970, n.300 irradia novità: basta considerare che i VI titoli dello Statuto sono il frutto dell’incontro di due filoni sistematici che fanno da sfondo a tutta la storia dei rapporti tra sindacato e processo civile. Risultano, infatti, dal combinarsi di due linee fondamentali : quella denominata “costituzionale-individuale” e quella più moderna detta “linea sindacale-collettivo” che permette, finalmente ai sindacati di strappare un diritto d’ingresso nei luoghi di lavoro .

Con la concessa tutela giurisdizionale agli interessi della “collettività dei lavoratori ”, nell’ambito della già conquistata presenza nelle fabbriche, i sindacati non vincono solo una battaglia ma tutta la guerra .

Negli ultimi anni, “il vaso di Pandora” ha impegnato dottrina e giurisprudenza che a seguito “del suo invio sulla terra”, hanno valorizzato gli artt.39, 1°comma, e 40 Cost. come fonte non solo di diritti individuali, sia pure a rilevanza collettiva, ma, dal combinato disposto con gli artt.2, 3, 2°comma e 41 Cost., anche di diritti collettivi immediatamente riferibili alle associazioni sindacali e, in applicazione dell’art.24, 1°comma Cost., ritengono come pacifico che le associazioni sindacali postcorporative siano legittimate a far valere in giudizio i “propri” diritti alla libertà ed attività sindacale, nonchè all’esercizio del diritto di sciopero .

Sembrerebbe che così come gli dei inviarono sulla terra Pandora con il vaso carico di mali per punire gli uomini del furto del fuoco ad opera di Prometeo così i legislatori hanno “inviato” sulla terra “il vaso” per “punire” i datori di lavoro del loro comportamento antisindacale.

Il procedimento ex art.28 St.Lav. viene infatti messo in moto dagli organismi locali delle associazioni nazionali che vi abbiano interesse “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

Segue una breve esposizione di alcuni dei problemi che si presentano. Accenniamo, in primis, al problema del coordinamento tra l’azione collettiva e quella individuale facendo riferimento ad una recente decisione della Cassazione, datata 21 ottobre 1997, n.10339, in cui si afferma che “la condotta antisindacale prevista nell’art.28 dello statuto dei lavoratori può comportare anche la lesione dell’interesse individuale del singolo lavoratore (come nell’ipotesi, in specie ricorrente, di trasferimento di dirigente sindacale) dando vita in tal caso ad azioni distinte, autonome e senza reciproche interferenze; ne consegue che l’attualità di tale condotta e la permanenza dei suoi effetti, requisiti la cui positiva verifica condiziona la concessione del provvedimento repressivo a carico del datore di lavoro, vanno accertate con riferimento agli interessi dei quali il sindacato è portatore esclusivo e non possono esser condizionate dalle vicende relative all’eventuale azione individuale intrapresa dal lavoratore; con l’ulteriore conseguenza che da un lato l’accoglimento di quest’ultima in via interinale e con provvedimento cautelare non fa venir meno l’interesse del sindacato alla proposizione del ricorso ex art.28 e che, d’altro lato e specularmente la mancata proposizione di tale ricorso nell’attualità del comportamento lesivo non legittima la successiva proposizione dello stesso quale reazione ad una condotta non più attuale, sol perché la vicende successive del giudizio promosso dal lavoratore sono state sfavorevoli a quest’ultimo”.

Con la Sentenza 12 giugno 1997, n.55295 le Sezioni Unite sono, invece, intervenute autorevolmente su un’altra delle questioni dibattute: quella relativa alla rilevanza dell’elemento psicologico ai fini della configurabilità della condotta antisindacale.

Tentando di dirimere un contrasto interpretativo emerso nell’ambito delle Sez.lavoro le Sezioni Unite hanno dichiarato l’assoluta irrilevanza del requisito della “intenzionalità” riferibile al datore.

Anche in dottrina si è diffusa la convinzione dell’irrilevanza del profilo psicologico e della specifica intenzione datoriale di nuocere .

Un’altra incertezza riguarda il limite temporale intrinseco per l’esperibilità della procedura ex art.28

Secondo l’indirizzo più seguito, che costituisce ormai ius receptum sia per la giurisprudenza di legittimità che per quella di merito, l’art.28 non può essere utilizzato per la repressione di comportamenti antisindacali futuri, ostando a ciò la ratio e la lettera della norma citata nonché la considerazione che, ammettendo la possibilità di pronunce giudiziarie relative a comportamenti futuri del datore di lavoro, si riconoscerebbe al giudice l’esercizio di una funzione normativa che eccede l’attività giurisdizionale; pertanto, nel caso in cui il comportamento o gli effetti antisindacali non siano più esistenti, non è possibile esperire la procedura ex art.28, ma solo azione nelle forme ordinarie del rito del lavoro.

Altra tesi adottata dai giudici di merito propende per l’ammissibilità del ricorso ex art.28 anche qualora il comportamento del datore di lavoro sia già esaurito, allorchè se ne tema la continuazione o la reiterazione.

Dunque, Pandora aprì il vaso lasciando fuggire tutte le sciagure, tranne la speranza; a noi “aperto” il vaso non rimane che la “speranza” di compiere un’analisi dell’argomento il più possibile completa ed esauriente.

2) Natura del procedimento.

Si è a lungo discusso per stabilire la natura di questo procedimento.

La dottrina e la giurisprudenza in un primo momento hanno tentato accostamenti ora al procedimento monitorio, ora al procedimento cautelare ex art.700c.p.c..

Ognuna di queste configurazioni, però, coglie qualche aspetto saliente del procedimento ex art.28, senza peraltro riuscire appieno a darne una visione globale, perchè “la sua fisionomia è tale da non lasciarsi sussumere in nessuno schema prefissato ”.

Un’autorevole dottrina definisce cautelari i provvedimenti sommari aventi la funzione di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale tramite la neutralizzazione del pregiudizio, grave ed irreparabile, che può derivare all’attore dalla durata del processo a cognizione piena e la struttura caratterizzata dalla provvisorietà (essendo provvedimenti cd “privi di attitudine al giudicato” e dalla rigida strumentalità rispetto al processo ordinario .

Si può subito affermare che il decreto ex art.28 St.Lav. non può essere compreso tra i provvedimenti aventi queste caratteristiche.

Non ha anzitutto la funzione di neutralizzare il pregiudizio derivante dall’attesa della sentenza di merito.

L’urgenza e la celerità che ne caratterizzano la prima fase del procedimento si motivano, infatti, con la necessità di reprimere i comportamenti antisindacali che “sono stati valutati dalla legge come portatori di disvalori sociali molto marcati e idonei ad alterare, se non repressi nell’immediato, il naturale svolgimento delle relazioni economiche e sociali ”.

La necessità di una risposta immediata dell’ordinamento giudiziario è, dunque, dettata dalla gravità della condotta antisindacale; in questo senso si giustifica anche la funzione della sanzione penale che assiste l’inosservanza dell’ordine giudiziale.

Il decreto ex art.28 St.Lav. oltre a non avere la funzione, non pare possedere peraltro neppure la struttura del provvedimento cautelare, data la sua idoneità a consolidarsi in un giudicato formale, in caso di mancata opposizione o di estinzione del giudizio di opposizione.

Proprio la natura non cautelare del decreto ex art.28 St.Lav. ha costituito argomentazione decisiva ai fini di escludere l’applicabilità del reclamo ai sensi dell’art.669terdecies c.p.c. , e l’inammissibilità del ricorso al procedimento ex art.700c.p.c., contestualmente a quello di cui all’art.28 St.Lav .

Queste caratteristiche rendono il decreto ex art.28 St.Lav più assimilabile ai procedimenti sommari di cui al titolo I del libro quarto del c.p.c..

Il procedimento di repressione della condotta antisindacale pare, infatti, avere maggiori elementi comuni con il procedimento d’ingiunzione, ex artt.633ss. c.p.c., del quale condivide la sommarietà dell’accertamento, l’idoneità a trasformarsi in cosa giudicata formale in caso di mancata opposizione o di estinzione del giudizio di opposizione, nonchè la configurazione dell’eventuale giudizio di opposizione come primo grado di merito e non come giudizio di impugnazione, con ogni conseguenza in riferimento all’onere della prova, alla proponibilità di eccezioni nuove e di domande riconvenzionali.

A parte questa comunanza, si registrano solo differenze.

Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, infatti, risponde ad esigenze di urgenza e non di economia processuale e si svolge nel contraddittorio delle parti , per cui il decreto non è un provvedimento inaudita altera parte.

Ci troviamo a discorrere, dunque, di un istituto in un certo senso paradossale.

Infatti, se da un lato è un procedimento sommario a cognizione incompleta e superficiale in contraddittorio, destinato a concludersi con un decreto suscettibile di divenire immutabile se non impugnato attraverso opposizione innanzi al pretore in funzione di giudice del lavoro, e per tali peculiarità non è assimilabile con alcuno dei procedimenti speciali disciplinati dal quarto libro del codice di procedura civile, dall’altro lato è proprio a queste disposizioni che occorre fare spesso riferimento per integrare le lacune del testo legislativo.

E’ un istituto davvero problematico, un vero “vaso di Pandora”!

3) Problemi inerenti alla legittimazione.

Uno dei punti maggiormente dibattuti di questo “vaso di Pandora” è consistito nella esatta identificazione dei legittimati all’azione speciale in discorso. I problemi maggiori si sono presentati soprattutto per l’identificazione dei legittimati attivi.

La lettera dell’art.28 è chiara ed univoca, nel riconoscere la legittimazione ad agire in sede di procedimento per la repressione della condotta antisindacale agli organismi locali delle associazioni nazionali che vi abbiano interesse.

In seguito all’entrata in vigore dello Statuto la dottrina e la giurisprudenza tentarono, però, di ampliare la sfera dei soggetti legittimati.

Sul problema si pronunciò in modo esplicito la sentenza 6 marzo 1974 n.54 della Corte Costituzionale, la quale dichiarò infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate osservando che “lo speciale procedimento introdotto dall’art.28 non modifica nè restringe o limita in alcun modo le tutele già assicurate dalle leggi e dallo stesso Statuto dei lavoratori ai diritti dei lavoratori, dei datori di lavoro e delle associazioni sindacali, ma, come si è detto, è diretto a reprimere in via d’urgenza e provvisoria comportamenti diretti contro l’attività e la libertà sindacale.

E’ evidente pertanto la razionalità della norma, la quale attribuisce questo mezzo di per se stesso, ad organizzazioni responsabili che abbiano una effettiva rappresentatività nel campo del lavoro e possano operare consapevolmente delle scelte concrete, valutando, in vista di interessi di categoria di lavoratori e non limitatamente a casi isolati e alla protezione di interessi soggettivi di singoli lavoratori, protetti questi dalle norme comuni spettanti ad ogni individuo, l’opportunità di ricorrere alla speciale procedura prevista dall’art.28” .

Nel 1995 la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato infondata la questione di costituzionalità, prospettata in riferimento agli artt.2, 3, 18, 21, 24, 35 e 39 Cost., dell’art.28 L.300/70, nella parte in cui riconosce la legittimazione ad agire esclusivamente agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali .

Nel 1997 è stata la Cassazione a “dettare legge”. Con la pronuncia n.7368 dell’8 agosto 1997, ha stabilito che “a norma dell’art.28 dello Statuto dei lavoratori (legge n.300 del 1970), che attribuisce la legittimazione attiva per il procedimento di repressione della condotta antisindacale agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse”, sono privi di legittimazione gli organismi locali o nazionali delle confederazioni sindacali, in quanto non incardinati in un sindacato di categoria nazionale ad anche privi di interesse ad agire, non rientrando nei loro compiti istituzionali la tutela di una specifica categoria. D’altra parte, permetterebbe una facile elusione delle finalità perseguite dal legislatore consentire ad un sindacato di dimensione locale di acquisire la legittimazione in base alla mera adesione ad una conferenza intercategoriale a carenza nazionale. Nè, come confermano le pronunce della Corte Costituzionale in materia (cfr. le sentenze n.54 del 1974 e 334 del 1988), può sospettarsi di illegittimità costituzionale lo strumento processuale in questione, senza sottrazioni degli ordinari mezzi di tutela giurisdizionale agli altri soggetti”.

La giurisprudenza prevalente ha individuato gli “organismi locali” di cui al richiamato art.28 con le articolazioni maggiormente periferiche che l’associazione sindacale abbia nella propria struttura, come tale più vicina alle concrete situazioni di lavoro che devono essere tutelate, riconoscendo la legittimazione “solo all’organismo la cui competenza territoriale sia in relazione immediata con la situazione stessa”; la dottrina più acuta, invece, ha attenuato la prospettata identificazione sostenendo che “l’organismo legittimato non deve necessariamente coincidere con quello più periferico bensì con l’organismo sì periferico ma corrispondente a quello che, sul piano concreto, gestisce l’attività sindacale e che, quindi, effettivamente, risente, subendone gli effetti, della realizzata o realizzanda condotta antisindacale denunciata” .

Non si richiede, invece, a differenza dell’art.19 legge n.300/70, che gli organismi siano maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nè intercategoriali, o siano aderenti a confederazioni, essendo sufficiente il suddetto criterio della diffusione sul territorio nazionale.

Sulla scorta di questi pacifici principi, la giurisprudenza ha tratto numerosi corollari:

a) la legittimazione ad agire ex art.28 St.Lav. non spetta alle RSA ; sul punto è stato precisato che la RSA può però stare legittimamente in giudizio quale interveniente adesivo dipendente ex art.105, 2° c., c.p.c.;

b) la legittimazione ad agire spetta solo per la tutela dei diritti sindacali lesi nei luoghi di lavoro a opera dei singoli datori di lavoro, non per la tutela di un interesse collettivo generale e/o a dimensione nazionale ;

c) la legittimazione ad agire ex art.28 St.lav. non spetta alle strutture nazionali delle associazioni sindacali, neppure nel caso in cui queste siano prive di articolazioni locali ;

d) La legittimazione spetta alla struttura locale dell’associazione sindacale nazionale anche quando quella non sia legata a questa da un rapporto di immedesimazione organica, dal momento che l’organismo locale, stante la libertà di organizzazione sindacale, può collegarsi alla struttura nazionale del sindacato mediante qualsiasi modulo organizzativo ;

e) deve essere esclusa la legittimazione ad agire di cui si parla nei confronti degli organismi locali delle confederazioni ;

f) è carente di legittimazione ad agire ex art.28 St.Lav. il presidente nazionale dell’associazione sindacale nonchè la delegazione regionale dell’associazione sindacale .

Identificato il sindacato che può utilizzare lo schema del procedimento ex art.28 ci soffermeremo brevemente su chi è il destinatario dell’eventuale ordine del giudice emesso con il decreto di accoglimento.

In merito all’individuazione del soggetto legittimato passivo dell’azione di repressione della condotta antisindacale sono emersi una serie di interrogativi relativamente alla possibilità di una lettura estensiva del riferimento esplicito da parte dell’art.28 St.Lav. al “datore di lavoro”, oppure, al contrario, di una necessaria rigida aderenza al dato normativo letterale.

Il testo dell’art.28 della L.300/70 è chiarissimo nell’affermare che “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale... il pretore...ordina al datore di lavoro...la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti” .

La giurisprudenza si è espressa nel senso di limitare la legittimazione passiva di soggetti che non fossero datori di lavoro .

Si segnala anche una singolare decisione in cui si è ravvisata la legittimazione passiva del datore di lavoro, ma in ragione di un comportamento posto in essere da un gruppo di datori di lavoro sotto l’egida di un’associazione padronale. In questo caso è stata affermata la legittimazione passiva di ognuno dei singolo datori di lavoro coinvolti .

La dottrina, invece, in particolare Proto Pisani ha ritenuto legittimata passivamente “non solo la società legata da un formale rapporto di lavoro con i lavoratori nei cui confronti è stato posto in essere il comportamento denunciato ma anche la società che, avendo il controllo della società datrice di lavoro, ha influito sul comportamento antisindacale di quest’ultima” ; ritiene, inoltre, legittimata passiva una associazione sindacale di datori di lavoro ove il comportamento antisindacale sia messo in atto direttamente da tale associazione e non dai singoli datori di lavoro ”.

Questa estensione è ritenuta possibile in quanto il livello di effettività dell’art.28 St.Lav. impone di interpretare l’espressione datore di lavoro nel senso di soggetto dotato di potere imprenditoriale capace di limitare gli “interessi collettivi al libero dispiegarsi dell’attività sindacale e più in generale alla salvaguardia della correttezza del conflitto industriale ”.

Non è, invece, pacifica la soluzione da adottare nei confronti dei dirigenti investiti di supremazia gerarchica anche se privi del potere di rappresentanza legale della società datrice di lavoro: infatti, “il dirigente, proprio nella misura in cui sia dotato di poteri si supremazia gerarchica, agisce in nome e per conto dell’imprenditore cui la condotta antisindacale è di conseguenza imputabile ”.

4) Principio del contraddittorio e art.28 dello Statuto dei Lavoratori.

Il procedimento ex art.28 St. dei Lav., rientra tra “i processi o procedimenti che attingono provvedimenti con attitudine al giudicato” e prevedono il contraddittorio eventuale.

Con l’art.28 il legislatore ha tratteggiato un procedimento nel quale, pur rispettando l’urgenza del provvedere è formalmente assicurato il contraddittorio, essendo la convocazione delle parti prevista come un momento essenziale nell’iter procedimentale, ai fini dell’emanazione del decreto pretorile.

Si tratta ora di verificare quali sono i moduli tecnici per l’attuazione del principio la cui garanzia formale risulta, sia pure in embrione, per tabulas dalla previsione dell’art.28.

“Quasi dominata da una sorta di incubo di possibili censure d’illegittimità costituzionale, l’attuazione pratica del procedimento ne è venuta alterando le linee, ispirandosi sostanzialmente a più collaudati modelli di procedimento, se non addirittura al processo ordinario ”.

Dal che discende l’importantissima conseguenza che la procedura ex art.28 L.300/70 si coordina agli artt.99, 100, 101, 102 e segg. c.p.c., per quanto riguarda i presupposti processuali, e in primo luogo l’interesse ad agire e a contraddire in giudizio, il principio del contraddittorio e il diritto di difesa del terzo espresso dall’art.102c.p.c..

La “conseguenza delle conseguenze” è, dunque, che anche in questo procedimento si presentano i problemi tipici dell’integrazione del contraddittorio, del litisconsorzio e dell’intervento.

E’ del 1997 la decisione con la quale Cassazione ha stabilito che “nel caso in cui, dopo l’inizio della procedura di repressione della condotta antisindacale ex art.28, l.n.300 del 1970, un datore di lavoro diverso da quello convenuto in giudizio succeda a titolo particolare in rapporti di lavoro incisi dal denunciato comportamento antisindacale, non sussiste la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tale soggetto, benchè lo stesso possa essere coinvolto dai provvedimenti volti a rimuovere gli effetti della condotta antisindacale denunciata, data l’estensione nei confronti del successore degli effetti della sentenza pronunciata contro l’alienante, a norma dell’art.111, quarto comma, c.p.c.”.

Ancora alle aule giudiziarie facciamo riferimento quando enunciamo l’inammissibilità dell’intervento adesivo dipendente nel procedimento ex art.28 L.n.300/70 di un’associazione di datori di lavoro. La giustificazione che viene offerta a questa esclusione verte sul carattere sommario ed urgente del procedimento per cui risulta inapplicabile l’art.105 c.p.c.. Si deve, inoltre, tenere conto che si tratta di un rimedio speciale in cui destinatario dell’ordine giudiziale può essere unicamente il datore di lavoro.

Piuttosto discordanti si profilano, invece, gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza sull’ammissibilità dell’intervento delle associazioni sindacali dei datori di lavoro nel procedimento de quo.

Secondo alcuni l’intervento adesivo dipendente potrebbe consentirsi all’associazione, statutariamente demandata alla tutela degli interessi sindacali della categoria, qualora esso venga avanzato in relazione al rigetto del ricorso proposto ex art.28 St.Lav. ed al conseguente accertamento della legittimità del comportamento sindacale dell’azienda associata , mentre, ad avviso di altro filone, tale prospettazione non sarebbe meritevole di pregio dal momento che si verte nell’ambito di un procedimento speciale, caratterizzato da particolari requisiti, e soprattutto in considerazione della circostanza che la posizione dell’interveniente, secondaria, dipendente ed accessoria, gli farebbe acquistare la posizione di parte adiuvante, con naturale assoggettamento degli effetti della statuizione che sarà adottata nei confronti della parte adiuvata che, identificantesi nella fattispecie con il datore di lavoro è, però indicato inequivocabilmente dalla legge come l’unico destinatario dell’ordine di rimozione giudiziale della condotta antisindacale .

Un ulteriore passo in avanti nella trattazione delle problematiche oggetto del nostro “viaggio” è dettato dalle fattispecie palesate in giurisprudenza e dall’evoluzione del diritto positivo il cui punto d’arrivo è costituito dall’art.6 L.146/90 che ha introdotto due nuovi commi all’art.28 St.Lav..

Si tratta, quindi, di misurare il processo dell’art.28 St.lav. con le esigenze poste dai processi con pluralità di parti o implicanti per connessione il rapporto facente capo ad un terzo .

A) Prendiamo le mosse anzitutto dai giudizi sulle condotte antisindacali che s’innestano nella concorrenza tra sindacati dei lavoratori, con le quali il datore di lavoro discrimina un sindacato rispetto ad un altro.

Nel caso specifico di controversie in cui il datore discrimina le associazioni rappresentative allo scopo di alterare il rapporto di forza nel gruppo dei lavoratori e di avvantaggiare organizzazioni di comodo o minoritarie, si deve ritenere sussistente in capo al sindacato agente ex art.28 un diritto soggettivo meritevole di tutela.

Sarà, dunque, pronunciato un provvedimento giurisdizionale che, invalidando l’atto sindacale e obbligando il datore di lavoro alla “rimozione degli effetti”, inciderà anche nella sfera giuridica delle associazioni favorite.

Questa inevitabile produzione degli effetti è una conseguenza della natura costitutiva di questa forma di tutela e dell’incompatibilità tra i diritti del sindacato discriminato e di quello favorito .

Pertanto, il soggetto “favorito”, come controinteressato alla invalidazione degli effetti della condotta datoriale discriminatrice, deve essere reso partecipe delle vicende del processo, ed essere chiamato ad integrare il contraddittorio in qualità di litisconsorte necessario.

In caso contrario la tutela giurisdizionale si rivelerebbe del tutto inutile, perchè insuscettibile di conseguire i suoi risultati .

Anche nel caso di procedimento ex art.28, dunque, l’integrazione del contraddittorio è dettata dalla necessità che il procedimento possa concludersi con un sentenza che sia utile per l’attore, quindi a tutela di quest’ultimo, non potendo essere l’atto discriminatorio invalidato e rimosso senza incidere sul diritto inscindibilmente incompatibile dell’associazione favorita.

Quanto sin qui detto in ordine alla posizione di litisconsorte necessario del sindacato “favorito”, fonda la piena ammissibilità di un intervento dello stesso, con il quale, oltre a sanare il vizio di pretermessione, esso faccia valere il proprio diritto autonomo e incompatibile con quello azionato in giudizio .

Data la natura di questo diritto possiamo con certezza affermare che si tratta di intervento principale.

Segue. Contraddittorio e coordinamento tra l’azione collettiva ex

art.28 e l’azione individuale ex art.18 St.Lav..

B) Le condotte datoriali, oltre ad essere plurioffensive in quanto ledono diritti di cui sono portatori i sindacati concorrenti, possono essere in casi particolari plurioffensive perchè lesive pure del diritto di cui è titolare il singolo lavoratore .

Anche in tale ambito si sono riproposti inalterati tutti i problemi processuali implicati dai nessi sostanziali tra i rapporti: quello individuale di lavoro e quello tra il datore di lavoro e sindacato, con la difficoltà ulteriore che in questo diverso ambito i due rapporti sono deducibili in due diversi giudizi promossi con l’azione ex art.18 St.Lav., da un lato, e dall’altro con l’azione ex art.28 St.Lav..

Per comprendere la portata di questi problemi è necessario far luce sull’enigmatico e cruciale rapporto esistente tra l’art.28 e l’art.18 dello statuto dei lavoratori .

Alcuni orientamenti dottrinali hanno ipotizzato una più o meno accentuata identità di oggetto dei due giudizi: tentando di ricostruire una armonia dei giudicati hanno però sacrificato in modo accentuato le esigenze intrinseche delle due forme di tutela.

“Ne risulta per lo più sacrificato il lavoratore, costretto alle forme sommarie e meno garantistiche del procedimento di repressione per non esporre il giudizio ordinario al rischio di un’eccezione di litispendenza o continenza oppure di vederlo sospeso; inchiodato ad un giudicato sul motivo di antisindacalità (...). Al lavoratore veniva, secondo certe ricostruzioni, addirittura precluso l’intervento nella fase sommaria essendo l’accesso al giudizio per il lavoratore condizionato all’eventualità che il processo a cognizione piena sia introdotto a seguito di opposizione. Nel contempo risultava sacrificato pure il diritto del sindacato, nella ricostruzione che aderiva allo schema del litisconsorzio necessario con il singolo lavoratore o al modello della sostituzione processuale, dovendosi supporre il sindacato espropriato della titolarità di un diritto proprio e inchiodato dal giudicato sulla controversia individuale o dalla transazione perfezionatasi tra lavoratore e datore di lavoro” .

Queste sono state alcune ragioni che hanno fatto propendere per l’orientamento opposto e cioè per l’autonomia dei diritti nascenti dalla sfera collettiva e da quella individuale.

In questa nuova prospettiva la diversità delle azioni si misura, dal lato soggettivo, per la diversa sfera di legittimazione ad agire e a contraddire nei due giudizi, dal lato oggettivo, per la diversità di causa petendi o di petitum.

Quanto alla causa petendi, essa nell’azione individuale è costituita semplicemente dalla esistenza di un rapporto individuale di lavoro, nella controversia sulla condotta antisindacale il fatto costitutivo coincide, invece, con un fatto illecito.

Effettuare un salto nella concreta realtà processuale può servire a comprendere meglio questa distinzione.

Nella controversia individuale di lavoro la causa petendi coincide con il fatto costitutivo di ogni diritto del lavoratore: ad esempio nelle controversie sul licenziamento il lavoratore dovrà allegare soltanto la sussistenza del rapporto di subordinazione, ogni altra allegazione in ordine alla esistenza di fatti impeditivi al permanere del medesimo, come la giusta causa o il giustificato motivo, competono al datore di lavoro.

La Corte di Cassazione nel 1997, con le sentenze 10 novembre 1997 n.11092 e 12 novembre 1997 n.11211 ha confermato questa articolazione dell’onere della prova .

E’ chiaro, dunque, che la causa petendi della azione ex art.28 è solo una delle possibili causae petendi che possono essere poste dal lavoratore singolo a fondamento della propria azione individuale ex art.18 St.Lav..

Guardiamo, ora, al petitum. Questa volta ad essere più ampio è il “bene della vita” dell’azione ex art.28 che ricomprende quello della azione ex art.18 St.Lav..

Il lavoratore, infatti, nell’invocare la tutela reale che scaturisce dall’art.18 St.Lav., va alla ricerca della tutela giurisdizionale di tutti gli effetti economici inerenti alla continuità di un rapporto che si assume non interrotto dall’illegittimo esercizio del potere di recesso datoriale, con un provvedimento che coincide con una condanna alla reintegrazione, alle retribuzioni e al risarcimento del danno.

Il sindacato prescinde, invece, dalle implicazioni economiche della continuità stessa, con l’obiettivo principale di vedere reinserito al lavoratore nell’unità produttiva, affinchè lo svolgimento dell’attività sindacale non venga impedita o reso meno facile .

Siamo, dunque, arrivati alla conclusione che le due azioni sono diverse; ma i problemi non sono terminati.

Tornano alla ribalta tutti i problemi relativi all’integrazione del contraddittorio che abbiamo con piacere analizzato in occasione delle controversie individuali di lavoro.

C’è da chiedersi, infatti, se i singoli, quando non hanno proposto azione individuale, siano legittimati a fare interventi nel procedimento ex art.28 “per sostenere le ragioni” dell’organizzazione sindacale (art.105, 2°comma c.p.c.) da loro non deducibili in via autonoma e tuttavia idonee, se accolte, a realizzare anche il loro interesse alla reintegrazione.

La domanda così come è stata formulata necessita di qualche precisazione: è infatti, necessario verificare in quel delle due fasi del procedimento viene effettuato l’intervento.

Nella fase sommaria il singolo potrà sperimentare solo un intervento adesivo autonomo ex art.105, 2° comma c.p.c., senza poter far valere alcuna causa individuale . Con questo, però, non perde la possibilità si assumere nella sede opportuna le iniziative consentite direttamente dalla legge.

Il carattere urgente della fase, sembra impedire anche la chiamata in causa ex art.106 e 107c.p.c..

La musica cambia quando si passa ad eseguire il secondo tempo dello stesso brano: nella fase di opposizione, infatti, l’intervento sembra ammesso anche per far valere, come proprio “diritto relativo all’oggetto”, “dedotto in giudizio” dal sindacato (art.105, 1° comma) , ogni ragione che comunque conduca alla reintegrazione. E il giudicato sembra anzi “coprirle” tutte, in quanto deducibili (...), con conseguente non scindibiità, nè limitata ala mera adiuvatio, forse neanche da parte di chi solo per questa sia stato in giudizio fino ad allora.

Grossi incomprensioni ci sono in dottrina tra chi ritiene ammissibile nel giudizio di opposizione l’integrazione del contraddittorio e l’intervento jussu iudicis, e chi ne ritiene l’esclusione tanto nella fase sommaria quanto in quella di opposizione.

Dell’Olio, che è uno dei sostenitori dell’esclusione, non ritiene che nelle cause dette di plurioffensività sussista “nè il litisconsozio necessario, ex art.102c.p.c., nè comunanza, in senso tecnico, della causa (art.107) tra organizzazione sindacale e singoli” . Ritiene, invece, ammissibile l’intervento sindacale nel procedimento individuale semprechè abbia da proporre vere lamentele per il comportamento antisindacale. Si vuole, infatti, evitare anche in questa ipotesi una ingerenza in controversie per sè esclusivamente individuali.

Sembra che tutto ciò si possa realizzare anche con l’instaurazione ab origine della fase ordinaria in litisconsorzio facoltativo, ammissibile, tra l’organizzazione sindacale e singoli ed anche con la riunione successiva, salva in entrambi i casi la separazione per evitare ritardi o aggravi.

Tornando al punto di partenza circa la necessità di effettuare un coordinamento tra le due azioni possiamo tranquillamente concludere che tale problema si presenta solo quando le due azioni sono proposte nello stesso arco di tempo e solo per evitare il formarsi di giudicati logicamente contraddittori.

In questi casi il giudice, può disporre la riunione dei procedimenti, che risulta addirittura obbligatoria ex art.151 disp.att.c.p.c..

E’ necessario, però, che i procedimenti pendano già entrambi e soprattutto che l’azione ex art.28 si trovi già in fase di opposizione . Il coordinamento non può, infatti, avvenire a discapito della fase sommaria perchè, essendo questa dettata da ragioni d’urgenza, non può essere ritardata in alcun modo per esigenze di armonia di giudicati.

5) Il procedimento: la fase sommaria.

Esaurite tutte, o almeno quasi, le questioni problematiche attinenti all’aspetto sostanziale, svolgeremo ora un analisi tecnico-procedurale del procedimento ex art.28 St.Lav..

Il 1° comma dell’art.28 dello Statuto dice pochissimo in ordine alle modalità di svolgimento del processo nella sua fase sommaria urgente.

La situazione normativa non è cambiata di molto neanche a seguito dell’emanazione della legge 8 novembre 1977, n.847 il cui art.1 prevede che “nelle controversie previste dall’art.28 della l.20 maggio 1970, n.300, ferme restando tutte le norme sul procedimento speciale, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni della legge 11 agosto 1973, n.533”.

Se, però, tutte le norme sono applicabili, non tutte sono compatibili “perchè incidenti su punti o segmenti del procedimento regolati dalla disciplina speciale ”.

La domanda si propone con ricorso che oltre agli elementi di cui all’art.413, n.1 e 2 deve indicare l’esposizione del fatto e le ragioni di ritenuta illegittimità con la richiesta di cessazione e rimozione degli effetti.

Depositato il ricorso, il giudice non può immediatamente provvedere sulle richieste dell’associazione sindacale, ma dovrà prima “convocare” il datore di lavoro e con decreto fissare la data in cui le parti dovranno comparire davanti a sè .

E’ dunque, necessaria l’instaurazione del contraddittorio .

L’art.28 della l.300/70 rende gravoso l’esercizio del diritto di difesa per una delle parti, giacchè contrappone “un sindacato ricorrente, che ha tutto il tempo di far studiare la controversia al suo difensore, di far predisporre il ricorso e di affrontare il materiale probatorio -raccogliere testimoni, far redigere dichiarazioni scritte e addirittura perizie tecniche, reperire altri documenti- al datore di lavoro che viene convocato innanzi al pretore ad horas ”.

Il carattere urgente del procedimento esclude la necessità di assicurare al datore un termine minimo a difesa, così come è da escludere qualsiasi suo onere di costituirsi in modo formale prima dell’udienza. E’, invece, prevista l’obbligatorietà della comparizione personale delle parti per consentire al giudice di interrogarle liberamente “sui fatti della causa” .

Un aspetto di grande importanza e che ha suscitato molti problemi è quello relativo all’istruzione probatoria.

Si tratta di verificare se, data la sommarietà e l’urgenza del procedimento, i principi del rito ordinario vengano rispettati.

L’art.28 si limita a stabilire che il pretore decide “assunte sommarie informazioni” , ma il principio del contraddittorio impone di ritenere che l’istruzione probatoria debba pur sempre avvenire, scusate il bisticcio, nel contraddittorio delle parti.

E’ stato, infatti, giustamente messo in evidenza che il carattere officioso di questo procedimento non esclude la piena applicabilità del principio dispositivo in senso stretto ed in particolare dell’onere dell’allegazione e non esclude il potere della parte di articolare i necessari mezzi istruttori .

Il giudice, inoltre, potrà ex officio disporre l’accesso nei luoghi di lavoro per l’audizione dei testimoni o in altri luoghi anche appartenenti a persone estranee al processo, e riducendo i termini al minimo indispensabile, ammettere informazioni e osservazioni sindacali, “escluse ovviamente le organizzazioni che siano già parte in causa ed anche quelle che potrebbero esserlo, per la presenza di un interesse diretto ed attuale all’esito del giudizio ”. Molte di queste attività sono compiute, anche se non espressamente previste, perchè nella prassi si è diffusa l’esigenza di desommarizzare questa prima fase del procedimento .

Si è iniziati col ritenere che il termine di due giorni sia meramente ordinatorio ; si è proseguito “dilatando l’ambito delle sommarie informazioni fino a ricomprendervi l’assunzione di prove testimoniali, il compimento di indagini ed ispezioni sui luoghi di lavoro, addirittura l’espletamento di consulenze tecniche; parallelamente, l’esercizio della difesa tecnica è stata assicurata alle parti, anche mediante la presentazione di memorie, e pur nei diversi momenti in cui il procedimento si articola; la garanzia della motivazione del decreto è stata addirittura esasperata, palesando clamorosamente l’incapacità di motivare “coincisamente” e, ad un tempo, il vezzo delle esercitazioni retoriche; e siccome ogni cosa ha il suo rovescio, ecco che nell’ambito del procedimento ex art.28 (...) si è ammessa la possibilità di far capo al provvedimento d’urgenza ex art.700 cod. proc. civ. ”.

Terminata l’istruzione probatoria viene emesso il decreto che, sia in ipotesi di accoglimento che di rigetto del ricorso introduttivo, in mancanza di reazione dell’avversario, sub specie di opposizione al decreto, diventa irreformabile.

E’ il contrario di quanto avviene con il provvedimento d’urgenza, di cui all’art.700c.p.c. , la cui caratteristica è quella di aggiungersi, in funzione cautelativa, alla tutela giudiziaria ordinaria, e dunque la procedura ex art.700 resta esclusivamente provvisoria e cautelare, subordinata all’esperimento del procedimento di cognizione ordinaria.

E’ questione controversa se, al momento dell’emanazione del decreto, si possa applicare la disposizione del rito ordinario che prevede l’immediata lettura del dispositivo in udienza: alcuni, infatti, come Proto Pisani, reputano applicabile l’art.429c.p.c. , altri, come, Dell’Olio, ritengono, invece, che la decisione deve essere redatta in un unico contesto, senza alcuna anticipazione o lettura in udienza del dispositivo , soluzione peraltro prevalsa nella prassi giudiziaria.

Segue. Il giudizio di opposizione.

Alla prima fase che si chiude con la pronuncia del decreto, segue una eventuale fase di opposizione.

“Contro il decreto che decide sul ricorso -recita infatti il 3° comma dell’art.28- è ammessa entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti opposizione davanti al pretore in funzione di giudice del lavoro , che decide con sentenza immediatamente esecutiva”.

Molti sono stati i “mali” sprigionati dal “vaso di Pandora”.

Sembra anzitutto necessario soffermare l’attenzione su di un’aspetto di particolare difficoltà esegetica, ossia focalizzare la natura tecnica del giudizio di opposizione.

Nella motivazione di una sentenza del Tribunale di Roma si legge che “l’opposizione avverso il noto decreto... non costituisce una impugnazione bensì lo strumento tecnico per operare il passaggio dalla fase di cognizione sommaria alla fase di cognizione piena dello stesso giudizio di 1° grado” .

L’opposizione instaura, quindi, un giudizio di primo grado a cognizione piena ed esauriente che si svolge con tutte le garanzie proprie del contraddittorio; nè si può argomentare in senso contrario dalla circostanza che il decreto repressivo del Pretore, se non opposto, acquista efficacia irrevocabile, perchè lo sganciamento della permanente efficacia del decreto pretorile dalla necessità di un successivo giudizio di merito, e l’attribuzione al decreto stesso, in difetto di opposizione, del carattere di irrevocabilità proprio del giudicato formale, non è fenomeno ignoto all’ordinamento processuale, ed anzi, connaturale a quei procedimenti sommari per i quali il giudizio di cognizione piena segue solo ove sia proposta opposizione .

Una questione strettamente connessa e dipendente da quella più ampia, già affrontata, circa la natura della lite, è quella della possibilità di proporre domanda riconvenzionale nella fase di opposizione.

A lungo, in dottrina è stata esclusa questa possibilità .

Una decisione del Tribunale di Roma , della quale non si rinvengono precedenti, al quesito anzidetto risponde affermativamente.

Se, infatti, bisogna ritenere l’applicabilità, senza deroghe, della normativa generale, in forza del menzionato rinvio contenuto nella legge del 1977, non si può escludere l’applicazione dell’art.416c.p.c., che disciplina la costituzione del convenuto, e dell’art.418, che detta le regole sulla notificazione della riconvenzionale.

La riconvenzionale può avere ad oggetto anche eventuali pretese, respinte dal pretore in sede sommaria.

Essendo, infatti, pacifico che il giudizio che si instaura in seguito all’opposizione è un ordinario processo di primo grado, non può disconoscersi il diritto del convenuto di reiterare le domanda, non accolte dal pretore nella fase di cognizione sommaria.

Negando, infatti, tale possibilità sul presupposto della necessità di una tempestiva opposizione incidentale , al di là della conseguente incongrua configurazione del giudizio di opposizione quale impugnazione, si verrebbe a ipotizzare una violazione dell’art.24 Cost., per lesione del diritto di difesa del convenuto.

Un altro “male” venuto fuori dal “vaso” è quello relativo al tipo di istruzione da svolgere nel giudizio di opposizione.

Se, infatti, si seguisse alla lettera la disposizione di cui al 1° comma dell’art.28, l’istruzione probatoria consisterebbe soltanto nell’assunzione di “sommarie informazioni” e dovrebbe svolgersi senza l’osservanza del complesso di forme il cui rispetto è imposto dal legislatore nel processo a cognizione piena.

Tutto ciò dovrebbe comportare come conseguenza necessitante che nel giudizio di opposizione l’attività istruttoria dovrebbe essere ripetuta ex novo, nel rispetto del principio del contraddittorio e della garanzia del diritto di difesa, sempre che, i fatti continuino ad essere controversi.

In virtù del processo di “desommarizzazione” è stata offerta la possibilità che il materiale istruttorio acquisito nella fase sommaria sia trasferito del tutto nella fase a cognizione piena, e che il giudizio di opposizione si atteggi soprattutto come controllo di diritto della decisione accolta dal decreto pretorile.

Non ha, invece, suscitato alcuna reazione l’applicabilità degli artt.413ss. c.p.c.: la forma dell’atto di opposizione è quella del ricorso, gli adempimenti successivi alla presentazione del ricorso sono quelli indicati dall’art.415 c.p.c., la costruzione del convenuto avviene con memoria difensiva, e sono operanti le disposizioni processuali in punto di svolgimento dell’udienza di discussione e dei poteri istruttori del giudice.

L’atto con cui si chiude il giudizio di opposizione è la sentenza immediatamente esecutiva che, al pari del decreto emesso al termine della fase sommaria, è suscettibile di passare in giudicato se non viene investito dal rimedio ammesso dalla legge , ed è assistito da tutela penale.



note



Le associazioni sindacali e il nuovo processo, Mancini in Il nuovo processo del lavoro, Padova, 1975, pagg.15ss..

Ovviamente è da intendere come problemi.

Sono necessarie alcune premesse. La preparazione e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori caddero in un periodo di acuta tensione, di trasformazione delle relazioni industriali e di assestamento degli stessi concetti cardine che avevano sino ad allora segnato il diritto sindacale.

Il Progetto di legge che si presentò al Parlamento però, non si distaccava molto da quello reale che aveva segnato gli anni successivi alla fine del “miracolo economico”. Era un modello che poneva al centro dello sforzo di autotutela dei lavoratori il sindacato come associazione, al centro dell’attività sindacale la contrattazione collettiva, al centro della contrattazione collettiva la delega fiduciaria tra lavoratori e funzionari sindacali, tra livelli inferiori e livelli sindacali superiori. Il dibattito parlamentare che portò all’approvazione della legge introdusse in quel modello tutte le contraddizioni che tra il 1968 e il 1970, si erano manifestate all’interno delle fabbriche e del movimento sindacale.

Da questo scontro la fisionomia del progetto governativo uscì profondamente mutata: nacquero nuovi diritti di natura sindacale riconosciuti direttamente ai singoli lavoratori, e questo comportò sicuramente un ampliamento dell’area di incidenza del nuovo istituto processuale, in quanto si ampliò l’area dei diritti sostanziali rilevanti.

La manifestazione più evidente della loro presenza si ritrova nei primi tre titoli: “Della libertà e dignità del lavoratore” (artt.1-13), “Delle libertà sindacali” (artt.14-18), “Dell’attività sindacale” (artt.19-27).

Il secondo e il terzo titolo sono, infatti dedicati alla libertà e all’attività sindacale.

Silvetti, Note sui problemi insoluti dell’art.28 dello “statuto dei lavoratori”, Studi Satta, p.1569.

Costituisce un vero e proprio ribaltamento della giurisprudenza anteriore allo statuto la quale aveva costantemente escluso che le associazioni sindacali di fatto potessero agire in giudizio a tutela degli interessi da esse organizzati.

Attraverso una serie di passaggi logici si permetterà: prima che tutti i diritti azionabili nella forma speciale del procedimento ex art.28, legge n.300/70, possono essere fatti valere dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali e dallo stesso datore di lavoro, anche nelle forme ordinarie, ex art.413ss c.p.c.; poi che i diritti alla libertà ed attività sindacale e all’esercizio del diritto di sciopero possono essere fatti valere nelle forme ordinarie, comprese quelle cautelari ex art.700, anche da associazioni sindacali o da organismi di associazioni sindacali non legittimati ad avvalersi del procedimento speciale ex art.28; e quindi che le associazioni sindacali di fatto postcorporative sono dotate di piena capacità ad essere parte e di agire in giudizio ex art.75 e di legittimazione ordinaria a dedurre in giudizio i diritti di cui si affermano titolari in base alla legge o alla contrattazione collettiva.

Non si tratta di una sanzione ma di un ordine alla cessazione del comportamento e alla rimozione degli effetti.

In Riv.It. Dir.Lav. 1998, I, p.55.

In passato la giurisprudenza ha raggiunto posizioni molto contrastanti.

Secondo un primo orientamento la condotta antisindacale potrebbe configurarsi nel caso in cui esista un’obiettiva idoneità del comportamento datoriale ad impedire o limitare la libertà sindacale: non si renderebbe necessaria una ulteriore indagine sull’intenzione del datore di intraprendere tale lesione.

Un secondo orientamento, del tutto opposto, sostiene invece che il comportamento sia suscettibile di sanzione solo quando sia diretto intenzionalmente a determinare la lesione degli interessi tutelati, affermando che l’eventuale danno riflesso che il sindacato potrebbe subire come conseguenza della condotta in questione non assumerebbe una propria rilevanza giuridica.

Un terzo orientamento è qualificabile come intermedio rispetto ai primi due. Secondo questo se il comportamento possa essere qualificato come civilmente illecito per contrarietà a norma imperativa, non si rende necessaria un’indagine sull’elemento intenzionale; qualora, invece, il comportamento scrutinato, pur presentandosi come obiettivamente lecito, presenti i caratteri dell’abuso del diritto, l’accertamento dell’elemento psicologico diviene indispensabile.

Tra questi si veda Gallo, Condotta antisindacale: intenzionalità, attualità e legittimazione ad agire, Dir. Prat. del lav., 1993, p.1181; Martinucci, Le Sezioni Unite si pronunciano a favore di una tutela “oggettiva” della libertà sindacale, in Riv.It.Dir.Lav. 1998, I, p.55, giustifica l’irrilevanza di tale requisito considerando lo scopo dell’eventuale provvedimento.

E’ la c.d. questione dell’attualità della condotta antisindacale.

Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, Riv.Dir.Proc., 1975, p.606.

Fazzalari, “Profili della cautela”, in Riv.Dir.Proc., 1991, 1; Consolo, Luiso,Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 1991, p.542.

Franceschinis, In tema di reclamabilità ex art.669terdeciesc.p.c. del decreto ex art.28 SL, in Riv.Crit.Lav., 1997, 3, p.665.

Tribunale di Milano, 20 marzo 1997 (ord.), in Riv.Crit.Lav. 1997, 3.

L’incompatibilità deriva dal fatto un procedimento di tutela atipica a carattere residuale, come l’art.700c.p.c., non è proponibile laddove la legge specificatamente prevede, come in tema di repressione della condotta antisindacale, un procedimento d’urgenza tipico.

Bisogna, però sottolineare che il principio del contraddittorio, è notevolmente compresso poichè le modalità della sua realizzazione, a parte la necessaria convocazione del datore di lavoro, sono pressochè esclusivamente rimesse alla discrezionalità del giudice.

Foro it, 1974, I, 963.

In relazione a tale scelta l’ordinamento ha reagito ampliando al massimo la possibilità di uso dell’art.700 da parte di quei soggetti, singoli lavoratori o associazioni sindacali, cui è precluso il ricorso al procedimento ex art.28.

Corte Costituzionale 17 marzo 1995, n.89, in Foro it., 1995, I, 1735 con nota di richiami e nota di Cerri, Una risposta disattenta della corte sul requisito del carattere nazionale del sindacato per la legittimazione al ricorso ai sensi dell’art.28 del c.d. “statuto dei lavoratori”?.

In dottrina si ritiene che la scelta del legislatore si propone di “evitare che lo strumento dell’art.28 venga utilizzato per strategie sindacali decise e portate aventi a livello verticistico (...) mentre lo scolo del procedimento in oggetto è quello di rimuovere gli ostacoli che vengano frapposti all’attività sindacale a livello locale, nel posto di lavoro: dunque una tutela immediata, riservata all’attività sindacale svolta giorno per giorno, a diretto contatto con il datore di lavoro e con l’immediata realtà lavorativa aziendale”, Gallo, Condotta antisindacale: intenzionalità, attualità e legittimazione ad agire, Dir. prat. lav., 1993, 18, 1181.

Carrato, Il processo del lavoro: problematiche applicative in relazione al ruolo delle associazioni sindacali, Arch.Civ., 1994, p.373.

Si vedano tra le tante Pret. Lecce 4 febbraio 1995, in Not.Giur.Lav. 1995, 22; Pret.Roma 4 aprile 1992, in Foro it. 1992, I, 253. In senso contrario Pret. Roma 16 luglio 1990, in Dir. e prat. lav 1990, 2767.

Si veda Pret. Roma 21 febbraio 1996, in Not. giur. lav., 1886, 14 e in Mass,Giur,lav 1996, 159 con nota Figurati; Pret. Latina 21 novembre 1994 in Dir. lav. 1995, II, 462 con nota di Ogriseg; Pret. Roma 21 novembre 1994 in Not.Giur.lav. 1994, 721.

Si veda per tutte Pret. Roma 21 marzo 1995, in Lavoro giur. 1995, 648 con nota Gallo.

Pret. Milano, 16 novembre 1992, in Foro it. 1993, I, 526 e in Riv.it.dir.lav. 1993, II, 873 con nota Bonardi.

Pret. Ferrara 15 marzo 1991, in Orientamenti 1991, 282. In senso contrario Pret. Amantea 20 dicembre 1986, Foro Cosentino 1987, fasc.2. 38.

Pret. Roma 4 aprile 1992.

E’ bene precisare che questa espressione in conformità ai principi generali nel capitolo secondo deve essere interpretata come unico destinatario del contenuto del provvedimento e non dei suoi effetti.

E’ ormai chiaro che il provvedimento produce effetti nella sfera giuridica di entrambe le parti che pertanto sono legittimate passive rispetto al provvedimento.

Una interpretazione letterale della norma fa sembrare che è stata dettata unicamente per reprimere la condotta antisindacale del datore di lavoro, il quale risulta così l’unico soggetto nei cui confronti può essere esperita la procedura di cui all’art.28 St.lav..

Tra le tante, Cass. 25 luglio 1984, n.4381 in Riv.it.dir.lav. 1985, II, 568; Pret.Roma 27 gennaio 1986 in Mass.Giur.Lav.1986, 366; Pret.Napoli 19 febbraio 1991 in Foro It. 1991, I, 2929; Pret. Roma 26 luglio 1991 in Foro It., 1992, I, 254.

Pret. Genova 12 ottobre 1988 in Dir.prat. lav., 1988, 3397.

Proto Pisani, La partecipazione delle associazioni sindacali al processo, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna e Roma, II ed., 1987, p.566-567.

In senso favorevole anche Pret. Roma 15 giugno 1983, in Foro It., 1983, I, 2883.

In senso positivo Pret. Roma 29 marzo 1976, Foro it., 1977, I, 216.

Proto Pisani, La partecipazione delle associazioni sindacali al processo, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna e Roma, II ediz., 1987, p.567.

Così Proto Pisani, La partecipazione del sindacato al processo, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, II ediz, 1987, p.567.

Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, Riv.Dir.Proc., 1975, p.606.

Sez.lav., 8 agosto 1997, n.7368.

Pretura di Livorno 2 giugno 1992, in Foro it. 1992, 2533.

Si veda Pretura Firenze 24 aprile 1992 in Foro it. 1992, 2535 ss..

Si veda Pretura Livorno 2 giugno 1992 in Foro it. 1992, 2533.

“Norme di coordinamento sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge”.

Si tratta del sindacato “favorito” dalla condotta datoriale e del lavoratore del rapporto individuale nelle condotte plurioffensive.

Il litisconsorzio potrebbe essere escluso soltanto da un’eventuale compatibilità tra diritto invocato e diritto del terzo beneficiato, quando la condotta datoriale ottemperante all’ordine ripristinatorio non incida necessariamente nella sfera del terzo “favorito”.

L’esigenza di chiamare il controinteressato si è palesata più diffusamente in giurisprudenza nelle ipotesi di esercizio di poteri dell’imprenditore con i quali un dipendente è discriminato a favore di un altro (licenziamento; CIG; assunzione; promozione) oppure in caso di discriminazioni per ragioni di sesso ai sensi dell’art.15 l. 9 dicembre 1977, n.903.

Il sindacato interveniente formula una domanda nei confronti del datore di lavoro per evitare che la condotta di quest’ultimo ottemperante all’ordine di rimozione degli effetti possa ledere i diritti di cui per legge l’interveniente è titolare.

Ci stiamo riferendo a licenziamenti, sanzioni, trasferimenti, sospensioni per C.I.G. nei confronti del lavoratore sindacalizzato.

I lavoratori sono titolari di un diritto alla stabilità del posto di lavoro che racchiude in sé anche interessi di natura sindacale; ma questi interessi sono tutelati dall’ordinamento non in quanto tali, ma attraverso il diritto alla reintegrazione come provvedimento tipico e comune ad ogni ipotesi di licenziamento illegittimo senza distinzioni di sanzione tra licenziamenti dettati da ragioni sindacali e licenziamenti di altro tipo. La differenza tra l’art.18 e l’art.28 è da ricercare nelle conseguenze di questa premessa: l’art.18 non consente una tutela differenziata degli aspetti sindacali, perchè non consente una scomposizione del diritto alla stabilità del posto di lavoro nei vari interessi che lo compongono; l’art.28, invece, consente al sindacato proprio una simile scomposizione, con una tutela diretta degli interessi sindacali contenuti nel diritto alla stabilità del posto di lavoro. Le due azioni si pongono, dunque, su piani diversi, perchè hanno oggetto diverso, pur riferendosi alla medesima vicenda reale.

L’armonia di cui si parla è stata raggiunta attraverso l’assorbimento forzato in un giudizio unitario di entrambi i rapporti.

Così Cecchella, Repressione della condotta antisindacale e terzi (a seguito della L.12 giugno 1990, n.146), in Riv.It.Lav., 1992, p.508-509.

Con la sentenza 10 novembre 1997 n.11092 la Corte ha stabilito che “anche a seguito dell’entrata in vigore della l.11 maggio 1990 n.108 il lavoratore licenziato ha l’onere di provare i requisiti dimensionali richiesti dall’art.18 della l.20 maggio 1970 n.300 (come modificato dall’art.1 della l.n.108 del 1990) per potere conseguire la reintegrazione nel posto di lavoro (con la conseguenza che la relativa contestazione del datore di lavoro integra una mera difesa, non soggetta alle preclusioni stabilite dagli art.416 e 437c.p.c.). Spetta invece al datore, per sottrarsi agli effetti di cui alla tutela obbligatoria della l.15 luglio 1966 n.604, che configura il regime generale d tutela del lavoratore licenziato, provare che si versa in una delle fattispecie previste dall’art.4 della l.n.108, atteso il carattere eccezionale e residuale del recesso ad nutum”.

Con la sentenza 12 novembre 1997, n.11211, ha poi stabilito che “nel caso in cui il lavoratore, ai fini dell’applicabilità dell’art.18 della l.20 maggio 1970 n.300, abbia fatto riferimento al numero dei dipendenti occupati nell’intera azienda, spetta al datore di lavoro, che opponga essere il lavoratore addetto ad un cantiere costituente unità produttiva medesima (della quale spetta poi al lavoratore provare il requisito dimensionale prescritto dall’art.35 della citata legge), atteso che detta unità non è più necessariamente integrata da un cantiere, il quale, come pluralità di mezzi e di persone dislocati in un determinato posto, può anche far parte indistintamente dell’azienda stessa senza alcuna autonomia”.

Pertanto il petitum dell’art.28 St.Lav. prescinde da un accertamento intorno alla continuità del rapporto e dalla condanna del datore agli effetti conseguenti, ha ad oggetto un fatto illecito e si dirige verso la sua rimozione attraverso una condanna del datore ad una condotta di ricostituzione del rapporto.

“Se così non fosse, la formulazione di un’istanza ex art.28, (...) potrebbe fungere da “veicolo” per cause individuali, pur miranti allo stesso risultato, in ordine alle quali sarebbe da un lato ingiustificata la compressione dei termini e modi del processo, per le parti e per il giudice, da un altro incongrua la forma di decisione con decreto, ed esclusione per contro l’adozione di quella della sentenza, non potendo prevalere, al riguardo, le norme sul “procedimento speciale”, così Dell’Olio, L’art.28 della legge 20 maggio 1970, n.300: profili processuali, in il processo del lavoro nell’esperienza delle riforme, Milano, 1985, p.194.

L’intervento sarà fatto nelle forme di cui all’art.419c.p.c..

Così Proto Pisani, La partecipazione delle associazioni sindacali al processo, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna e Roma, II ed., 1987, p.593.

Dell’Olio, L’art.28 della legge 20 maggio 1970, n.300: profili processuali, in Il processo del lavoro nelle esperienze della riforma, Milano, 1985, p.196.

Questa necessità è dettata dal fatto che il rito deve interamente soggetto alle disposizioni delle controversie individuali, esigenza soddisfatta, nel procedimento in questione appunto nel giudizio di opposizione.

Norme di coordinamento tra la legge 11 agosto 1973, n.533, e la procedura di cui all’art.28 della legge 20 maggio 1970, n.300.

Dell’Olio, L’art.28 della legge 20 maggio 1970, n.300: profili processuali, in Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, a cura dell’I.N.P.D.A.I., Milano, 1985, p.166.

In questa udienza, in ipotesi di contumacia del convenuto, il giudice dovrà verificare d’ufficio che il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e, ove ravvisi l’esistenza di un vizio, dovrà ordinare, ex art.162c.p.c., la rinnovazione della notificazione del ricorso al datore di lavoro nelle forme che riterrà opportuno prescrivere.

In ipotesi di mancata comparizione di entrambe le parti all’udienza fissata dal pretore, una parte della dottrina ritiene che il procedimento debba essere archiviato, considerando, peraltro questa l’unica ipotesi di chiusura per inattività delle parti; altra parte, invece, ritiene che questa mancanza possa essere valutata dal giudice, al fine della decisione, ma non impedisce che una decisione venga assunta, giacchè imprescindibile è la convocazione delle parti, non la loro effettiva comparizione in udienza.

Quanto alle modalità di instaurazione, in assenza di qualsiasi disposizione al riguardo, oltre alla adozione della notificazione, in considerazione di ragioni particolari d’urgenza, potrà ammettersi che avvenga secondo le forme più idonee al raggiungimento dello scopo ex art.121c.p.c., e cioè anche affidando l’incombenza alla polizia giudiziaria ovvero anche tramite l’uso del telefono, in alcuni casi ad horas, senza un minimo termine per comparire.

Colesanti, definisce questi casi patologici e ritiene che dovrebbero essere esclusi da una visione della norma nel quadro delle garanzie costituzionali delle difesa, e quindi dello stesso contraddittorio, specie in quanto li si ravvisi preordinati anche ad assicurare l’imparzialità del giudice.

Satta-Punzi, Diritto processuale civile, XII ed., Padova, 1996, p.1298.

E’ questa una disposizione tipica del giudizio a cognizione piena che, per assicurare la realizzazione del contraddittorio, è ritenuta applicabile anche a questa fase sommaria.

Il richiamo agli artt.415, 2°comma e 420, 1°comma è contenuto nell’art.1 l.847/77 nell’espressione “convocate le parti”.

La formula è utilizzata anche dall’art.689, 1°comma c.p.c. a proposito dei provvedimenti che il giudice può emettere inaudita altera parte, a seguito di una denuncia di opera nuova o di danno temuto.

Alle parti è dunque permesso di esibire in giudizio documenti e chiedere l’audizione dei testimoni.

Il riferimento è all’art.421, 3°comma c.p.c..

Così Dell’Olio, L’art.28 della legge 20 maggio 1970, n.300: profili processuali, in Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, a cura dell’I.N.P.D.A.I., Milano, 1985, p.170

Ormai dovrebbe essere chiaro che l’attuazione pratica del procedimento si è ispirata al procedimento ordinario a tutti gli effetti.

Redenti usa l’espressione “non termine”.

Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, Riv.Dir.Prc., 1975, p.606.

Sul possibile contenuto di questo provvedimento si è sviluppato un ampio dibattito. Il legislatore, infatti, non avendo individuato in modo tipico gli estremi della condotta antisindacale, non poteva non adottare una disposizione atipica ed elastica nella previsione del contenuto del provvedimento del giudice: il primo dato che emerge dalla lettura dell’art.28, infatti, è la genericità dell’espressione “ordina la cessazione del comportamento antisindacale e la rimozione degli effetti”, genericità che si presta a ricomprendere una gamma svariatissima di provvedimenti.

Svolte queste premesse di estremo interesse è interessante effettuare una rassegna dei dispositivi di accoglimento dei procedimenti emanati ex art.28 St.Lav..

Da una analisi di prima approssimazione emerge che il numero indubbiamente maggiore comporta:

a) obblighi (derivati o originari) di fare;

b) obblighi di tollerare o consentire;

c) obblighi di pagare.

E’, invece, relativamente esiguo il numero delle condanne a non fare. Rari sono stati, poi, i dispositivi con cui si è pronunciato formalmente un provvedimento di annullamento.

Sempre in ordine al contenuto del provvedimento del pretore, è opportuno svolgere qualche chiarimento in ordine alla possibilità di emettere vere e proprie “condanne in futuro”, problema, questo, in un certo senso collegato alla connessione dell’incidenza dell’intervento giudiziale con l’attualità della condotta antisindacale.

Non può disconoscersi la validità giuridica e la congruità di quei dispositivi, supportati anche dallo strumento di tutela sotto il profilo della perseguibilità penale ex art.650 c.p. in caso di mancata osservanza da parte del datore di lavoro destinatario dell’ordine, che contengono l’ordine diretto al datore di lavoro di astenersi in futuro da un comportamento puntualmente determinato. Tale interpretazione è legittimata, infatti, dalla formula piuttosto lata utilizzata dallo stesso art.28, nella parte in cui si afferma: “ordina la cessazione del comportamento antisindacale”, e dalla stessa funzione di rafforzamento propria di questo tipo di comando, affermante l’inibitoria, che garantisce una migliore tutela giurisdizionale dei diritti del sindacato e dei lavoratori. Anzi, è spesso, proprio quest’ordine integrativo che sortisce un’efficacia più incisiva nei riguardi del datore di lavoro, non potendosi prescindere dalla salvaguardia di un’esigenza di impedire una reiterazione dell’illecito in futuro.

Tale ordine comporta, infatti, la cessazione e non una mera interruzione; pertanto ove il datore, dopo una breve “pausa”, proseguisse in questo suo comportamento, violerebbe l’ordine che gli è stato rivolto. Solo in questo senso si può, dunque, ritenere possibile la “condanna in futuro”.

Su tale provvedimento, per certi versi, si modella il decreto repressivo di condotta antisindacale.

Secondo questa impostazione, il giudice può dare immediata lettura del dispositivo in udienza ex art.429c.p.c., riservandosi di depositare in cancelleria il decreto completo di motivazione e dispositivo nel termine di cui all’art.430c.p.c..

A questa limitazione Dell’Olio oppone la possibilità, “e anzi, normalità, della “riserva” (art.186), in relazione alla quale parti e giudici ritengono di solito più proficua, per l’esposizione delle “ragioni” delle prime (art.186, cit.), la forma scritta delle “note”, consentita sia da una norma generale (art.180) sia dal rito del lavoro (art.429, 2°comma), che quella discussione orale, valorizzata da quest’ultimo proprio in connessione con la pronunzia immediata (artt.420, 4°comma, 429, 1°comma, cit.)”, L’art.28 della legge 29 maggio 1970, n.300. profili processuali, in Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, a cura dell’I.N.P.D.A.I., Milano, 1985, p.170.

In mancanza di comunicazione, è da ritenere che si applichi il termine di decadenza di cui al 1°comma dell’art.327.

Una parte della dottrina ritiene che in ipotesi di contumacia del convenuto, ove il decreto non gli sia egualmente comunicato, troverà applicazione l’art.327, 1°comma, e in ipotesi di contumacia involontaria il capoverso dell’art.327.

Prima della L.847/77 la competenza spettava al Tribunale.

A seguito dell’emanazione di questa legge, con la modifica del 2° e 3° comma dell’art.28 è stato affermato esplicitamente che il giudizio di opposizione si svolge nelle forme del rito speciale del lavoro ex 413 e segg. e dunque il giudice competente a conoscere dell’opposizione non può non essere il pretore in funzione del giudice del lavoro.

Tribunale di Roma, 10 giugno 1988.

Questa tesi, ormai comunemente condivisa, per cui il giudizio di opposizione è giudizio ordinario di primo grado fu accolta e condivisa subito dopo la promulgazione della L.300/70. Basta considerare fra gli altri, Assanti e Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Padova, 1972, 365; Freni e Giugni, Lo Statuto dei lavoratori, Milano, 1971, 110.

Nel senso, invece, che “l’opposizione (da proporsi, al pari dell’appello, in forma di citazione) dà vita ad un procedimento d’impugnazione avente la struttura di un ordinario procedimento di cognizione di secondo grado”, si espresse (Ghezzi, Mancini, Montuschi), Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, 431; in senso analogo Simi, L’opposizione contro il decreto di cui all’art.28 dello statuto dei lavoratori è giudizio di primo grado?, in Dir.lav., 1973, I, 426.

E’ una caratteristica comune a tutti i “processi o procedimenti a cognizione sommaria” categoria, a cui appartiene anche il decreto ex art.28.

Così Tarzia, Manuale di diritto del lavoro, p.273

Tribunale di Roma 10 giugno 1988.

La tempestiva opposizione incidentale non è, peraltro, istitutita dal Legislatore del 1977.

In questo caso il rimedio offerto è l’appello.


 
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