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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m... 10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....
19/05/2015
Eccessiva durata dei processi: indennizzi più veloci ai cittadini lesi
La Banca d´Italia ed il Ministero della Giustizia hanno firmato un accordo di collaborazione per accelerare i tempi di pagamento, da parte dello Stato, degli indennizzi ai cittadini lesi dall´eccessiva durata dei processi (legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”).
... 26/11/2014
Sentenza Corte giustizia europea precariato: vittoria! Giornata storica.
La Corte Europea ha letto la sentenza sull´abuso dei contratti a termine. L´Italia ha sbagliato nel ricorrere alla reiterazione dei contratti a tempo determinato senza una previsione certa per l´assunzione in ruolo.
Si apre così la strada alle assunzioni di miglialia di precari con 36 mesi di preca... 02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
La Consulta boccia la norma d´interpretazione autentica di cui all’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede c...
27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....
25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
... 05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...
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mercoledì 8 settembre 2004
Contraddittorio, procedimenti monitori e cautelari e rito del lavoro dell Avv. Lucia De Marco 1) Il contradditorio e i processi speciali. La qualifica di “speciale” attribuita ad un procedimento non ha di per sè alcun significato preciso: la formula giova solo a contrassegnare una deviazione della struttura del procedimento dallo schema astratto del processo contenzioso, ritenuto “a priori” come un modello ordinario ; siamo dunque in presenza di un superamento di questo modello imposto dall’esigenza di tutela che dà vita ad ogni istituto, si tratta di un adeguamento alle concrete esigenze della realtà . La deviazione dei “procedimenti speciali” rispetto al modello ordinario, è da ravvisare, essenzialmente, nella diversa attuazione che viene a ricevere il principio del contraddittorio; quest’ultimo domina ogni figura di processo , manifestando la partecipazione degli interessati all’iter formativo di un atto. Tuttavia, anche se il contraddittorio è preordinato ad assicurare che il succedersi delle varie “situazioni” segnanti il corso del processo, corrisponde all’esercizio di poteri, facoltà e oneri dei soggetti su piede di simmetrica parità, è pur vero che non in tutti i tipi di processo il contraddittorio “si articola mediante poteri (e facoltà e doveri) uguali per contenuto e numero, che anzi può, di volta in volta, essere realizzato dalle norme in forma quantitativamente e qualitativamente diverse” . Tuttavia, non può non apparire come una stranezza che vi siano figure di procedimenti in cui non sia garantita la partecipazione degli interessati alla formazione dell’atto, e senza che ciò comporti attentato alla efficacia e validità del provvedimento così emanato. E se alla luce dell’art.101 c.p.c. ciò non segna che il concretarsi delle deroghe, problemi delicati vengono invece a porsi con riferimento all’esaltazione che, sub specie del diritto di difesa, il principio del contraddittorio ha ricevuto dall’art.24 della Costituzione . La portata di questi problemi viene ridimensionata quando si considera che l’eguaglianza delle parti nel processo, di cui il contraddittorio vuole essere garanzia, è di per sè ben lungi dall’escludere la varietà delle forme processuali, e, dunque, pur delle possibili modalità di attuazione del contraddittorio medesimo; il principio esige solo che, qualunque sia la struttura procedimentale adottata per rispondere alle varie esigenze di tutela, vi sia spazio in essa per la partecipazione degli interessati su piede di parità nell’esplicazione delle loro difese. Il vero problema, invece, e ben più grave, è quello che viene subito a profilarsi, circa il momento in cui tale partecipazione debba poter avvenire, se necessariamente in via preventiva ai fini della stessa formazione del provvedimento, ovvero anche in via successiva, per l’efficacia ed il controllo del provvedimento medesimo. Questo è l’unico problema che viene a presentarsi volendo porre a raffronto l’art.101 c.p.c., che consente la deroga legislativa all’attuazione del contraddittorio anteriormente alla pronuncia, e l’art.24 comma 2° della Costituzione, che esige il rispetto del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento. I processi e/o i procedimenti speciali, secondo un’accreditata dottrina, rispetto al processo ordinario di cognizione, si suddividerebbero in: a) processi a cognizione piena ; b) processi o procedimenti giurisdizionali a cognizione sommaria ; c) processi o procedimenti interlocutori . 2. Problematiche relative al contraddittorio nella tutela cautelare. Il processo cautelare è stato collocato tra i processi o procedimenti “interlocutori”, caratterizzati dal contraddittorio differito. Il provvedimento è emesso, infatti, inaudita altera parte, vale a dire che nel procedimento della sua formazione non è rispettato il principio del contraddittorio . Tale esclusione è giustificata dal fatto che la preventiva audizione del controinteressato farebbe svanire la pratica efficacia del provvedimento richiesto, o quanto meno, ritardando l’emanazione dello stesso, lo priverebbe della sua utilità. E’, dunque, una scelta obbligata per l’ordinamento che riconosca nella funzione cautelare una forma di tutela apprezzabile. L’ordinamento, però, dopo aver previsto schemi procedimentali in cui fa difetto la preventiva attuazione del contraddittorio detta una minuziosa disciplina proprio allo scopo di garantire il diritto di difesa del controinteressato , predisponendo, dunque, il contraddittorio “differito”. Il provvedimento autorizzativo di sequestro perde efficacia se non è eseguito entro i trenta giorni dalla pronuncia, e la misura cautelare, ancorché eseguita, si caduca se il sequestrante non osserva le disposizioni che gli impongono di provocare entro brevi termini il contraddittorio vuoi per la convalida, vuoi per il merito se la causa non è già pendente; con lo stesso decreto, con il quale sono disposti i provvedimenti immediati in materia di nuova opera e danno temuto, i provvedimenti d’urgenza, i provvedimenti possessori, è fissata l’udienza per la comparizione delle parti ai fini del controllo, nel contraddittorio fra di esse, dei provvedimenti medesimi; così come, ex art.697 c.p.c., deve essere disposta la notificazione immediata del decreto alle parti non presenti all’assunzione degli atti d’istruzione preventiva. In tutte queste ipotesi, l’onere di provocare il contraddittorio è connaturato alla struttura stessa del procedimento, rappresentandone in momento essenziale pena la caducazione degli effetti del provvedimento emanata. Segue. I sequestri ed il rito del lavoro. I problemi di coordinamento che si pongono per i sequestri giudiziari previsti dall’art.670 c.p.c., nonché per il sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. , discendono essenzialmente dalla particolare struttura di tali misure cautelari, caratterizzate dal requisito della strumentalità, cioè dalla necessità che la misura cautelare si coordini con la futura, o già pendente, tutela di merito.. La strumentalità si atteggia in modo diverso per ciascun provvedimento assicurativo, acquistando una sua particolare connotazione a seconda del modo di operare ed incidere della misura cautelare sulla singola situazione giuridica sostanziale dedotta . Così, presupponendo il sequestro giudiziario una controversia sulla proprietà o sul possesso, in questo caso la strumentalità si manifesta nel collegare il provvedimento cautelare al giudizio ordinario, assicurando una custodia o gestione temporanea dei beni sequestrati. Mentre, avendo il sequestro conservativo la sua ratio nel fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, il collegamento strumentale è con il futuro, utile esercizio dell’azione esecutiva. Per quanto attiene al procedimento, risultante dalla nuova ed organica disciplina procedimentale uniforme introdotta dalla legge di riforma n.353 del 1990, si deve riflettere su alcune questioni: a) l’individuazione del giudice competente a conoscere dell’istanza cautelare a norma dell’art.669ter c.p.c: la legge di riforma ha attribuito la competenza a conoscere delle istanze cautelari, proposte ante causam o in corso di causa, al giudice di merito , e nel contempo ha eliminato i vecchi criteri di competenza cautelare che in passato avevano agevolato il deplorevole fenomeno del “forum shopping” cautelare ; b) l’art.669 sexies, c.p.c., prevede due forme procedimentali attraverso le quali si snoda la concessione della misura cautelare, una ordinaria e l’altra eccezionale. Il primo comma dell’art.669sexies prevede, infatti, la concessione della misura cautelare con ordinanza, previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ; il secondo comma, invece, offre la possibilità che la misura cautelare, su richiesta dell’istante , sia concessa inaudita altera parte mediante decreto motivato previa assunzione, se ritenuta necessaria, delle sommarie informazioni, quando dalla previa convocazione della controparte deriverebbe un pregiudizio per l’attuazione della misura cautelare. Tuttavia, la garanzia del contraddittorio non è eliminata ma solo differita rispetto all’emanazione del provvedimento “quod differtur non aufertur” : quindi, con il decreto motivato che concede la misura cautelare, deve essere fissata l’udienza per la comparizione della controparte dell’istante da tenersi nei successivi quindici giorni, assegnando all’istante un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e dello stesso decreto alla parte destinataria della misura cautelare. A tale ultima udienza, il giudice, sentite le parti e compiuti gli atti istruttori nel rispetto del contraddittorio, pronuncia ordinanza di conferma, modifica, o revoca del precedente provvedimento. Il termine per la fissazione dell’udienza di comparizione delle parti è di natura ordinatoria, ma esso può anche essere prorogato dal giudice a norma dell’art.154, c.p.c.; invece, il termine relativo alla notificazione del ricorso e del decreto è di natura perentoria, il che implica l’impossibilità di proroga.. Santagada affronta il quid iuris ove il giudice abbia fissato per la notificazione del ricorso e del decreto un termine superiore agli otto giorni indicati dalla legge: “le soluzioni ipotizzabili possono così riassumersi: 1) o si sostituisce il termine stabilito dal giudice con quello massimo previsto dalla legge; 2) o si invoca l’istituto della rimessioni in termini per errore scusabile, elaborato dalla giurisprudenza amministrativa nel caso di errate istruzioni o avvertimenti da parte dell’ufficio giudiziario, in relazione ai poteri spettanti alle parti ed ai termini ed ai modi per il loro esercizio ; ovvero, 3) si ritiene valido il termine fissato dal giudice per la notificazione , anche se superiore a otto giorni (ferma la perentorietà), qualora, essendo stato il decreto comunque notificato, il convenuto si costituisca ”. La legge di riforma del 1990 non ha, invece, toccato i presupposti di concessione delle singole misure cautelari: fumus boni iuris e periculum in mora. Nella fase di autorizzazione del sequestro, dunque, resta centrale l’accertamento cognitivo di questi requisiti. Per quanto riguarda il fumus boni iuris, l’orientamento prevalente ritiene che non è necessaria la liquidità ed esigibilità del credito di cui si chiede tutela, essendo sufficiente che esso sia attuale e non meramente ipotetico o eventuale; è richiesto, però, almeno approssimativamente l’indicazione del quantum dello stesso . Nell’ipotesi in cui, invece, la pretesa creditoria risulta essere incerta, i Pretori sono rigorosi nel valutare il grado di probabilità e verosimiglianza della pretesa , in relazione alla natura del credito e ai fatti costitutivi del medesimo. Per quanto riguarda, invece, il periculum in mora la giurisprudenza pretorile tende a contemperare le pretese delle controparti: quella del creditore a non dover attendere il depauperamento effettivo del patrimonio, bastando al riguardo la sua possibilità attuale, e quella del debitore che, invece, pretende che venga provato un pericolo concreto ed attuale. Nella recente giurisprudenza della Pretura di Roma si è data molta importanza alla presenza di elementi soggettivi ed oggettivi: tra i primi rientrano il comportamento processuale ed extraprocessuale del debitore che esprima l’intenzione di sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi ; nelle circostanze oggettive, invece, fa capolino la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore, anche in rapporto con l’ammontare del credito ed anche atte a dimostrare che il debitore abbia posto in essere comportamenti volti a disperdere o a diminuire le garanzie patrimoniali. In una Rassegna su “Il sequestro conservativo nella più recente giurisprudenza della Pretura di Roma” viene configurata una fattispecie, ritenuta molto frequente, in cui si deduce che il periculum si fonderebbe sull’inadempimento del datore di lavoro alle proprie obbligazioni retributive: “in alcuni casi il pericolo viene ritenuto insussistente anche alla luce della consistenza complessiva del patrimonio del datore e dell’inesistenza di altre azioni esecutive e cautelari; in altri casi, qualora oltre il mancato pagamento delle retribuzioni si deduca l’esistenza di un pignoramento, i Giudici ne fanno conseguire lo stato di insolvenza del debitore e dunque la sussistenza del periculum; così pure quando il debitore non adempia né agli obblighi retributivi né a quelli contributivo-previdenziali oppure risultino protestati assegni del medesimo. In generale il pericolo si ritiene sussistente quando alla mancata erogazione della retribuzione si accompagni sia l’inadeguatezza del patrimonio del debitore rispetto all’entità presunta del credito sia il comportamento soggettivo del medesimo tale da ingenerare il dubbio che intenda sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi”. Segue. L’istruzione tecnica preventiva ed il rito del lavoro. La concentrazione e l’immediatezza da cui è caratterizzato il nuovo rito del lavoro non impediscono l’utilizzo di quella particolare figura di provvedimenti cautelari costituita dai procedimenti di istruzione preventiva. La piena applicabilità degli artt.692 c.p.c. e 696 c.p.c. alle controversie di lavoro discende dagli stessi presupposti che caratterizzano la specialità dei procedimenti di istruzione preventiva: l’individuazione di specifiche situazioni di pericolo considerate oggettivamente può determinare l’insorgere dell’interesse a ricorrere a forme di tutela speciale anche se la tutela cognitiva del processo del lavoro che si esprime attraverso forme concentrate sembrerebbero eliminare l’interesse ad utilizzare altri strumenti processuali specificamente diretti a soddisfare quei pericula fuori del processo di cognizione . Secondo Nicotina l’ammissione dello strumento dell’istruzione preventiva “imporrebbe la compressione del principio d’immediatezza” che la normativa della legge n.533 “cerca di applicare più compiutamente”. Arieta , invece, replica questa conclusione dato che “l’esigenza di porre tutela a determinate situazioni di pericolo (...) deve ritenersi prevalente rispetto al “normale” svolgimento della tutela di merito”. Lo stesso, continua sostenendo che la prevalenza è solo eventuale dal momento che la possibilità prevista dall’art.698 c.p.c., 2°comma, di rinnovare nel successivo giudizio di merito l’espletamento della prova testimoniale assunta in via preventiva deve assumere, proprio per le controversie di lavoro, uno specifico rilievo, dal momento che costituisce il mezzo non soltanto per ridurre la compressione del principio, ma addirittura per escluderla del tutto . Per quanto riguarda il coordinamento tra le norme di cui agli artt.692ss. ed il rito speciale del lavoro: a) giudice competente normalmente sarà il giudice del lavoro , in funzione di giudice del lavoro, competente ex artt.413 e 444 c.p.c. a conoscere le cause di merito ; in caso di eccezionale urgenza, la domanda potrà essere proposta però anche al giudice del lavoro del luogo in cui la prova deve essere assunta (art.693, 2°comma) ; b) la disciplina è immune da qualsiasi influenza delle norme del rito del lavoro . Poiché il processo del lavoro è caratterizzato dal principio inquisitorio quanto all’acquisizione al giudizio dei mezzi di prova (art.421c.p.c.), l’utilizzazione nel corso del giudizio di merito della prova testimoniale, dell’accertamento tecnico e dell’ispezione giudiziale raccolta attraverso un procedimento di istruzione preventiva, potrà essere disposta d’ufficio dal giudice, sempre che la prova sia relativa ai fatti allegati alle parti e sempre che non sia possibile la rinnovazione della prova, soluzione che sarà da preferire data la immediatezza cui è ispirato il processo del lavoro. Per quanto concerne, poi, il procedimento di istruzione preventiva proposto in corso di causa, esso sarà ammissibile soltanto ove la prova testimoniale o la consulenza tecnica siano state richieste all’atto del deposito dei rispettivi atti di costituzione . Si deve concludere, dunque, nel senso che il procedimento di istruzione preventiva proposto in corso di causa subisce una sia pure indiretta influenza da parte degli artt.414 e 416 c.p.c., dal momento che viene ad aggiungersi una particolare condizione di ammissibilità che il giudice è chiamato a verificare all’atto della emissione del provvedimento di cui all’art.695 c.p.c.. Una questione molto dibattuta, invece, è quella della possibile utilizzazione del procedimento di istruzione preventiva anche per interrogare liberamente le “persone incapaci di testimoniare a norma dell’articolo 246, o a cui sia vietato a norma dell’articolo 247” come previsto dall’articolo 421 u.c.. A questo riguardo la dottrina è divisa. Chi, come Proto Pisani ammette una applicazione analogica dell’art.692 allo scopo di “evitare che vada dispersa una fonte di conoscenza che può essere necessaria nel futuro giudizio di merito”; in verità l’autore ammette che, quale elemento contrario, gioca l’eccezionalità dello strumento previsto dall’u.c. art.421 c.p.c., la quale “sembrerebbe rendere utilizzabile tale sapere solo da parte dello stesso giudice che deve emanare la decisione, al pari di quanto accade per il sapere delle parti”: ma una soluzione certa è difficile poiché l’ultimo comma dell’art.421 c.p.c. si inserisce in “un processo diretto a far crollare quegli autentici relitti storici costituiti dai divieti e dalle incapacità di cui agli artt.246 e 247” . Nella dottrina, però, c’è anche chi, come Arieta , propende per una impossibilità di aderire a tale tesi: in primo luogo perché “il giudice del lavoro adito ex art.693 c.p.c. non potrà esercitare poteri istruttori d’ufficio nè tanto meno ammettere mezzi di prova che sarebbero preclusi alle parti nel corso del giudizio di merito”; dunque “la possibilità di ottenere una deposizione a futura memoria non può che essere limitata e dare tutela a quella specifica situazione di pericolo prevista dall’art.692 e non può essere occasione nè per la parte istante, di ottenere per impulso di parte ciò che solo il giudice del merito, “ove lo ritenga necessario” (così come si esprime l’ultimo comma dell’art.421), può disporre, nè, per il giudice, di accertare autonomamente ex officio la verità delle circostanze di fatto pur dedotte dalle parti (cioè nel rispetto del principio dell’allegazione)”. Segue. L’art.700c.p.c. e le controversie di lavoro. Il provvedimento d’urgenza ex art.700c.p.c. per l’atipicità del suo contenuto e per la rapidità delle forme con le quali può essere impiegato, è stato ed è tuttora utilizzato con maggiore frequenza, ed anzi ha costituito, negli anni che hanno immediatamente preceduto l’entrata in vigore del nuovo rito, il mezzo piu idoneo per ovviare in qualche modo a quell’inconveniente dei tempi lunghi del processo ordinario, che risultava particolarmente intollerabile nella materia del lavoro. Tale provvedimento è, infatti, caratterizzato dalla atipicità e sussidiarietà: vale a dire si applica solo a pregiudizi diversi da quelli tipicamente previsti dal legislatore e quando non vi sia una tutela cautelare tipica. Il provvedimento d’urgenza è uno strumento non già ordinario, bensì straordinario, che per la sua emanazione presuppone l’esistenza di alcuni requisiti essenziali, quali: la presenza di un diritto da far valere e che abbia le caratteristiche della situazione sostanziale protetta; il fondato motivo di ricevere un grave pregiudizio nel periodo di tempo che è necessario per far valere il diritto nelle vie giudiziarie ordinarie; la chiara individuazione della situazione sostanziale e del pericolo che la stessa corre, in modo che il giudice possa sommariamente convincersi dell’opportunità del provvedimento; il fumus boni iuris, riguardo al quale l’accertamento del giudice sull’esistenza del diritto deve essere fatto con particolare accuratezza, a causa dell’atipicità degli effetti; il periculum in mora, vale a dire un pregiudizio imminente, e nello stesso tempo, caratterizzato dall’irreparabilità, la cui valutazione, a parere di Luiso “non va vista strutturalmente, all’interno del diritto...ma va riferita all’interesse protetto, alla cui soddisfazione è destinata la situazione sostanziale”. Basta che anche uno solo dei requisiti manchi perchè il provvedimento debba essere rifiutato . E’ bene ricordare che l’emissione dei provvedimenti d’urgenza costituisce una tecnica di tutela dei diritti soggettivi: si vuole, infatti, porre rimedio a determinati pericula che, minacciando tali diritti in modo irreparabile, possono pregiudicare il corretto e normale esercizio della tutela cognitiva ordinaria e, quindi, la sua effettività. Se questo è vero, allora, la funzione del giudice non è quella di anticipare satisfattivamente la realizzazione del diritto dedotto assicurando una presumibile vittoria, ma di assicurare quegli effetti della futura tutela di merito in grado di salvaguardare la situazione giuridica cautelanda dal pregiudizio riscontrato: e questa assicurazione degli effetti, proprio in quanto non si pone in funzione della immediata soddisfazione della pretesa, passa attraverso una sicura accentuazione dei poteri del giudice della cautela, i quali, pur nei limiti delle allegazioni delle parti, che possono “dire i contraddire”, sono strumentali soprattutto alla individuazione del fumus boni iuris.. La completa autonomia del procedimento cautelare atipico, infatti, porta a ritenere che i principi in materia di onere della prova siano senz’altro più sfumati nell’ambito del giudizio cautelare, nel senso che il giudice della cautela potrà tener conto della ripartizione tra le parti degli oneri probatori, in sede di merito, solo nell’ambito del più generale processo di formazione del convincimento senza, però, che l’eventuale mancato assolvimento dell’onere della probatorio posta a carico di una parte sia sufficiente, in sè e per sè, a denegare la misura cautelare . Ove si applicassero con la stessa intensità le regole di ripartizione dell’onere probatorio introdotte in sede di giudizio ordinario non resterebbe al giudice della cautela la seguente alternativa: o considerare automaticamente provato il fumus, data l’assenza della controparte ed emettere il decreto laddove naturalmente sussista il solo requisito dell’immanenza ed irreparabilità del pregiudizio ovvero escludere a priori la possibilità di concedere la misura inaudita altera parte e disporre sempre la comparizione delle parti allo scopo di porre in grado il soggetto passivo di assolvere al proprio onere probatorio, e al contempo, dunque, realizzare il contraddittorio. Appare chiaro che entrambe le soluzioni ipoteticamente prospettate appaiono impraticabili. Deve, dunque, ribadirsi il principio che anche il lavoratore ricorrente in via cautelare ha l’onere di contribuire, a prescindere da eventuali inversioni degli oneri probatori, a dare dimostrazione della sussistenza del fumus boni iuris, offrendo quanto meno ogni elemento utile per consentire al giudice della cautela, anche attraverso l’esercizio di poteri officiosi, la formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei presupposti che legittimano l’esercizio dell’invocata tutela. Per quanto riguarda, invece, il periculum in mora una parte della giurisprudenza prevalente ritiene che “non è configurabile qualora il danno consista nella perdita di una somma di denaro la quale è, infatti, sempre totalmente ristorabile con una somma equivalente di denaro. In questa ipotesi, ai fini della concessione di un provvedimento d’urgenza a tutela del credito da retribuzione, il presupposto del periculum in mora va provato dal ricorrente il quale è tenuto a dimostrare che la retribuzione relativa ad un certo periodo di tempo costituiva l’unico sostegno economico per soddisfare i bisogni della vita”. Le nozioni di imminenza ed irreparabilità del pregiudizio offrono interessanti spunti di riflessione sul problema del rapporto cronologico che intercorre tra il momento di violazione del diritto e quello della proposizione dell’azione cautelare. Il giudice della cautela deve ,cioè, pur accertando la sussistenza dei presupposti menzionati al momento della proposizione della domanda, ricostruire l’iter di formazione e di realizzazione dell’evento lesivo dedotto allo scopo di valutare in concreto se e come il carattere di imminenza ed irreparabilità del pregiudizio si sia manifestato, non essendo sufficiente l’accertamento della semplice attualità di tali requisiti. A conferma di ciò si può ricordare una delle tre notissime ordinanze emesse dai pretori milanesi: quella del 1 settembre 1982 . In questa sede il Giudice del lavoro , dopo aver dato atto che il ricorso è stato proposto dopo diversi mesi dal momento in cui erano divenute operative le sospensioni dei rapporti lavorativi a seguito dell’intervento della C.I.G., ha poi rilevato che appare ingiustificato ritenere, in ogni caso di ritardo, inesistente il periculum in mora facendo scaturire da una inerzia prolungata, la perdita degli strumenti processuali legislativamente previsti perchè dovendosi considerare, per evidenti motivi di economia giudiziaria, il ricorso al giudice come extrema ratio non può in alcun modo penalizzarsi chi prima abbia ricercato strade diverse per vedere restaurato il proprio diritto . Segue. Questioni procedimentali e breve casistica dei provvedimenti d’urgenza. Il procedimento cautelare ex art.669sexies c.p.c, da osservare per l’emissione dei provvedimenti d’urgenza ex art.700c.p.c., è caratterizzato dalla sommarietà delle fasi che conducono alla pronuncia interinale: ridotte possibilità di contraddittorio, sommarietà degli accertamenti di fatto e della dialettica in diritto pur se nel rispetto di quei principi fondamentali posti a tutela dei diritti delle parti. Il procedimento è analogo a quello già descritto in sede di descrizione del procedimento di emissione provvedimento di sequestro (duplicità delle forme procedimentali attraverso cui si snoda la concessione della misura cautelare: una ordinaria, con contraddittorio tra le parti e conseguente pronuncia dell’ordinanza; l’altra eccezionale, con pronuncia del decreto motivato emesso inaudita altera parte ) pur avendo delle “particolarità”. Una di queste è stata messa in evidenza dalla Pretura Circondariale di Nocera Inferiore, Sezione distaccata di Sarno, Ordinanza 4 dicembre 1997 nella quale è enunciata “l’impossibilità di equiparare, in ordine ai requisiti formali richiesti, il ricorso ex art.414c.p.c, dovendosi ritenere il contenuto di quest’ultimo palesemente incompatibile, col carattere sommario e cautelare tipico del procedimento stesso, che non è stato in alcun modo toccato dalla riforma del processo del lavoro del 1973”. La richiesta di provvedimento d’urgenza, infatti, non deve necessariamente esporre analiticamente i fatti e gli elementi di diritto dai quali trae origine. E’ chiaro che tale pretesa sarebbe incompatibile col carattere tipico del procedimento cautelare che non può essere equiparato al ricorso ex legge n.533 del 1973, soprattutto in riferimento agli elementi che in esso devono essere analiticamente esposti ai sensi dell’art.414c.p.c.. Occorre, anche valutare la questione che trae origine dall’art.669septies il quale dispone che “l’ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell’istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni in fatto o di diritto”. “L’intento del legislatore, come è noto, è stato quello di frenare la libera reiterabilità dell’istanza nella ricerca, magari all’interno dello stesso ufficio giudiziario, del magistrato più disponibile ad accogliere il ricorso. Tuttavia, non è pacifico come vadano intesi i limiti a tale preclusione, quando cioè l’allegazione di nova da parte del ricorrente consenta una nuova decisione”. A questo punto è doveroso elencare brevemente le fattispecie più frequenti in cui viene invocato l’art.700c.p.c.. Cerino-Canova ritiene di dover distinguere tra applicazioni di questo strumento a favore del lavoratore ed applicazioni a favore del datore di lavoro. Seguendo lo schema riassuntivo offerto dallo stesso, le attuazioni a favore del lavoratore possono classificarsi in : funzione di reintegra del lavoratore licenziato o sospeso ; funzione di inibitoria del mutamento di mansioni o del trasferimento ; funzione di avviamento al lavoro o di ipotesi più contingenti ; funzione di tutela del pubblico dipendente . Sempre a favore del lavoratore la giurisprudenza e la dottrina sono ormai decisamente orientate a riconoscere la legittimità della richiesta e della concessione dei provvedimenti di urgenza diretti a tutelare crediti retributivi, derivanti da prestazioni di lavoro subordinato effettuate da alcuni lavoratori nei confronti della stessa società, ponendo l’accento sulla natura alimentare degli stessi . Il provvedimento d’urgenza è stato anche richiesto ed, in non pochi casi, ottenuto dal datore di lavoro. Infatti, la Corte Costituzionale 6 marzo 1974, n.54, nel dichiarare costituzionalmente corretta la legittimazione limitata dell’art.28 statuto dei lavoratori, afferma che “le leggi vigenti tutelano anche in via provvisoria gli interessi dei datori di lavoro contro atti dei lavoratori con provvedimenti d’urgenza, quali ad esempio quelli previsti dagli artt.703 e 700 del codice di procedura civile”. Del resto, un’elementare nozione di “eguaglianza dell’armi”, ossia il principio stabilito dall’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, impone di consentire anche alla controparte l’esercizio di quei rimedi processuali che ad una parte si conferiscono con molta larghezza. L’occasione più frequente di ricorso alla tutela urgenze e di concessione del provvedimento è offerta dallo sciopero attuato con particolari modalità, quali il picchettaggio violento ed il blocco delle merci . Un altro settore in cui il datore di lavoro ha invocato e, talvolta, ottenuto la tutela d’urgenza è fornito dall’occupazione dell’azienda. Tale sfera di applicazione dell’art.700c.p.c. appare evidentemente finitima a quella della tutela possessoria ex art.703 c.p.c.; e la connessione appare ancora più evidente quando si constati che le forme procedimentali delle due procedure d’urgenza sono identiche. Di conseguenza, il problema di sceverare quando sia il caso di utilizzare l’uno o l’altro rimedio diviene soprattutto un problema di qualificazione giuridica e di sussunzione di una medesima fattispecie nella previsione dell’una o dell’altra norma . Segue. La reintegra cautelare del lavoratore licenziato. La reintegra del lavoratore licenziato si presenta come il campo di più diffusa applicazione dell’art.700c.p.c.. La prassi giurisprudenziale si è ormai consolidata in questo senso, tanto che, spesso, il giudizio d’impugnazione del licenziamento inizia con un provvedimento d’urgenza, ex art.700c.p.c., che dispone l’immediata reintegrazione del lavoratore. Sono da tempo superati i problemi che al riguardo erano sorti sia a proposito del fumus boni juris, sia a proposito del “pregiudizio imminente e irreparabile”, come presupposti per l’emanazione del provvedimento d’urgenza. La valutazione dell’apparente e probabile fondatezza dell’impugnazione del licenziamento non crea invero difficoltà particolari. Quanto all’imminenza del pregiudizio, si rileva che il pregiudizio stesso è in re ipsa quando il lavoratore è stato estromesso dal posto di lavoro. Si tratta inoltre di pregiudizio irreparabile sia perché il lavoratore, perdendo la retribuzione, viene a perdere il mezzo indispensabile per “assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa ”, sia perché egli perde la possibilità di esercitare i diritti sindacali ed altri diritti fondamentali come quelli alla formazione professionale . Tra le applicazioni più significative dell’art.700c.p.c. ricordiamo: la reintegra del lavoratore il cui licenziamento è inficiato da un vizio di forma ; la reintegra del lavoratore estromesso dall’azienda dopo la riforma in appello della sentenza di condanna alla riassunzione pronunciata in primo grado ; reintegra di lavoratori licenziati a seguito di cessazione dell’attività dell’impresa ; reintegra del lavoratore licenziato a seguito di comportamento offensivo verso la società oppure a seguito di aggressione verso altro dipendente ; reintegra di lavoratore licenziato per aver rifiutato un trasferimento ritenuto illegittimo o a causa di malattie . Una forma speciale di reintegrazione cautelare è poi prevista dagli attuali commi 7°ss. dell’art.18 dello Statuto con riferimento ai soli rappresentanti sindacali e candidati membri di commissione interna, indicati nell’art.22 dello Statuto. Essa può essere disposta solo in corso di causa, in ogni stato e grado del giudizio, quando il giudice ritenga “irrilevanti o insufficienti” gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro al fine di dimostrare la liceità del licenziamento impugnato . Secondo il testo originario dello Statuto dei lavoratori, l’art.18 era applicabile soltanto qualora il datore di lavoro occupasse più di quindici dipendenti nella stessa sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, ovvero nello stesso comune, come prevedeva l’art.35 dello Statuto. L’ordine di reintegrazione poteva quindi essere emanato soltanto quando le dimensioni non superassero questi limiti. In tutti gli altri casi la tutela del lavoratore rimaneva quella prevista dalla legge 604 del 1966 sui licenziamenti individuali. A seguito di varie vicende politiche e sindacali la situazione normativa viene in parte modificata dalla legge 11 maggio 1990, n.108, pure dedicata alla disciplina dei licenziamenti individuali che introduce alcune novità sia nell’art.18 dello Statuto, sia nella legge n.604 del 1966. Il regime previsto dall’art.18 dello Statuto, e quindi la possibilità che il giudice disponga la reintegrazione del lavoratore licenziato, rimangono dunque riservati alle ipotesi in cui il datore di lavoro occupi più di quindici dipendenti nella sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparti autonomo in cui ha avuto luogo il licenziamento, e nello stesso comune. Se le dimensioni non raggiungono questi limiti non si applica l’art.18 dello statuto e non può essere emanato l’ordine di reintegrazione; pertanto il lavoratore viene tutelato nelle forme previste dalla l.604/66 così come modificata dalla L.108/90. Per completare la trattazione dell’argomento è opportuno fare un breve cenno alla reintegrazione ordinata con provvedimenti di cognizione ordinaria o sommaria che rappresentano una alternativa all’ordine emesso in via cautelare. Il 1°comma dell’art.18 St.Lav. prevede un’azione ordinaria di reintegrazione connessa a quella di impugnazione del licenziamento, che viene proposta ed è trattata e decisa nelle forme del rito ordinario del lavoro . La Cassazione, con decisione 16 novembre 1991, n,12294, ha stabilito che la reintegrazione del lavoratore deve essere ordinata comunque, anche in mancanza di una specifica domanda del lavoratore poiché si tratta di trarre tutte le necessarie conseguenze dell’illegittimità del licenziamento. Il secondo tipo di procedimento che può portare all’emanazione di un ordine di reintegrazione è quello che l’art.28 prevede per la repressione della condotta antisindacale quando la stessa condotta si è tradotta in un licenziamento dovuto a finalità antisindacali. Tale licenziamento appunto perché antisindacale è illegittimo ai sensi dell’art.18, 1°co., dello Statuto, e tale illegittimità può essere fatta valere nel rito ordinario del lavoro. Anzitutto, però, essa dà luogo all’azione repressiva prevista dall’art.28 St.Lav.. Dunque, sia la cessazione del comportamento illegittimo consistente nell’estromissione del lavoratore, sia la rimozione degli effetti di tale comportamento, possono essere conseguiti solo mediante la reintegrazione del lavoratore. Sarebbe interessante, prima di chiudere con la trattazione dell’argomento, interrogarsi sul quid iuris se il lavoratore viene reintegrato nel posto di lavoro, previa declaratoria di illegittimità o di nullità del licenziamento. Le soluzioni ipotizzabili sono differenti a seconda che la reintegrazione avvenga sulla base di una sentenza resa ex art.18 St.lav. o di un decreto emanato a seguito del procedimento ex art.28 St.Lav., ovvero se essa sia disposta cautelarmente da un provvedimento d’urgenza. Nel primo caso, la sentenza o il decreto, contenendo, accanto alla condanna alla reintegrazione, una pronuncia di accertamento con la quale il licenziamento viene dichiarato invalido, eliminano ex tunc le conseguenze dell’illecito già verificatosi a partire dal licenziamento, sicchè il lavoratore non può esigere il T.F.R. ed è tenuto a restituire le somme eventualmente percepite a tale titolo . Al contrario, ove, la reintegrazione avvenga sulla base di un provvedimento ex art.700c.p.c., il lavoratore può pretendere il versamento del T.F.R. da parte del datore, posto che la misura d’urgenza, al fine di scongiurare il pregiudizio imminente ed irreparabile, legato alla perdita del posto di lavoro, anticipa, in via cautelare, solo l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, demandando l’effetto “pienamente rispristinatorio” della continuità del rapporto di lavoro alla sentenza di merito, pronunciata a norma del’art.18 St.Lav. . 3)Problemi relativi all’utilizzo del procedimento ingiuntivo nel rito del lavoro. Uno schema processuale, nobilitato nei suoi tratti salienti da antiche origini e molto caro al legislatore per la frequenza del ricorso ad esso , è quello che ha trovato la sua più compiuta attuazione nella disciplina dettata dal codice vigente per il procedimento d’ingiunzione (collocabile tra i processi o procedimenti giurisdizionali a cognizione sommaria). L’idea che vi sta alla base mira ad un felice adeguamento tra mezzo e scopo: in presenza di una particolare efficienza e attendibilità delle prove che assistono la pretesa del richiedente si consente l’emanazione illico et immediate del provvedimento, circondandolo da adeguate garanzie volte a provocare il contraddittorio ad opera del destinatario che, avendone avuto conoscenza, si oppone . La garanzia del contraddittorio non è affatto eliminata, ma si realizza in un momento successivo alla formazione del provvedimento; tanto che al contraddittorio anticipato, quello che presiede allo stesso “iter” formativo dell’atto giurisdizionale, si viene a contrapporre il contraddittorio posticipato-eventuale . Siamo, dunque, di fronte al problema che ci eravamo posti di affrontare nel paragrafo 1 di questo capitolo: individuare il momento in cui tale partecipazione debba avvenire alla luce degli artt.101 c.p.c. e 24 della Costituzione. La deroga al precetto dell’art.101 c.p.c. è manifesta, ma nulla questio giacchè si tratta di deroga ammessa dalla stessa norma richiamata; il problema, è, invece, un altro: cioè se la rilevata mancanza del contraddittorio possa o non venir riguardata come tale da concretare una violazione del precetto dell’art.24 della Costituzione . Per dare un risposta a questo interrogativo occorre riconoscere che, anche se è attraverso il contraddittorio che trova estrinsecazione il diritto di difesa, i due termini non coincidono necessariamente; può esservi un procedimento la cui struttura non preveda o ignori volutamente il contraddittorio pur apprestando altri e adeguati strumenti per garantire il diritto di difesa; o circondare il provvedimento emesso inaudita altera parte con una serie di garanzie poste a tutela della parte ignara. Tutti connotati che ricorrono nel procedimento ingiunzionale, e che dunque assicurano uno spazio più che sufficiente per l’esercizio di difesa. Passiamo ora ad affrontare la struttura del procedimento. La novella del 1973 pur non autorizzando espressamente il creditore a proporre il procedimento monitorio nè comunque dettando norme in materia, non impedisce che tale esperimento sia effettuato , in quanto, posta la indicata relazione con il procedimento del lavoro, sarebbe stata necessaria la previsione nella legge di una norma riduttiva, tale da comportare, tra l’altro, l’abrogazione dell’art.635 c.p.c . Tuttavia restano molteplici e, a volte, complessi i problemi di coordinamento : al riguardo occorre, dunque, verificare se la necessità di coordinamento sorga esclusivamente in virtù dell’espresso richiamo contenuto nel 2° comma dell’art.645 c.p.c., riguardi, cioè, le modalità di svolgimento del giudizio ordinario che, in seguito all’opposizione, si svolge davanti il giudice adito, ovvero, si manifesti anche tra le norme del rito del lavoro e la fase sommaria del procedimento monitorio. Sotto quest’ultimo profilo è stato di recente affermato che la normativa della legge 533/73 sarebbe applicabile anche alla fase sommaria del procedimento ingiuntivo “tutte le volte che la disciplina di questo deroghi alle disposizioni generali ovvero vada integrata con norme regolanti il processo di cognizione ”. Il problema è più complesso di quanto possa apparire dato che investe la stessa costruzione e l’inquadramento sistematico del procedimento per ingiunzione, la sua natura ed i rapporti col giudizio eventuale di opposizione. Per quanto riguarda la natura di questa azione bisogna osservare che il tentativo di ridurre il procedimento per ingiunzione ad un mero esercizio di forme speciali di un’ordinaria azione di cognizione non sembra sia compatibile con la realtà di un procedimento le cui caratteristiche, sommarietà della cognizione ed assenza del contraddittorio, incidono profondamente sulla individuazione della natura dell’azione esercitata: basti pensare all’art.640 c.p.c. che prevede il fatto che il rigetto della domanda determina in ogni caso la conclusione del procedimento ingiuntivo porta a ritenere che la domanda proposta in via monitoria fino al momento della emissione del decreto ingiuntivo, non sia identificabile nella ordinaria azione di cognizione sia pure in forme speciali, ma costituisca espressione di un diverso tipo di tutela che, in presenza di particolari caratteristiche del diritto di credito dedotto, consente al titolare di ottenere un provvedimento potenzialmente idoneo, nell’ambito di una vicenda cognitiva che si apre con la notificazione dello stesso, a surrogare il risultato della tutela cognitiva ordinaria. Dunque, l’accentuazione degli aspetti autonomistici del procedimento per ingiunzione deve limitarsi alla sola fase c.d. sommaria che si conclude comunque con l’emissione di un provvedimento che, se negativo, si limita a chiudere il procedimento, ma che, se accoglie la domanda, determina, nel momento stesso in cui viene notificato alla parte obbligata, l’inizio di un normale processo di cognizione ordinaria la sorte del quale è rimessa al comportamento dell’ingiunto. Questa forma autonoma di tutela in presenza di determinati requisiti e condizioni di ammissibilità, si pone in netta alternativa con il procedimento in via di ordinaria cognizione, nel senso che non si presta ad “integrazione” con le forme del giudizio ordinario di cognizione. Segue. Provvisoria esecutorietà. Anche il decreto ingiungente il pagamento di un credito riguardante i rapporti di cui agli art.409 e 442 può essere munito di provvisoria esecutorietà ai sensi dell’art.642, 1° e 2° comma, c.p.c.: deve, infatti, escludersi qualsiasi applicazione analogica degli artt.431 e 447 c.p.c. per le sentenze che pronunciano condanna per i crediti di lavoro o previdenziali, e pertanto i decreti emessi in tali materie non possono essere resi tout court esecutivi. A norma del 1° comma dell’art. 642 l’esecuzione provvisoria può essere concessa al credito di lavoro o previdenziale non solo se fondato su cambiale, assegno bancario o altro dei titoli indicati dall’art.642c.p.c., ma anche ogni volta che il credito si fondi su documento dotato di quella particolare certezza probatoria che consenta di assimilarlo ai documenti indicati nella norma . La provvisoria esecutorietà del decreto può anche essere accordata quando, indipendentemente dall’ipotesi di cui al 1° comma dell’art.642, vi sia “pericolo di grave pregiudizio nel ritardo” (art.642, 2° comma c.p.c.). La dottrina, nella individuazione del concetto di “pericolo di grave pregiudizio nel ritardo” si riferisce essenzialmente ai pericoli derivanti dalla dissoluzione della garanzia patrimoniale e nel contempo vuole porre in risalto il rigore della formula, non bastando il semplice pericolo richiedendosi, invece, la sua gravità . Recentemente, l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, svoltasi soprattutto in considerazione dell’interpretazione della formula dell’art.700c.p.c. ai fini dell’applicabilità del procedimento d’urgenza ai crediti in questione, ha portato a recepire una concezione più ampia del “pregiudizio imminente ed irreparabile” travalicante i meri interessi patrimoniali: dunque il “pericolo di grave pregiudizio nel ritardo” potrebbe riguardare non solo il diritto vantato, ma anche l’interesse sottostante, con conseguente possibilità, nel caso in cui il lavoratore ricorra alla procedura monitoria per far valere i crediti di natura retributiva, di ottenere l’autorizzazione all’esecutorietà provvisoria solo ove lo stesso sia in grado di provare la effettiva destinazione di tali somme dovute e non percepite ad esigenze di mantenimento per sè e per la propria famiglia. Pezzano , infatti, ritiene sussistente il grave pregiudizio nel ritardo “quando sia lecito presumere che l’importo del credito debba essere necessariamente destinato al mantenimento del lavoratore e della famiglia” e non quando, ad esempio, “il creditore viva ancora presso la casa paterna ovvero quando si tratti di importi residuali, vantati subito dopo la percezione di altre somme (ad. es., a titolo di indennità di anzianità, preavviso ecc.)”. Trattandosi, quindi, di una pura anticipazione degli effetti, precisamente di un’anticipazione satisfattiva, il giudice per autorizzare l’esecuzione provvisoria dovrà necessariamente rapportare gli elementi dedotti dal ricorrente a sostegno della necessità od opportunità dell’anticipazione dell’efficacia esecutiva con la natura del diritto fatto valere, fermo restando che l’autorizzazione alla provvisoria esecuzione non dipenderà da una valutazione probabilistica fondata sul periculum in mora, ma dalla concreta sussistenza “allo stato” di un pregiudizio connesso con la mancata realizzazione del diritto . Ove sia concessa la provvisoria esecutorietà, il giudice ha facoltà di autorizzare l’esecuzione immediata, senza l’osservanza del termine di dieci giorni di cui all’art.482 . Segue. Giudizio di opposizione. Più intensi sono i problemi di coordinamento che importa la fase dell’opposizione al decreto ingiuntivo, che consiste in un giudizio a cognizione piena ed esauriente. Le fasi che l’opposizione apre, infatti, hanno la struttura di quelle del processo di cognizione: due gradi di merito, una fase di Cassazione. Ciò perchè prima dell’opposizione, il giudizio si svolge nello schema del procedimento, cioè senza contraddittorio, e soltanto con l’opposizione si passa ad un vero e proprio processo, nel senso che il “dire e contraddire”, aperto dalla notifica del decreto , s’instaura e si realizza effettivamente . Non si tratta, comunque, di un giudizio autonomo , cioè distinto da quello in cui è stata emessa la ingiunzione, bensì innesta sulla fase procedimentale altre fasi processuali, cioè con contraddittorio . Infatti, considerando lo schema delineato, il decreto ingiuntivo non è già un provvedimento interlocutorio, cioè ad efficacia necessariamente provvisoria, destinata a cessare ove il giudizio non prosegua, ma è al contrario una pronuncia destinata a passare in giudicato in difetto di opposizione (art.647, 2°comma c.p.c.), così come lo è la sentenza di primo grado in mancanza di appello: l’opposizione, dunque, svolge il ruolo di impugnazione, e precisamente di “gravame”, avverso il decreto ingiuntivo . Per quanto riguarda l’introduzione del processo l’opposizione va esercitata con deposito del ricorso perchè a norma dell’art.645, 2°comma, c.p.c. il giudizio deve svolgersi secondo le forme del rito del lavoro e dunque, sarebbe incongruo inaugurare la fase della cognizione piena con un atto diverso da quello preordinato strutturalmente e funzionalmente da legislatore della riforma . In effetti, la questione non è stata così pacifica come ora ci sembra dal momento che, nei primi tempi di applicazione della l.533/73 uno dei problemi più dibattuti è stato quello relativo alla forma tecnica, ricorso o citazione, con cui introdurre l’opposizione: una scelta, questa, che ha evidenti ripercussioni in ordine al rispetto del termine di venti giorni entro il quale, come disposto dall’art.641 c.p.c. , l’ingiunto, per espresso avvertimento contenuto nello stesso decreto, può fare opposizione. Una lunga Rassegna giurisprudenziale può servire a dimostrare che ormai si è approdati alla decisione unanime che “l’opposizione al decreto ingiuntivo emesso per i crediti inerenti ai rapporti di cui agli ar.409 e 442 c.p.c va proposto con ricorso da depositarsi in cancelleria nel termine perentorio fissato dall’art.641 c.p.c.” . Vanno brevemente individuate le conseguenze dell’instaurazione del contraddittorio con atto di citazione: quest’ultima “può valere come ricorso ma solo nel momento in cui, con il suo deposito nella cancelleria del giudice adito, abbia raggiunto lo scopo proprio di quell’atto, consistente nel portare a conoscenza del predetto giudice la manifestazione di volontà di opporsi all’ingiunzione, dal momento che non può riconoscersi alcun valore alla notificazione della citazione eseguita prima del deposito. concernendo una opposizione ancora non venuta ad esistenza” . E’ importante che la citazione sia stata depositata nel termine e nel luogo indicati per il ricorso: nel caso di deposito successivo è da considerare tardiva e tale decadenza è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, anche per la prima volta in sede di legittimità, non rilevando nè l’attività compiuta dalla controparte, giacchè la sanatoria prevista dall’art.156, 3°comma, c.p.c. non si estende alle decadenze per inosservanza di termini perentori, nè il provvedimento del giudice che, ai sensi dell’art.426 c.p.c., abbia disposto il passaggio del rito ordinario a quello speciale . Ad integrare una corretta instaurazione della fase di opposizione anche mediante citazione non basta, però, il deposito della stessa in cancelleria; occorre che l’opponente faccia munire l’atto di decreto di fissazione d’udienza ad opera del giudice del lavoro e provveda a notificarlo all’opposto, non valendo allo scopo la notificazione della citazione avvenuta prima del deposito nella cancelleria del giudice competente . Instaurato il contraddittorio, gli atti difensivi delle parti, ricorso in opposizione del debitore opponente e memoria difensiva del creditore opposto, sono soggetti per intero al regime di preclusioni e di decadenze introdotto dagli artt.414, per l’opponente, e 416, per l’opposto; tuttavia sono cronologicamente invertiti i tempi di deposito dei rispettivi atti rispetto al rito ordinario: la memoria difensiva del creditore opposto, sul quale grava l’onere di provare l’esistenza del diritto di credito vantato, segue, infatti, il deposito del ricorso in opposizione da parte dell’ingiunto, che ha l’onere di provare i fatti impeditivi ed estintivi . A questo punto, prima di concludere il discorso relativo al D.I. è bene verificare l’applicabilità nel corso del giudizio di opposizione dell’art.423, 1° e 2° comma, c.p.c. considerando che c’è una differenza profonda, sia di struttura che di funzione, tra il decreto ingiuntivo e l’ordinanza stessa . E’ stato negato nel corso del giudizio di opposizione qualsiasi spazio alle ordinanze ex art.423 c.p.c. nell’ipotesi in cui il decreto sia stato già munito di provvisoria esecuzione; in mancanza, od anche in caso di sospensione della stessa, ben potranno trovare applicazione nel corso del giudizio di opposizione sia il 1° che il 2° comma dell’art.423 c.p.c., qualora ne risultino sussistenti i presupposti. 4)Problematiche relative alla convalida di sfratto ex art.659 c.p.c. nel rito del lavoro. Nell’ipotesi di procedimento per convalida di sfratto, così come per il D.I., il contraddittorio è eventuale. L’azione esercitata con il procedimento ex art.659 c.p.c., infatti, costituisce espressione di una forma speciale di tutela che si pone in alternativa con l’ordinario processo di cognizione, del tutto autonoma nella sua fase sommaria che è destinata a realizzarsi attraverso i provvedimenti che acquistano una determinata efficacia a seconda del comportamento della parte intimata, la quale è comunque in grado, con la propria opposizione, di consentire l’instaurazione di una successiva fase del giudizio a cognizione piena ed esauriente; e dunque il contraddittorio differito o eventuale. Anche il procedimento per convalida di sfratto, come il D.I., appartiene ai processi o procedimenti a cognizione sommaria, e non essendoci differenze rispetto al problema del contraddittorio ed ai suoi rapporti con gli artt.24 Cost. e 101 c.p.c., rimando a quanto già detto a proposito dello stesso D.I.. L’esigenza di coordinare il procedimento di convalida di sfratto con il rito del lavoro discende dalla possibilità, offerta dall’art.659 c.p.c., di intimare licenza o sfratto (con contestuale citazione per la convalida) “se il godimento di un immobile è il corrispettivo anche parziale di una prestazione “d’opera” quando il contratto viene a cessare per qualsiasi causa”. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui essa esclude l’applicazione della legislazione vincolistica, nel dichiarare infondata la questione con la sentenza 17 dicembre 1975, n.238 ha precisato nella motivazione per un verso che l’art.659 “può ricevere applicazione solo quando la cessazione del rapporto di lavoro non è più controversa”, per altro verso che “si ricava dai lavori preparatori e dal testo della norma impugnata che il legislatore ha inteso riferirsi a quelle situazioni in cui il godimento dell’immobile non trova la sua fonte in un distinto contratto di locazione ma in un contratto di lavoro, a quelle ipotesi, cioè, nelle quali la concessione del godimento di un immobile non è fine a se stessa ma riveste nell’economia del contratto, che appunto per questo è caratterizzato da una diversa funzione economica e sociale, una rilevanza accessoria e non primaria, ricollegata alla prestazione d’opera” . Deve trattarsi, dunque, di godimento di un immobile che trovi la sua fonte in un contratto di lavoro e non già in un distinto rapporto locatizio : inoltre la cessazione del rapporto di prestazione d’opera non deve essere controversa. Per l’utilizzo del provvedimento in esame nel rito del lavoro sorgono le questioni già affrontate per il procedimento ingiuntivo. Per quanto riguarda la disciplina della fase sommaria della cognizione e la particolare funzione che assume la necessità di costituire sin dall’origine il contraddittorio con la parte interessata, è esclusa ogni interferenza da parte della normativa del rito speciale del lavoro. Anche ai fini della competenza a conoscere del procedimento per convalida, in assenza di una norma analoga a quella dell’art.637 c.p.c. sorgono diatribe. A chi, come Arieta , il quale ritiene che “dinanzi alla esplicita indicazione di un criterio di competenza inderogabile a favore del giudice conciliatore o del giudice del lavoro , è secondo tale criterio che deve individuare il giudice dinanzi al quale proporre l’intimazione ex art.659 c.p.c, con conseguente esclusione di qualsiasi competenza del giudice del lavoro , si contrappongono altri, invece, come Franchi , per il quale la competenza spetterebbe al giudice del lavoro in funzione di giudice del lavoro, tenuto conto che la competenza territoriale di quest’ultimo andrebbe ricavata dall’art.661 c.p.c.. Per quanto riguarda il procedimento in senso stretto: proposta intimazione ex art.659 c.p.c. e contestuale citazione del prestatore d’opera nel rispetto delle regole di competenza ex art.661 c.p.c, adito, ove l’intimato non compaia o, comparendo, non si opponga, emetterà la richiesta ordinanza di convalida. Contro il provvedimento di convalida ottenuto in assenza della parte intimata, l’art.668 c.p.c. autorizza quest’ultima a proporre opposizione tardiva ove dimostri di non aver avuto tempestiva conoscenza dell’atto di intimazione “per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o per forza maggiore” sempre che non siano decorsi 10 giorni dall’esecuzione. I problemi di coordinamento che tale norma pone all’interprete sono di due tipi: a) anzitutto la forma dell’atto di opposizione, che, in presenza del rinvio alla forma prescritta per l’opposizione al decreto ingiuntivo contenuta nel 3°comma dell’art.668 c.p.c., dovrà essere quella della citazione . Dunque, l’opponente non ha scelta in ordine alla forma dell’atto introduttivo: sia che si instauri, sia che non si instauri una controversia di lavoro la forma sarà quella dell’atto di citazione; tuttavia se si è in presenza di una controversia di lavoro, il giudice dell’opposizione deve rimettere la causa al giudice del lavoro del lavoro competente; b) il secondo problema è quello della competenza a conoscere dell’opposizione tardiva ex art.668 c.p.c.: il giudice competente sarà lo stesso, conciliatore o giudice del lavoro, che ha emesso l’ordinanza di convalida . Sarà quest’ultimo giudice che, pur potendo emettere in limine, e sempre che sussistano gravi motivi, l’ordinanza non impugnabile di sospensione, dovrà compiere la stessa indagine che avrebbe dovuto svolgere in presenza di una tempestiva opposizione dell’intimato: se, cioè, con l’opposizione si introduce una controversia di lavoro, dovrà disporre il passaggio di rito ex art.426 c.p.c., mentre se l’opposizione si fonda su titoli diversi dal rapporto di lavoro sarà tenuto a verificare la propria competenza per valore e comportarsi di conseguenza. Dunque la proposizione dell’opposizione tardiva riproduce la stessa situazione descritta negli artt.665 e 667 c.p.c. per l’opposizione tempestiva. Il contraddittorio può, infatti, anche instaurarsi immediatamente, subito dopo che è stata proposta l’intimazione ex art.659 e contestuale citazione del prestatore d’opera proponendo opposizione. Anche in questa ipotesi, su istanza dell’intimante r ove non sussistano gravi motivi in contrario, il giudice potrà anche pronunciare l’ordinanza provvisoria di rilascio ex art.665 c.p.c. fissando un termine per l’instaurazione del giudizio di merito, e quindi il contraddittorio tra le parti. In questo caso: a) se l’intimato pone a base della propria opposizione un titolo di godimento dell’immobile estraneo a quello di locazione d’opera, la causa di merito dovrà svolgersi secondo il rito ordinario davanti il giudice competente per valore ; b) se, al contrario, l’opposizione dell’intimato si fonda sul contratto speciale di lavoro, appare scontata l’applicazione delle norme sul rito speciale del lavoro con conseguente rimessione delle parti dinanzi al giudice del lavoro competente nel termine non inferiore a venti giorni, ma non superiore a trenta, risultante dal combinato disposto degli artt. 428, 2°comma e 667, 2°e 3° comma, c.p.c.. Oltre all’ipotesi in cui il “dire e contraddire” delle parti si svolge davanti ad un altro giudice vi è quella in cui lo stesso giudice del lavoro adito, competente ex art.661 c.p.c., sia anche competente ai sensi dell’art.413 c.p.c. per la successiva fase di merito: in questo caso troverà piena applicazione l’art.426 c.p.c. e il contraddittorio si svolgerà in conseguenza della fissazione dell’udienza di discussione e del termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. |
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