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11/11/2016
I DOCENTI E GLI ATA PRECARI O GIA´ DI RUOLO POSSONO OTTENERE PER INTERO IL RICONOSCIMENTO DEL PERIODO PRERUOLO
La sentenza n. 22558/2016 della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro del 07.11.2016 è una sentenza storica per il mondo della SCUOLA PUBBLICA.
A partire da oggi qualunque precario per i dieci anni precedenti può chiedere con un ricorso al Giudice del Lavoro il riconoscimento giuridico della m...


10/04/2016
CHI ISCRIVE IPOTECA PER UN VALORE SPROPOSITATO PAGA I DANNI
E’ di questi ultimi giorni la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito una responsabilità aggravata in capo a chi ipoteca il bene (es. casa di abitazione) del debitore ma il credito per il quale sta agendo è di importo di gran lunga inferiore rispetto al bene ipotecato....


19/05/2015
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26/11/2014
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02/04/2014
Previdenza - prescrizione ratei arretrati - 10 anni anche per i giudizi in corso
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27/11/2013
Gestione Separata Inps: obbligo d´iscrizione per i professionisti dipendenti?
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti....


25/11/201
Pubblico dipendente, libero professionista, obbligo d´iscrizione alla Gestione Separata Inps
Come è noto, la Gestione Separata dell’INPS è stata istituita dalla legge 335/1995 al fine di garantire copertura previdenziale ai lavoratori autonomi che ne fossero sprovvisti.
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05/05/2013
L´interesse ad agire nelle cause previdenziali. Analsi di alcune pronunce
Nell´area del diritto previdenziale vige il principio consolidato a livello giurisprudenziale, secondo il quale l’istante può avanzare all’Autorità Giudiziaria domanda generica di ricalcolo di un trattamento pensionistico che si ritiene essere stato calcolato dall’Istituto in modo errato, senza dete...









   lunedì 6 settembre 2004

Problemi del contraddittorio nelle controversie individuali di lavoro.

dell Avv. Lucia De Marco

Problemi del contraddittorio nelle controversie individuali di lavoro.




1) L’anima del processo.



“Il processo è un procedimento in cui partecipano (sono abilitati a partecipare) coloro nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a svolgere effetti: in contraddittorio, e in modo che l’autore dell’atto non possa obliterare le loro attività" (nota 1).

Inquadrato fra i principi generali o direttivi dell’ordinamento processuale, inducibile per astrazione dalle norme positive, il contraddittorio rileva, attraverso le proposizioni con cui d’abitudine lo si descrive, aspetti spesso generici ed indistinti.

Formalmente, nell’enunciazione testuale che ne dà l’art.101 c.p.c., si suppone che esso consacri in limite litis la regola tradizionale audiatur et altera pars, prescrivendo che “il giudice non può procedere nè giudicare senza aver chiamato davanti a sè tutte le parti per ascoltare le loro ragioni ”.

In una prospettiva giuridico-politica, si assume che esso, dovendo garantire “a tutte le parti l’occasione e la possibilità di difendersi prima che il giudice pronunci il suo giudizio”, dia attuazione ad un’elementare esigenza di giustizia, recepita solennemente anche dall’art.24, 2°comma, Cost..

In un’ottica più sostanziale e contenutistica, tuttavia, il contraddittorio non interpreta una mera garanzia di eguaglianza astratta e statica, realizzata da un’iniziale attribuzione di pari possibilità processuali ai soggetti in lite, ma postula il riconoscimento di chances effettive di compartecipazione dinamica nel corso dell’intero procedimento, sintetizzando così “l’insieme delle regole che, dalla costituzione del rapporto processuale sino alla definizione del giudizio, disciplinano il dialogo aperto” e l’antagonismo attivo delle parti in funzione di un fine comune: il condizionamento a proprio favore della decisione giurisdizionale .

In queste sommarie considerazioni sono implicitamente identificati tutti i problemi che caratterizzano l’argomento da trattare.

Il punto di partenza sarà la conclusione che, immediatamente, si può trarre da queste stesse affermazioni: il contraddittorio è l’anima del processo, il connotato basilare della giurisdizione ; se può piacere, prendendo in prestito una celebre espressione dall’economia, possiamo definirlo come la “mano invisibile” che lasciata libera regola i rapporti tra le parti.

Il nostro c.p.c. contiene una serie di elementi che convalidano questa conclusione: 1) le guarentigie formali della vocatio in jus introduttiva si riproducono pressochè inalterate nell’art.101, arricchendosi dell’appropriato nomen juris (la rubrica è titolata, infatti, “principio del contraddittorio”): 2) nella medesima dimensione, rivestono un significato complementare ed omogeneo le forme di adcitatio del litisconsorte pretermesso (artt.102, 2°co., e 268); 3) nella visuale dell’interesse ad agire, invece, la possibilità di “contraddire” alla domanda giudiziale non può che presupporre una difesa dinamica ed attiva, esplicata in conseguenza della citazione dal convenuto legittimato ad causam (artt.100 c.p.c. e 276, 2°co., cc.); così come attiva ed articolata è, nel linguaggio giurisprudenziale, la nozione di contraddittorio riferita alle ipotesi di “accettazione” con effetti sananti o convalidativi; 4) infine, come specifico metodo di “audizione” orale, il “contraddittorio” di più soggetti avanti al giudice acquisisce un valore assai prossimo a quello di un “confronto” dialettico tra posizioni eventualmente contrastanti .

Dato che la Costituzione del 1948 ha consacrato l’inviolabilità del diritto di difesa fra le più significative garanzie di legalità del procedimento giurisdizionale è naturale che per una soddisfacente trattazione del principio del contraddittorio bisogna fare riferimento all’insieme dei parametri interpretativi di cui, in questi decenni, l’opera di “concretizzazione” svolta dalla Corte Costituzionale ha saputo tracciare un quadro vivido e stimolante .

Orbene, riconoscendo che l’art.24 Cost. ha “elevato il principio del contraddittorio alla dignità del precetto costituzionale” non si intende confondere indebitamente i due termini del nostro raffronto, contraddittorio stricto sensu e diritto di difesa, ma si delinea un nesso strumentale che, a seconda delle angolazioni da cui ci si ponga, vede l’instaurazione del contraddittorio come indispensabile presupposto e modalità di esercizio del diritto di difesa ovvero, per converso, l’inviolabilità di quest’ultimo come presidio e condizione essenziale per la realizzazione di quello .

Difesa e contraddittorio finiscono, quindi, col compenetrarsi vicendevolmente, senza danno apparente all’intelligibilità dei loro rapporti strumentali, appunto perché in tale direzione si rivelano trainanti e decisivi i dati emersi dall’interpretazione coordinata degli artt.3 e 24 Cost..

E’ constatazione ormai indiscussa che le norme costituzionali, per la loro stessa natura, tendono a storicizzare valori o principi generali, enunciando proposizioni indeterminate e generiche, la cui concretizzazione è forzatamente rimessa all’integrazione concettuale dell’interprete o del giudice.

Sono gli organi di giustizia, dunque, a dover fissare il “contenuto minimo” del contraddittorio, inteso come il minimo irriducibile della partecipazione degli interessati al procedimento e, correlativamente, il minimo di struttura formale, necessaria appunto per assicurare una effettiva possibilità degli stessi all’iter formativo del provvedimento; aspetti, questi, della medesima realtà emergente dal combinato disposto dell’art.24, 1° e 2° comma e dell’art.3 della Costituzione.

Giova, a questo proposito, porre in luce i profili essenziali del "due process" che una mole ormai cospicua di pronunzie ha individuato come emergenti dall’interazione delle garanzie costituzionali.

A) L’eguaglianza dinanzi al giudice comporta una parità essenziale di poteri, doveri, ed anche di sanzioni, in favore ovvero a carico di ciascuna delle parti antagoniste. Il che significa garantire una tendenziale simmetria di posizioni all’attore ed al convenuto, anche nei procedimenti, come quello del lavoro, caratterizzati da strutture peculiari .

B) Poichè l’effettività della difesa presuppone la tempestiva “conoscenza” dei tempi e dei modi in cui sia consentito partecipare attivamente al giudizio, le forme di comunicazione o di notificazione devono costantemente garantire le “migliori condizioni di conoscibilità” degli atti notificandi, rifuggendo dalle pure “presunzioni”.

C) Inoltre, il contraddittorio si considera sostanzialmente violato, ogni qual volta “per il compimento degli atti defensionali od assertivi la legge stabilisca termini acceleratori di incongrua estensione, tali da vanificare ogni concreta possibilità di partecipazione incisiva al dibattito processuale” .

D) Il “potere processuale di rappresentare al giudice le realtà dei fatti” dedotti a fondamento delle pretese azionate costituisce un elemento basilare nel nucleo insopprimibile della garanzia costituzionale nel duplice aspetto di garanzia del diritto alla prova, e di garanzia del metodo di acquisizione, in contraddittorio, di essa.

Basta considerare come puramente illusoria sarebbe una partecipazione degli interessati, se essa non riguardasse anche le attività e i momenti preordinati alla fissazione del fatto, cioè al momento della prova, perchè ne appaia naturale la conseguenza.

E) Infine, quasi un sugello della concreta attuazione del contraddittorio nel corso del procedimento, e a garanzia di completamento del “contenuto minimo” di esso, può venir considerata altresì la garanzia della motivazione del provvedimento, del resto solennemente sancita dall’art.111 della Costituzione.

In breve, è lecito dire che la garanzia della motivazione rappresenta l’ultima manifestazione del contraddittorio; perciò l’obbligo posto dal giudice di enunciare i motivi del suo provvedimento si traduce nell’obbligo di tener conto dei risultati del contraddittorio, e al tempo stesso di render conto che l’iter formativo del provvedimento medesimo, si è svolto all’insegna della partecipazione degli interessati.

Quindi, anche se il significato ultimo dell’obbligo di motivare nella sua dimensione costituzionale deve ravvisarsi nel rendere possibile il sindacato esterno sull’opera di amministrazione della giustizia , non vi è dubbio che vi rientra pure il sindacato sul procedimento di formazione dell’atto giurisdizionale, e dunque sul rispetto dell’eguaglianza delle parti assicurata dal contraddittorio.

In questo senso la garanzia della motivazione, seppure rivolta alla soddisfazione di un interesse sociale, riassume anche la tutela di un interesse individuale alla piena esplicazione del contraddittorio, di cui rappresenta la sintesi finale.

“Se questo è vero, non si può nascondere un senso di perplessità di fronte alla più recente tendenza, già divenuta una realtà normativa per un particolare settore dell’ordinamento processuale , (...), volta ad operare una sorta di dissociazione del dictum giudiziale dalla enunciazione dei motivi, rinviata ad un momento successivo alla pubblicazione del provvedimento ”.

Colesanti conclude con una notazione da lui stesso definita “volutamente polemica”: è sconfortante il pensiero che “per assicurare l’effettività del mezzo di tutela non basti l’adozione di forme più snelle e celeri del modello ordinario, in cui le garanzie delle parti vengano ridotte al minimo non comprimibile, ma sia necessario finanche approdare al risultato d’un provvedimento di cui solo in tempo successivo sia possibile conoscere i motivi: a taluno potrebbe venir fatto di opinare che per i custodi dell’ordinamento la Repubblica sia sì fondata sul lavoro, purchè tuttavia si tratti non solo e non tanto del c.d. lavoro subordinato, ma soprattutto del lavoro...altrui! ”.



Segue. L’uguaglianza delle parti.



Per aversi un processo giusto, sosteneva Calamandrei, non basta “che vi siano due parti in contraddittorio, in modo che il giudice possa udire le ragioni di tutt’e due; occorre altresì che queste due parti si trovino tra loro in condizione di parità non meramente formale (che può voler dire teorica), che vi sia fra esse una effettiva parità tecnica ed anche economica ”.

Evidentemente il Calamandrei intendeva riferirsi ad un problema ancora oggi attuale: quello dell’uguaglianza delle parti.

L’argomento deve essere trattato da due punti di vista: uno sostanziale ed uno processuale, che rappresentano, però, due risvolti di una stessa medaglia.

Non c’è dubbio che, nonostante i notevoli progressi compiuti nell’ultimo secolo, la diseguaglianza sostanziale tra le parti costituisce ancora oggi un connotato peculiare del rapporto di lavoro.

Anche negando la concezione marxista, secondo la quale “lo stato di soggezione del lavoratore è insito nel sistema economico borghese, il quale si regge sul profitto capitalistico, che è dato dallo sfruttamento della forza-lavoro (pluslavoro) e dal plusvalore”, non si può non ammettere che, “nell’assetto attuale, (...), il lavoratore appartiene a una determinata classe sociale (proletario, piccola borghesia), e non detiene il capitale, inteso come proprietà di mezzi di produzione; è escluso normalmente dalla partecipazione alle direttive aziendali e agli utili dell’impresa; è soggetto agli ordini del datore di lavoro, al suo potere organizzativo e disciplinare; si trova, insomma, in una condizione di inferiorità, che solo in parte è attenuata dai limiti, che talune leggi speciali e taluni precetti costituzionali pongono oggi al dispotismo manageriale ”.

Questo stato di soggezione e di debolezza in cui si trovano i lavoratori è innegabile e, secondo alcuni , è coessenziale al rapporto: non dimentichiamo che la forza dei lavoratori si manifesta attraverso la coalizione, e che l’emancipazione degli stessi è affidata quasi esclusivamente all’azione sindacale.

Tuttavia, se dal piano sostanziale si passa a quello processuale, si può dubitare che le cose stiano allo stesso modo.

La prima e più importante esperienza che il soggetto vive nel processo è il contraddittorio con un altro soggetto: questa contestazione reciproca determina l’attribuzione alle parti di qualifiche convenzionali e provvisorie , che non hanno nulla a che vedere con le loro posizioni sostanziali .

Si deve notare come anche la legge 533/73 non parli di lavoratore e di datore di lavore, ma di ricorrente e di convenuto .

Anzi è proprio questa indeterminatezza, questa temporanea privazione dei ruoli delle parti a costituire il fondamento della loro uguaglianza processuale: finchè c’è processo i contendenti, per il solo fatto di essere tali, godono da parte dell’ordinamento di pari credibilità. L’affermazione (o la negazione) dell’una vale quanto l’affermazione (o la negazione) dell’altra.

Il processo ordinario –e, dunque, anche quello del lavoro- svela in tal modo il suo connotato essenziale: quello di una struttura paritaria fondata sul contraddittorio .

In altri termini, per quante sperequazioni vi possano essere fra lavoratore e datore di lavoro sul piano sostanziale, vi è un momento in cui questi soggetti possono considerarsi uguali: questo momento è il contraddittorio, ed, essendo il contraddittorio il punctum distinctionis tra procedimento e processo, l’uguaglianza si raggiunge nel processo.

Tutto ciò consente, tra l’altro, di riconsiderare il valore che ha avuto per i lavoratori l’accesso stesso al processo, dal momento che in epoca risalente le forme di tutela giurisdizionale per questa categoria di soggetti erano pressocchè inesistenti.

Il processo, come momento organizzativo dei rapporti umani ha sempre rilevanza sociale, e può anche essere considerato uno “strumento di politica sociale, purchè a questa espressione si attribuisca carattere di obiettività e di generalità, non di parzialità e di particolarità ”.

Con questa affermazione Tesoriere pone la linea di demarcazione tra chi ritiene che il processo del lavoro attua una funzione assistenziale in favore del lavoratore e, dunque, considera l’ineguaglianza anche nell’ambito processuale e chi, invece, come l’indirizzo dottrinario di Satta, al quale Tesoriere stesso aderisce, considera il fenomeno dell’ineguaglianza circoscritto al diritto sostanziale.



2) L’instaurazione del contraddittorio: aspetti problematici.



“L’essenza stessa del contraddittorio esige che vi partecipino almeno due soggetti, un “interessato” e un “controinteressato”: sull’uno dei quali l’atto finale è destinato a svolgere effetti favorevoli e sull’altro effetti pregiudizievoli ”: e questa possibilità dei destinatari dell’efficacia di “dire e contraddire” è il punctum dinstictionis fra procedimento e processo .

Stabilire, dunque, il momento in cui viene instaurato il contraddittorio equivale a determinare il momento in cui si verifica la pendenza della lite nelle controversie di lavoro, cioè in quale momento si costituisce il processo.

La giurisprudenza meno recente era costante nel ritenere che “il processo del lavoro deve considerarsi instaurato non già nel momento in cui il ricorso viene presentato al giudice del lavoro ma nel momento in cui esso viene notificato alla controparte ”.

A sostegno di questa soluzione si è osservato che la speciale disciplina del 1973 nella materia in questione “va calata nel sistema del c.p.c., i cui principi basilari (ad es. quelli della domanda, dell’interesse, del contraddittorio, della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ecc.), mantengono intatte le loro validità; resta, pertanto, integra anche la regola, art.39, 3°comma c.p.c., che lega la pendenza della lite al momento del compimento dell’attività notificatoria, che è quello effettivo della contestazione per l’instaurazione formale del contraddittorio”.

Questa soluzione è stata contrastata da una pronuncia della Cassazione nel 1990 .

Sennonché le Sezioni Unite con due sentenze, n.5597 del 11 maggio 1992 e n.4676 del 12 aprile 1992, hanno così statuito: “nelle controversie di lavoro la pendenza della lite si determina con il deposito del ricorso introduttivo nella cancelleria del giudice, instaurandosi in questo momento un rapporto tra due dei tre soggetti tra i quali si svolge il giudizio” .

In questa visione resta dietro le quinte della scena processuale il convenuto, che però è colui contro il quale viene proposta la domanda giudiziale, e contro il quale dovrebbero essere pronunciati i provvedimenti invocati dall’attore nel ricorso.

Monteleone afferma: “sembra proprio che la S.C. si sforzi di dare veste e dignità di principio giuridico ad un modo di agire e di fare, che da sempre la saggezza popolare ha respinto, bollandolo con sferzante ironia: fare i conti senza l’oste! Quando, infatti, si ritiene pendente la controversia di lavoro nel momento in cui il suo principale bersaglio, cioè il convenuto, non sa neppure che contro di lui è stata proposta una azione tendente ad ottenere provvedimenti a lui sfavorevoli, la conseguenza immediata che se ne trae è che esisterebbe un vasto settore del nostro ordinamento processuale, nel quale è lecito promuovere un ordinario processo di cognizione e porre in essere le condizioni per il concreto esercizio della giurisdizione senza che sia necessario darne notizia al convenuto”.

E’ molto interessante il modo in cui Monteleone avanza sospetti sulla validità della soluzione prescelta dalle Sez.Un.; in questa stessa occasione conclude la citazione precedentemente riportata con una esclamazione d’effetto che esprime tutta la sua disapprovazione: “se fosse vero, dovrebbe urgentemente cambiarsi la legge!”.

Dal punto di vista normativo mette in evidenza come la massima enunciata dalla S.C. da un lato contraddice una norma espressa, l’art.39 c.p.c., dall’altro non ne ha alcuna a suo fondamento, e come tale appare una creazione giurisprudenziale arbitraria .

E’ ritenuta “eccessiva” anche la preoccupazione della S.C. per la quale, con riguardo all’art.5 c.p.c., attinente al momento determinativo della giurisdizione e della competenza, se la pendenza della lite iniziasse a partire dalla notifica del ricorso anzichè dal deposito, rimarrebbe scoperto l’arco temporale intercorrente tra le due attività.

Anche a questo proposito Monteleone è pronto a controbattere evidenziando che, l’art.5 c.p.c., non fa riferimento alla pendenza in senso tecnico della lite ma alla sua “proposizione”, e dunque “nulla vieta di ritenere che ai fini della perpetuatio iurisdictionis la domanda si intende proposta al giudice col deposito in cancelleria, e viceversa pendente la lite solo in seguito alla sua notificazione ”.

In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite nel 1984 con la sentenza 11 maggio 1984, n.2874.

L’equivoco maggiore nel quale sono incorse le Sezioni Unite, consiste nell’aver consapevolmente svalutato il più essenziale principio del processo civile, al quale ogni norma deve piegarsi, e che si trova rafforzato dalla precisa garanzia dettata dall’art.24 Cost.: il principio del contraddittorio contenuto nell’ormai a noi familiare art.101c.p.c..

Con la sentenza n.5597 del 11 maggio 1992 le Sezioni Unite hanno posto il limite tra costituzione del processo e realizzazione del contraddittorio considerandole come due realtà diverse .

Monteleone replica : “a meno di voler considerare il processo e la litispendenza come una vana ombra, ognuno vede che innanzi ad un giudice ancor privo del potere di esaminare e decidere nel merito la domanda proposta non pende alcuna controversia, e che affermare il contrario è veramente una pretesa al di fuori di ogni realtà”.

In effetti Costituzione del processo, pendenza della lite, instaurazione del contraddittorio sono nel nostro ordinamento processuale concetti inscindibili: pretendere di separarli, e addirittura di farne decorrere gli effetti da momenti diversi, significa soltanto violare la logica, e soprattutto il diritto positivo.

Nella decisione della S.C. sembra rispecchiarsi un riflesso della concezione autoritaristica che, nell’articolazione della fase introduttiva delle controversie di lavoro nei due momenti dell’edictio actionis e della vocatio in ius, vuole una preminenza della prima, coincidente con la invocazione del giudice, rispetto alla seconda, coincidente con la notifica al convenuto, e quindi con l’attuazione del contraddittorio; il ridurre l’esercizio dell’azione e la domanda giudiziale ad una invocazione rivolta all’organo pubblico investito del potere equivale a commettere un errore giuridico.

Infatti i requisiti dell’atto introduttivo che integrano la c.d. edictio actionis non sono solo diretti al giudice, per consentirgli di statuire sulla domanda, ma sono anzitutto elementi indispensabili alla regolare costituzione del contraddittorio e dunque rivolti prima al convento che dovrà difendersi e poi al giudice.

Sotto questo profilo, dunque, la distinzione tra edictio actionis e vocatio in ius non ha in se nulla di ontologico ma è un insignificante espediente processualistico per cui l’atto introduttivo del processo di cognizione, sia esso citazione o ricorso, resta un atto unico e unitario, anche se complesso, volto essenzialmente alla corretta costituzione del contraddittorio .



Segue. Gli “attori” sulla scena: costituzione dell’attore.



E’, dunque, arrivato il momento di parlare più dettagliatamente di quell’interessante “rappresentazione teatrale” che è il processo del lavoro.

E’ uno spettacolo dalla struttura tipica: divisione in “atti”, partecipazione di almeno due “attori” che si susseguono sulla scena per recitare la propria parte e, quando tutto ormai è terminato, un “sipario” che cala e chissà se, a breve, si riaprirà per dare inizio alla “seconda parte” della storia.

E’, però, una rappresentazione con delle caratteristiche particolari.

C’è, infatti, un soggetto, il “regista”, che oltre a dirigere la “parte tecnica” dello spettacolo, quando lo ritiene opportuno interviene sulla “scena” divenendo parte “attiva” della rappresentazione.

Sulla sua testa pende, inoltre, “una spada di Damocle”: a lui spetta, infatti, decidere l’epilogo della storia, e, nel fare tutto ciò deve scindere il cuore dalla mente ed essere il più imparziale possibile.

Non è ammesso, infatti, alcun coinvolgimento morale.

La rappresentazione è molto “breve”, è un “dialogo” che si conclude in tre atti, due dei quali sono privi di colpi di scena.

Si è, infatti, a conoscenza della “trama” e delle posizioni dei vari attori sin dall’apertura del sipario per evitare che lo spettacolo si trasformi, per tutto il tempo, in “una pedana nella quale si giuochi di fioretto con abili ed imprevisti colpi ”.

Con questa allusione siamo entrati già nel vivo del discorso: abbandoniamo, dunque, per un attimo la scena teatrale per calarci nuovamente in quella processuale.

L’atto introduttivo del giudizio del lavoro scelto dal legislatore è il ricorso che soddisfa e concretizza quei principi chiovendiani di immediatezza concentrazione che assieme all’oralità caratterizzano il nuovo rito del lavoro.

Quanto al contenuto del ricorso, l’art.414 c.p.c. fornisce un elenco degli elementi che tale atto deve contenere, coincidente, con qualche lieve puntualizzazione, modifica od omissione, con l’elencazione dei requisiti dell’atto di citazione contenuta nell’art.163 c.p.c.; manca, ovviamente, tutto ciò che nell’art.163 n.7 u.c. c.p.c. è previsto ai fini della in jus vocatio.

Oltre l’indicazione del giudice adito, il ricorso deve, quindi, contenere l’indicazione delle parti; è richiesta, poi, la determinazione dell’oggetto della domanda ; l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda e le relative conclusioni ; e l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione .

A differenza dell’atto di citazione il ricorso viene prima presentato al giudice, attraverso il deposito in cancelleria e, solo in un secondo momento, viene portato a conoscenza della controparte, attraverso la notificazione .

Depositando il ricorso nella cancelleria unitamente ai documenti in esso indicati, l’attore si costituisce in giudizio.

Dunque, nel rito del lavoro, data anche l’inapplicabilità dell’art.290c.p.c., è impossibile la contumacia dell’attore.

“Il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa con decreto l’udienza di discussione” (art.415, 2°comma), curando che “tra il giorno del deposito del ricorso e l’udienza di discussione non devono decorrere più di sessanta giorni” (3°comma) .

Salvo il caso di costituzione personale della parte ex art.417, “il ricorso al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto, a cura dell’attore, entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto” (4°comma); “tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni” (5°comma); quaranta se la notificazione debba farsi all’estero.

Con la notifica al convenuto si instaura, dunque, il contraddittorio.

Un’ultima considerazione da fare riguarda il regime della nullità.

Si rende, però, necessario differenziare due categorie di vizi: quelli afferenti alla vocatio in jus che impediscono solo la valida instaurazione del contraddittorio e quelli afferenti alla edictio actionis che impediscono l’identificazione dell’oggetto del giudizio .

Nella legge 533/73 manca ogni disciplina dei vizi inficianti il ricorso; ciò pone gravi problemi, in quanto l’adattamento al rito del lavoro della norma ad hoc dettata per il rito ordinario (art.164) è tutt’altro che agevole.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che si ha la nullità del ricorso introduttivo quando sia impossibile individuare dall’esame completo dell’atto quale sia esattamente il petitum e la causa petendi .

Questa nullità non è suscettibile di sanatoria, nè il difetto può ritenersi sanato dalla costituzione del convenuto.

Il vizio, infatti, sopravvive alla costituzione stessa in virtù del rigido sistema di preclusioni, in conseguenza del quale al convenuto non sarebbe concesso di svolgere appieno l’attività difensiva se tale sanatoria fosse ammessa .

Il vizio della vocatio in jus consiste, invece, nell’inosservanza del termine stabilito dall’art.415, 5° e 6° comma, per consentire al convenuto di preparare adeguatamente la sua difesa.

Fino al 1988 per la tesi dominante il mancato rispetto dei termini a difesa troverebbe la sua regolamentazione nell’art.291, 1°comma c.p.c. ed il vizio sarebbe sanabile con efficacia ex tunc .

Con la sentenza 1 marzo 1988, n.2166 il quadro cambia.

Le Sezioni Unite, infatti, in un ampio obiter dictum, riconducono il vizio attinente alla vocatio in jus alla disciplina dell’art.164c.p.c..

Fulcro del ragionamento della corte è l’attribuzione al ruolo di disposizione fondamentale del sistema processuale civile all’art.164 e di norma eccezionale all’art.291, che non potrebbe essere invocata al di fuori della nullità afferenti il procedimento notificatorio causato da inesatti adempimenti dell’ufficio.

La scelta non ha lasciato inerme la dottrina che ha rivolto alla sentenza critiche pressochè unanimi .

Il novellato art.164c.p.c. prevede per i vizi relativi alla chiamata in giudizio del convenuto una regolamentazione sostanzialmente identica a quella delineata dall’art.291.

Due sono, dunque, le possibili sanatorie che operano entrambe con efficacia pienamente retroattiva, la rinnovazione dell’atto viziato e la costituzione del convenuto.

Segue. Costituzione del convenuto.

Una volta che il primo attore è “salito sulla scena”, tocca al secondo decidere cosa fare. Le alternative non sono molte: può “entrare” a far parte attivamente della rappresentazione, accontentando gli spettatori con l’instaurazione del tanto atteso “dialogo” o lasciare che il nome faccia parte del cast, rimanendo fisicamente assente; successivamente può chiedere di “entrare” e giustificando il ritardo il “regista” lo rimetterà sulla scena facendogli riacquistare la “parte” che aveva ormai perso.

La realtà processuale non è molto diversa da questa.

Di fronte all’invito che l’attore, con la vocatio in jus, fa, il convenuto può decidere di costituirsi tempestivamente oppure non costituirsi ed essere dichiarato, nella prima udienza, contumace ; tra queste due ipotesi estreme se ne inserisce una terza per così dire intermedia, cioè la costituzione, non tempestiva ma avvenuta successivamente fino alla prima udienza.

Il convenuto è libero di scegliere deve, però, valutare le conseguenze ex lege dell’alternativa prescelta.

L’ipotesi contemplata dal c.p.c. come atto iniziale tipico del diritto di contraddire è quello di cui all’art.416c.p.c., cioè il deposito in cancelleria di uno scritto difensivo, equivalente della comparsa di risposta del rito ordinario .

L’art.416c.p.c. è completo nella indicazione del momento temporale in cui deve avvenire la costituzione e del contenuto dell’atto tipico con cui il convenuto si costituisce .

E’, ormai, pacifico in dottrina e giurisprudenza che la costituzione del convenuto avanti al giudice del lavoro avvenuta senza il deposito in cancelleria della memoria difensiva è irrituale. In conformità di questo orientamento la pretura di Roma, con decisione del 13 agosto 1994 ha stabilito che “il difetto della memoria difensiva nel rito del lavoro non è utilmente sostituibile con il solo fatto della comparizione all’udienza del difensore per rendere dichiarazioni orali, sia pure munito di valida procura rilasciata in calce alla copia notificata del ricorso introduttivo, ma implica che l’attività processuale, eventualmente spiegata, nel permanere di tale difetto sia del tutto abnorme ed irrituale, nonchè inidonea ad impedire la contumacia ”.

Una sentenza della Cassazione del 1997 ha, invece, disposto che non è necessario che le eccezioni e i mezzi di prova di cui intende avvalersi, ex art.416 c.p.c., debbano essere materialmente presentati con un unico atto difensivo, “essendo invece possibile il deposito di memorie integrative della comparsa di costituzione, onde devono ritenersi tempestive le eccezioni e le deduzioni di prova contenute in scritti successivi e separati dalla suddetta memoria, purchè depositati nel termine di cui all’art.416c.p.c., tranne nell’ipotesi di formulazione dell’eccezione di incompetenza territoriale, che, dovendo essere proposta nel primo scritto difensivo, va necessariamente esplicata nella memoria di costituzione ”.

Pur sorvolando sul computo del termine di cui al 1°comma, è necessario soffermarsi sulla ratio di questa disposizione e sulle conseguenze della decadenza di cui al 2°comma.

Il legislatore del ‘73 succhiando tutto il positivo della riforma processuale del 1942 e riaffermando il principio di preclusione, in buona parte abbandonato dal legislatore del 1950 ha voluto realizzare “l’interesse alla rapidità e alla buona fede processuale, il quale esige che le parti non mandino in lungo il processo con un ben dosato stillicidio di deduzioni tenute in riserva, e vuole che le stesse, fin da principio, vuotino il sacco delle loro ragioni, senza preparare gli espedienti per le sorprese dell’ultimo ora” .

Queste preclusioni, nel rispetto dei principi dell’oralità della immediatezza e della concentrazione che informano il processo del lavoro, sono da porre in relazione col fatto che nella prima, e tendenzialmente unica, udienza è prevista l’ammissione e lo stesso esperimento delle prove, nonchè la discussione e la decisione. Esse concernono:

a) la proposizione di eventuali domande riconvenzionali ;

b) la proposizione di eventuali eccezioni processuali o di merito che non siano rilevabili d’ufficio;

c) l’indicazione dei mezzi di prova offerti, compresi i documenti, che debbono essere prodotti;

d) l’onere della proposizione, nella memoria, di tutte le difese di fatto e in diritto ;

e) l’onere di prendere posizione in maniera precisa circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda .

E’ opportuno sottolineare che il regime delle preclusioni non riguarda solo il convenuto, ma mutatis mutandis, anche l’attore.

Diversamente verrebbe a verificarsi una grave violazione del principio della parità delle parti processuali che trova la sua attuazione nel contraddittorio.

La suddetta disciplina, diretta a far sì che il giudice conoscendo immediatamente gli esatti termini della lite possa “prendere parte attiva nello svolgimento del processo e non assistere passivamente al gioco delle parti ”, non consente al convenuto di costituirsi successivamente ai termini di legge fino alla prima udienza, senza subire alcuna conseguenza sfavorevole in ordine all’esercizio del diritto di difesa.

E’ utile ricordare che la tardiva costituzione, che evita la dichiarazione di contumacia del convenuto, non è vietata: in caso contrario si sarebbe posto il problema di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art.24 Cost., della norma impeditiva e dunque la violazione del diritto di difesa.

Tuttavia, il convenuto costituitosi tardivamente deve accettare il processo nello stato in cui si trova, ferme restando le preclusioni e le decadenze già verificatesi , salva, naturalmente l’ipotesi della rimessione in termini ex art.294c.p.c..

Nell’ipotesi in cui il convenuto non si è costituito fino alla prima udienza, ma non si costituisce neanche in questa, il giudice “quando è decorsa almeno un’ora dall’apertura dell’udienza ” dovrà dichiarare la contumacia del convenuto non costituito e non comparso.

In questa situazione la dottrina e la giurisprudenza ritengono applicabili gli art.59 Disp.Att. e arttt.291ss.e 164 c.p.c. anche se non espressamente previsti per il rito del lavoro.

Occorre, infatti, tenere presente che le disposizioni in esame sono dettate nell’interesse della parte rimasta contumace, onde garantire il rispetto del principio del contraddittorio durante tutto il corso del processo, cioè il diritto alla difesa del convenuto non costituito .

Anche nel processo del lavoro la contumacia del convenuto non equivale a ficta confessio ovvero ad ammissione dei fatti posti dall’attore a fondamento della sua domanda anche se, ovviamente, l’onere probatorio dell’attore risulterà di fatto semplificato dall’assenza di contraddittorio del convenuto.

Sebbene la concentrazione del modello di processo previsto nel rito speciale dovrebbe quanto meno ridurre in maniera notevole il verificarsi nella pratica di questa ipotesi, è possibile che il convenuto dichiarato contumace si costituisca nel corso del processo dopo la prima udienza di discussione.

La costituzione tardiva del contumace, prevista per il rito ordinario dall’art.293c.p.c., mira a contemplare l’esigenza di stimolare la parte ad una presenza tempestiva nella fase che più richiede il contraddittorio, dovendosi precisare la controversia e svolgersi le prove con la tutela del concreto esercizio del diritto di difesa .

Pur senza fornire un elenco analitico degli effetti della costituzione tardiva del convenuto, è da rilevare che il convenuto che si costituisce può chiedere al giudice di essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse secondo i principi generali, se dimostra che la nullità del ricorso o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile.

Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell’impedimento e quindi provvede con ordinanza sulla remissione in termini della parte.

Il rispetto del principio costituzionale del diritto di difesa impone quindi di applicare anche al rito speciale del lavoro la disposizione sulla remissione in termini del contumace prevista dall’art.294 c.p.c..

Dunque, il principio del contraddittorio viene rispettato anche quando non è espressamente previsto.



3) L’integrazione del contraddittorio.



Come in uno spettacolo teatrale, anche nel processo del lavoro possono entrare in “scena” altri soggetti, diversi dall’attore e dal convenuto, realizzando una integrazione del contraddittorio che, in relazione al tipo di intervento, può essere volontaria o richiesta.

Alla tregua dell’art.24 Cost., 1°comma, “tutti possono agire in giudizio per tutelare i propri diritti ed interessi legittimi”, dunque tutti possono intervenire nei processi.

Al fine, però, di consentire una corretta applicazione di questo principio costituzionale ed evitare un caotico ed inutile groviglio di interventi, occorre servirsi di un criterio, la legittimazione ad agire, che individui il soggetto che, di volta in volta, può o deve partecipare al processo.

Quindi, mentre a tutti, cittadini o stranieri, senza distinzione di sorta, l’ordinamento giuridico italiano riconosce la possibilità di chiedere allo Stato tutela dei propri interessi, attraverso la legittimazione ad agire identifica chi, tra quei tutti, nel caso concreto può avvalersi di questa possibilità e dunque “partecipare al dato processo, titolare delle facoltà, dei poteri, dei doveri, da spendere lungo il suo corso ”: in questo senso Fazzalari parla di “legittimazione al processo”.

La legittimazione ad agire, nel processo giurisdizionale civile, si determina sul metro del provvedimento cui esso mira, cioè contemplando in ipotesi e a futura memoria, quella che dovrebbe essere la misura giurisdizionale ed i soggetti che da tale misura in ipotesi sono direttamente coinvolti .

Per quanto riguarda la legittimazione ad agire delle parti dobbiamo distinguere alcune ipotesi:

a) il provvedimento richiesto è destinato ad incidere nel patrimonio di due parti, l’attore ed il convenuto. In questo caso non si verifica alcuna necessità di integrazione del contraddittorio;

b) il provvedimento richiesto è destinato a svolgere effetti nel patrimonio di più di due parti: in questo caso devono partecipare tutti i titolari delle situazioni sostanziali “connesse con vincolo di interdipendenza ”.

Di conseguenza, se i titolari delle situazioni interdipendenti non sono in causa fin dal principio devono essere chiamati ad integrare il contraddittorio, altrimenti il processo non prosegue.

E’ questo il “litisconsorzio necessario” contemplato dal’art.102 c.p.c..

Nel rito del lavoro il riferimento normativo è contenuto nell’art.420, comma 9, c.p.c.;

c) ferma restando la partecipazione al processo dei “contraddittori” minimi, può verificarsi che allo stesso partecipino anche altre parti con conseguente incremento del contraddittorio.

Ricorre allora il “litisconsorzio facoltativo” che può essere “iniziale”, ex art.103 c.p.c., o “successivo”, cioè l’intervento.

Con questo ingresso fatto a processo già iniziato, gli “intervenienti” acquistano la qualità di parte.

L’intervento può essere di due tipi:

1) intervento volontario, ex art.105c.p.c. e 419c.p.c. per il rito del lavoro, dovuto all’iniziativa spontanea del terzo. Può essere principale, adesivo autonomo o litisconsortile, adesivo dipendente o semplice;

2) intervento coatto su istanza di parte, ex art.106 c.p.c., o per ordine del giudice, ex art.107 c.p.c.. nel rito del lavoro il riferimento a questi tipi di intervento è contenuto nell’art.420, 9°comma, c.p.c..

Il primo di questi due tipi di intervento coatto si ha quando la parte chiama nel processo un terzo al quale ritiene la causa comune a dal quale pretende di essere garantita .

L’intervento coatto per ordine del giudice, viene disposto, invece, quando ritiene che il processo si debba svolgere nei confronti di un terzo al quale la causa sia comune.

Segue. Intervento volontario.

Nel rito speciale sono ammissibili tutte e tre le specie di intervento che la dottrina e la giurisprudenza hanno individuato nella formula dei due commi dell’art.105 c.p.c.: intervento principale, adesivo autonomo o litisconsortile, adesivo dipendente o semplice.

Ricorre le figura dell’intervento principale quando si faccia valere un diritto, riguardante l’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo, e se ne chieda il riconoscimento o l’attuazione nei confronti di tutte le parti originarie. Esso è caratterizzato dall’inserimento nel giudizio di un altro rapporto processuale che vede nella veste di attore l’interveniente e nei panni di convenuti le parti originarie .

Si ha invece intervento adesivo autonomo o litisconsortile quando la pretesa fatta valere dal terzo si sostanzia in un diritto soggettivo perfetto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo già dedotto nel giudizio, e si dirige nei confronti di una sola delle parti originarie. Anch’esso comporta l’allargamento della cognizione del giudizio e l’introduzione di un altro rapporto processuale “nel quale convenuto è l’avversario della parte adiuvata e attore l’interveniente ”.

Ricorre, invece, la figura dell’intervento adesivo dipendente quando il terzo non fa valere un proprio diritto, ma soltanto il proprio interesse a che la lite venga decisa a favore di una delle parti: “l’attività processuale dell’interventore è diretta a provocare un giudicato che, se pur può riuscirgli, per effetto mediato, giovevole, ha per oggetto diretto ed immediato l’attuazione della legge a favore di uno dei contendenti al fine di assicurare a costui quel bene che la controparte gli contende ”.

L’interesse che abilita alla proposizione di tale forma di intervento si sostanzia in una situazione tale per cui, sebbene nel processo non venga in discussione un diritto di un terzo, la decisione tra le parti originarie, per la dipendenza del rapporto del quale è partecipe il terzo da quello dedotto in giudizi, verrebbe ad incidere sulla sua sfera giuridica e gli procurerebbe un pregiudizio se sfavorevole alla parte adiuvata.

Tutto ciò comporta che il tema del contendere non viene ampliato non producendosi nel processo alcuna novità oggettiva, bensì solo soggettiva .

L’art.419 c.p.c. è chiaro ed univoco nel prevedere, quanto al tempo della proposizione dell’intervento “il termine stabilito per la costituzione del convenuto”; quanto alla forma, l’osservanza delle “modalità previste dagli artt.414 e 416 in quanto applicabili”.

Il richiamo delle norme contenuto nell’art.419c.p.c. è alternativo in relazione al tipo di intervento spiegato dovendosi fare riferimento all’art.414c.p.c., che disciplina l’atto introduttivo del giudizio, quando l’interveniente proponga una domanda nei confronti di entrambe ovvero di alcune delle parti originarie e riferimento all’art.416c.p.c., che disciplina la memoria difensiva, quando l’interveniente si limiti a sostenere le ragioni di alcuna delle parti .

E’ evidente che quando il terzo proponga una domanda nei confronti di entrambe o di alcuna della parti, sarebbe del tutto incongruo pretendere che le parti, o la parte, contro cui tale domanda è proposta debbano spiegare le proprie difese all’udienza senza poter usufruire del termine che è sempre assicurato al convenuto.

L’esigenza di garantire la regolare formazione del contraddittorio, si presenta, infatti, conforme all’art.24 Cost. che, diversamente, ne risulterebbe violato.

La lettera dell’art.419c.p.c., però, era completamente muta nel punto.

A questa situazione di comune insoddisfazione si è tentato di far fronte cercando di colmare la lacuna e restituire il diritto di difesa alle parti originarie del processo in corso.

Così, mentre alcuni autori ritenevano che la norma potesse essere razionalizzata soltanto attraverso l’intervento della Corte Costituzionale , altri, facendo leva sull’espressione “in quanto applicabili”, avevano proposto una interpretazione diretta a svuotare i dubbi di costituzionalità in quanto il sintetico richiamo agli artt.414 e 416c.p.c. doveva essere inteso nel senso che l’intervento principale ed adesivo autonomo, con i quali si propone una domanda nuova, avrebbe dovuto proporsi con ricorso e con applicazione analogica della norma, l’art.418, che impone la fissazione di una nuova udienza in presenza di una nuova domanda, invece l’intervento adesivo dipendente, con il quale per definizione non si propone una nuova domanda, con la forma della memoria senza bisogno di una nuova fissazione di udienza .

Si era osservato che le giuste esigenze da cui muoveva l’interpretazione criticata potevano più modestamente, ma con pari efficacia, essere soddisfatte attraverso un intelligente uso dei poteri officiosi, e cioè attraverso un rinvio dell’udienza che avesse dato alle parti un congruo termine per difendersi.

Con la sentenza del 29 giugno 1983, n.193 la Corte Costituzionale ha radicalmente risolto il problema dichiarando “illegittimo, per violazione degli artt.3 e 24 Cost., l’art.419 nella parte in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare -con il rispetto del termine di cui alll’art.415, 5°comma (elevabile a quaranta giorni allorquando la notificazione ad acluna delle parti originarie contumaci debba effettuarsi all’estero)- una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale potranno le parti originarie depositare memoria, e di disporre che, entro cinque giorni, siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell’intervento, e che sia notificato a quest’ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza”.

Con questa pronuncia la Corte ha voluto modellare il procedimento conseguente all’intervento volontario, sia su quello dell’art.418, sia su quello che l’art.420, 9° e 10° comma, descrive per l’intervento coatto e per il litisconsorzio necessario, non effettuando più alcuna distinzione tra i tre tipi di intervento.

Viene fatta salva, ex art.419c.p.c., l’ipotesi di intervento volontario per l’integrazione necessaria del contraddittorio.

Poichè a causa della mancata partecipazione dell’interveniente, la sentenza, pronunciata nei confronti di alcuni soltanto dei partecipanti ad un rapporto giuridico inscindibilmente comune a più persone, sarebbe inutiliter data, il litisconsorte necessario non fa che prevenire l’ordine che il giudice del lavoro avrebbe dovuto necessariamente emettere ai sensi degli artt.420, 9° e 10° comma e dunque non è tenuto a rispettare il termine di costituzione del convenuto, pur dovendosi costituire rispettando le forme previste dagli artt.414 e 416 c.p.c.

Segue. Intervento coatto e litisconsorzio necessario.

Distinta disciplina ha, nel rito del lavoro, l’intervento coatto e la chiamata per l’integrazione del litisconsorzio necessario.

L’ingresso nel processo del soggetto estraneo alle parti originarie si verifica, sempre in conformità con i principi generali, non per sua iniziativa, ma per iniziativa di una delle parti, che ritenga la causa comune al terzo di cui chiede la chiamata o pretenda di essere da lui garantita , oppure per iniziativa del giudice, che dispone l’intervento quando ritenga opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo al quale la causa sia comune . In entrambi i casi deve sussistere una connessione tra il rapporto controverso e il rapporto di cui il terzo è titolare, la quale giustifica l’estensione del giudizio al terzo.

Quando, invece, non vi siano soltanto rapporti giuridici connessi, ma vi sia un’indissolubile unità di rapporto giuridico la quale non consenta di pronunciare la decisione che in confronti di più parti, il giudice, se l’azione sia stata promossa soltanto da o contro di più parti, deve ordinare fin dall’inizio del processo l’integrazione del contraddittorio .

Il legislatore disciplina le modalità nell’art.420, 9°-10°-11° comma: al terzo vanno notificati il ricorso introduttivo, la memoria difensiva e il verbale d’udienza contenente “l’istanza di chiamata o d’intervento debitamente individuata e motivata ”, nonchè il decreto di fissazione della nuova udienza di discussione per consentire alle altre parti di proporre le proprie difese ; il terzo deve costituirsi non meno di dieci giorni prima della nuova udienza, depositando la propria memoria a norma dell’art.416c.p.c..

Tutte le notificazioni vanno effettuate a cura dell’ufficio.

L’integrazione del contraddittorio costituisce, quindi, un atto d’ufficio, sostituendosi la citazione, nella sua funzione di comunicazione all’interessato della decisione del giudice di considerarlo parte del giudizio, con la notificazione del provvedimento nonchè del ricorso introduttivo e della memoria di costituzione.

Questa circostanza esclude, poi, in radice, che possa verificarsi la fattispecie patologica della mancata integrazione del contraddittorio entro il termine perentorio stabilito dal giudice che comporterebbe l’estinzione ex artt.102 e 307, 3°comma c.p.c., ovvero la cancellazione della causa dal ruolo ex art.270 c.p.c..

E’ evidente che, in queste ipotesi, la disciplina è meno rigorosa e preoccupata della salvaguardia della celerità e snellezza dell’iter e della concentrazione degli atti del processo rispetto a quella prevista per l’ipotesi dell’intervento volontario ex art.419.

Infatti la disciplina in questione, pur non facendo sorgere alcun problema in ordine alla tutela del diritto di difesa delle parti originarie , lascia aperto il problema relativo al termine finale entro cui l’ordine d’integrazione del contraddittorio e chiamata in causa possono essere disposte e come il tutto si concili con le preclusioni di cui agli artt.414 e 416c.p.c..

La disciplina del litisconsorzio necessario non fa sorgere dubbi circa la possibilità di disporre l’integrazione del contraddittorio in qualsiasi momento del giudizio di 1° grado anche se, in linea di principio , l’esigenza di chiamata del terzo ed il provvedimento giudiziale relativo debbono emergere ed emettersi nella udienza di discussione.

Per quanto, poi, riguarda la fattispecie prevista ex art.107c.p.c., la dottrina prevalente ritiene che l’ordine di chiamata del terzo può essere emanato in qualsiasi momento, mentre per la chiamata su istanza di parte o in garanzia può sostenersi che l’istanza debba essere proposta dal convenuto nella memoria difensiva a pena di decadenza e dall’attore nel corso della prima udienza e sempre che l’esigenza della chiamata scaturisca dalle difese svolte dal convenuto .

Un’ultima osservazione è da fare circa la chiamata in garanzia effettuata dalle parti: secondo Tarzia, poichè l’estensione del contraddittorio al terzo deve essere autorizzata dal giudice, egli dovrà consentire la chiamata del terzo, anche in garanzia, soltanto se la causa a lui “comune” sia di lavoro .

Il problema dell’applicazione, nell’area del diritto del lavoro, del litisconsorzio è, invece, sorto di recente.

Era difficile, infatti, ipotizzare una fattispecie concreta che potesse dare adito ad una relazione tale, tra i diversi soggetti interessati, da rendere necessaria la presenza di più parti nel processo.

In altre parole, nel rapporto individuale di lavoro, poichè il potere del datore di organizzare la propria attività era del tutto libero e privo di alcun condizionamento, ne derivava “l’assoluta discrezionalità del medesimo nel fissare le regole che incidevano sul luogo di lavoro nella sua dimensione comunitaria” .

Poichè, dunque, tale sfera di situazioni in cui i prestatori si trovano in una dimensione diversa da quella della bilateralità stretta del rapporto di lavoro non poteva essere dedotta in giudizio, appare scontata la pressochè completa impossibilità che il problema si presentasse: quando la causa verte su diritti soggettivi che riguardano le due uniche parti possibili del rapporto è evidente che la questione neppure si pone.

La situazione incomincia a mutare quando, per effetto dell’evoluzione complessiva del sistema di relazioni industriali, attraverso una serie successiva di atti legislativi e di concomitanti norme contrattuali si è andati ad incidere, con diversa efficacia, nell’area delle prerogative e dei poteri datoriali tendendo a disciplinare in qualche modo l’esercizio dei medesimi.

Così, col passaggio da una situazione di più o meno assoluto arbitrio del datore ad una situazione in cui si prevedono vincoli, controlli, obblighi, requisiti di legittimità dell’attività imprenditoriali, si sono incominciate a verificare situazioni del tutto nuove di coinvolgimento di una pluralità di soggetti tutti portatori della medesima e concorrente aspettativa nei confronti del datore di lavoro.

A questo punto la giurisprudenza, con l’ormai storica svolta del 1979 , ha ipotizzato l’uso della categoria degli interessi legittimi nell’ambito del diritto del lavoro.

Il problema sorge, dunque, quando la condotta illegittima del datore di lavoro si sia manifestata al di fuori del rapporto strettamente bilaterale con il singolo dipendente ma nell’ambito di una situazione allargata in cui a posizioni illegittimamente compresse corrispondono posizioni illegittimamente favorite.

Una sentenza della Cassazione, 8 febbraio 1988 n.1343, ha stabilito che “si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, anche quando viene dedotta in giudizio una situazione giuridica plurisoggettiva inscindibile, che richiede unità del processo e della decisione nei confronti di tutti i soggetti, per cui la sentenza, eventualmente pronunciata in assenza di parti necessarie, non potendo in alcun modo estendere la sua efficacia nei confronti dei litisconsorti pretermessi nè disciplinare la posizione degli assenti, finisce in pratica, proprio per l’unità e indivisibilità del rapporto, per non regolare nemmeno la posizione sostanziale dei litisconsorti presenti nel giudizio: sicché tale sentenza non avrebbe alcuna utilità pratica e sarebbe inutiliter data”.

Dunque, stando a quanto disposto nella sentenza del 1988, il litisconsorzio si ha quando il giudice deve fare stato nei confronti di tutte le parti, e ciò avviene evidentemente quando la domanda giudizialmente azionata è una domanda di annullamento del provvedimento datoriale impugnato per far sì che un nuovo provvedimento, adottato in modo legittimo, possa validamente sostituirvisi .

Resta da vedere se, l’estensione del contraddittorio ai controinteressati possa costituire un dato normale, in presenza di determinati presupposti, del processo del lavoro.

Per rispondere a questo quesito bisogna tenere presenti, in riferimento al processo del lavoro come delineato dalla riforma del 1973, le esigenze di estrema concentrazione e celerità di tale procedura, esplicitamente voluta dal legislatore.

A fronte di tali indubitabili peculiarità del rito del lavoro non si può convenire sul fatto che le ipotesi di litisconsorzio necessario devono essere valutate alla stregua di un’indagine assolutamente rigorosa, senza alcuna indulgenza a più o meno giustificabili suggestioni, e ciò proprio in relazione all’obiettivo appesantimento del processo che deriva dalla partecipazione al medesimo di una pluralità di parti, oltre all’evidente dilatazione dei tempi in caso di necessità di integrazione del contraddittorio a processo già iniziato.

Non sembra, dunque, “che si possa ipotizzare una generale diffusione della necessità di processi del lavoro a più parti, al di fuori di fattispecie limitate, quasi esclusivamente relative ad ipotesi di annullamento della decisione datoriale favorevole ad un soggetto diverso dal ricorrente, con conseguente necessità di rinnovo della decisione ”.

Segue. Forme di intervento delle associazioni sindacali.

Il problema dell’intervento delle associazioni sindacali nelle controversie individuali di lavoro ripete le sue origini remote nell’inizio di questo secolo, quando l’ufficio del lavoro (1904) promosse l’inchiesta per la riforma della legge sui probiviri del 15 giugno 1893 n.295.

La legislazione sulle controversie di lavoro, anteriore al codice del 1942, ammetteva l’intervento delle “associazioni legalmente riconosciute” nel processo individuale di lavoro “sempre che l’azione sia fondata sull’inadempimento di un contratto collettivo di lavoro o di norme che abbiano valore o effetto di contratti collettivi di lavoro”.

L’art.443 del c.p.c. del 1942 ampliava la portata dell’intervento disponendo che “le associazioni legalmente riconosciute delle categorie alle quali appartengono le parti possono intervenire in qualunque stato e grado del processo per la tutela degli interessi di categoria”.

Forma d’intervento, questa, profondamente differente da quella normale disciplinata dall’art.105 c.p.c..

L’intervento operato con la L.11 agosto 1973, n.533 si è esaurito nel sostituire il vecchio art.443 con il nuovo art.425 relativo alla “richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali”.

1) Una delle possibili forma di intervento è quella delle associazioni sindacali di fatto nel processo avente ad oggetto controversie individuali di lavoro, intervento per il quale il legislatore del ‘73 non ha previsto nulla riguardo alla possibilità o no di utilizzare le disposizioni generali del c.p.c. contenute negli artt.105, 106, 107c.p.c..

La sfera degli interventi attuabili deve essere individuata, dunque, dall’interprete.

A causa della difficoltà di individuare l’“interesse” legittimante il sindacato ad inserirsi in una controversia individuale di lavoro, però, sono stati originati tre orientamenti teorici .

Dunque, per poter valutare l’ammissibilità delle varie specie d’intervento non resta altro da fare che riferirsi alle singole situazioni processuali distinguibili in ordine al tipo di interesse in esse riflesso.

A) Quando la situazione soggettiva individuale configurante l’oggetto della controversia di lavoro attiene a quei valori della libertà ed attività sindacale di cui sono depositarie le associazioni sindacali di fatto, oppure attiene a diritti propri del sindacato a questi attribuiti dalla legislazione ordinaria o dalla contrattazione collettiva è riconosciuta, sicuramente, la legittimazione del sindacato ad intervenire volontariamente secondo il disposto di cui all’art.105c.p.c. .

In questo caso, pertanto, la dottrina prevalente ritiene che alla controversia individuale verrebbe cumulata una controversia collettiva.

Più problematica è, invece, la questione circa l’ammissibilità dell’intervento coatto previsto dagli artt.106 e 107c.p.c..

La dottrina più attenta ha osservato che previa valutazione della sussistenza dell’interesse ad agire, la legittimazione alla chiamata in causa dell’associazione sindacale, nei cui confronti si voglia estendere il contraddittorio per la cognizione di una domanda coinvolgente il diritto all’esercizio dell’attività e libertà sindacali proprie dell’associazione sindacale, collegata a quella avanzata in via principale, è soltanto del datore di lavoro.

Ciò lo si dovrebbe desumere dall’individuazione della legittimazione passiva limitata solo a lui nell’art.28 Statuto dei lavoratori; residualmente l’esercizio del potere di ordinare l’intervento d’ufficio deve consentirsi solo quando il presupposto legittimante viene a configurarsi durante il processo, in seguito alla formazione della preclusione a carico della parte avente interesse, che, però, può per l’appunto, sollecitare l’attività di cui all’art.107 c.p.c..

E’ da escludere, invece, qualsiasi chiamata in causa delle associazioni sindacali da parte del lavoratore, non essendo questi legittimato a dedurre in giudizio il diritto collettivo all’esercizio della libertà ed attività sindacali proprio delle associazioni sindacali .

B) Nelle controversie individuali di lavoro aventi ad oggetto una situazione soggettiva non patrimoniale o anche patrimoniale di singoli lavoratori, il cui risvolto collettivo non attiene a diritti di cui è titolare il sindacato, ma sia dato dal fatto che la decisione della controversia dipende dalla soluzione di una questione giuridica, consistente nell’interpretazione di una disposizione di legge comune ad una serie potenziale di molte altre controversie individuali , non si ravvisano presupposti per l’esperimento di nessuna forma di intervento.

Sul punto la motivazione della sentenza della Pretura di Milano 28 febbraio 1989 fa proprie le argomentazioni di Proto Pisani secondo il quale “la soluzione negativa del problema in esame deriva dalla considerazione che non esiste alcuna norma di legge che legittima (in via autonoma o anche solo in via di intervento) il sindacato a sostituirsi al singolo lavoratore (o più esattamente alle serie costituita dai singoli lavoratori dell’impresa affiliati al sindacato) nell’esercizio individuale contro il datore di lavoro.

In questa ipotesi, pertanto, sul piano processuale il sindacato potrà interessarsi del risvolto (o proiezione) collettivo della situazione sostanziale oggetto del processo solo se richiesto dalle parti o dal giudice di rendere in giudizi informazioni o osservazioni secondo il nuovo testo dell’art.425 ”.

C) Nelle controversie individuali di lavoro aventi ad oggetto una situazione soggettiva sostanziale i cui riflessi collettivi sono dati dal fatto che la decisione della controversia dipende dalla soluzione di una questione relativa all’interpretazione di un contratto collettivo, questione comune ad una serie potenziale di molte altre controversie individuali, la dottrina prevalente si è profilata tendenzialmente in senso negativo.

Esiste un difetto di legittimità, ex artt.105-106-107c.p.c., e di interesse, ex art.100c.p.c., delle associazioni sindacali di fatto ad intervenire .

Quindi anche nel nuovo processo del lavoro si potrà avere intervento solo se le associazioni sindacali risultino o si affermino titolari di un diritto soggettivo collegato a quello delle parti originarie del processo o per contitolarità, connessione in senso stretto, o per dipendenza o per pregiudizialità.

In mancanza di questi requisiti la partecipazione formale del sindacato al processo può avvenire esclusivamente nelle forme dell’art.425c.p.c..

2) Le informazioni ed osservazioni di cui agli art.421, 2°comma e 425c.p.c. individuano un altro modello di inserimento del sindacato all’interno della controversia di lavoro incardinatasi inter alios.

“La specificità dell’istituto in esame si coglie nella richiesta ad un terzo qualificato tecnicamente per la funzione sociale che assolve di offrire al giudice sia la narrazione dei fatti storici come da lui percepiti sia l’interpretazione degli stessi fatti ”.

La consapevolezza di questa specificità non può essere considerata come un attentato al diritto di difesa della controparte o all’autonomia del giudice nella formazione del suo convincimento: il diritto di difesa della controparte è, infatti, garantito dalla necessità che le informazioni ed osservazioni siano acquisite al giudizio nel rispetto del principio del contraddittorio, come è previsto dall’art.420,6°comma richiamato sia dall’art.421, 2°comma sia dall’art.425, 3°comma.

Sul piano della distinzione tra l’istituto delle osservazioni o informazioni di cui all’art.425c.p.c. e quello che trova la sua sede nel richiamato art.421, comma 2, si è osservato che essa è da identificarsi in relazione al soggetto che si deve attivare per la relativa acquisizione in giudizio: nell’art.425 si identifica in una o in entrambe le parti, nell’art.421, invece, l’ammissione è officiosa ma le parti devono indicare le associazioni alle quali il giudice deve rivolgersi.

Si è discusso al lungo del carattere facoltativo od obbligatorio della risposta da parte dell’associazione interpellata. La giurisprudenza e la dottrina hanno offerto soluzioni differenti: mentre la prima ha ritenuto di optare per la natura facoltativa della risposta, la dottrina prevalente, pur confermando tale scelta per l’eventualità in cui la richiesta provenga dalle parti, l’ha qualificata, invece, obbligatoria quando essa si configuri come una promanazione del potere istruttorio d’ufficio ex art.421c.p.c. .

Un’altra questione che ha diviso le opinioni è quella riguardante la situazione in cui ex art.421c.p.c.il giudice sollecita l’intervento delle associazioni affinchè rendano informazioni ed osservazioni inerenti ai fatti dedotti in controversia ma le parti non provvedono ad operare l’indicazione di quella da interpellare .

Quanto all’efficacia delle informazioni ed osservazioni, orali o scritte che siano, la giurisprudenza è pervenuta alla conclusione che esse sono generalmente prive di ogni portata vincolante e non sono, neppure, assimilabili ai dati scaturenti da una consulenza tecnica: si tratta, invero, di meri dati informativi, da apprezzarsi in modo discrezionale ed aventi, per lo più, come oggetto le c.d. prassi interpretative dei contratti collettivi e le altre modalità connesse. Le stesse osservazioni, pur non configurandosi come mezzi di prova e non prospettandosi, quindi, come idonee e sufficienti da sole per provare la prassi interpretativa e gli usi di fatto e contrattuali e pur non dovendo essere fornite obbligatoriamente, ma solo su indicazione di almeno una parte , possono costituire il fondamento per la formazione di presunzioni semplici e argomenti di prova , sempre che ci si attenga all’osservanza dei requisiti previsti dagli art.421 e 425c.p.c. .

E’ da notare, infine, che oltre alla possibilità dell’acquisizione delle informazioni ed osservazioni nel luogo di lavoro presso il quale sia stato disposto l’accesso , che l’ultimo comma dell’art.425 in esame prevede la facoltà per il giudice di richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti ed accordi collettivi di lavoro anche aziendali, da applicare nella controversia .

La giurisprudenza è approdata alla considerazione secondo la quale, in tema di interpretazione di un contratto collettivo, le informazioni e le osservazioni sindacali, sono utili per la ricostruzione della vicenda contrattuale, in particolare, per la determinazione dell’oggetto dibattuto fra le parti, ma non possono risolversi in valutazioni interpretative riservate al giudice che deve procedere direttamente all’interpretazione della volontà manifestatasi nelle clausole contrattuali, in base al criterio letterale, seguito, se del caso, dagli altri come normativamente ordinati .

Dunque, deve riconoscersi che le associazioni sindacali sono in grado di svolgere una attività proficua con riferimento al momento patologico del rapporto di lavoro, perseguendo gli interessi diretti degli associati, sia nella loro individualità che sul piano della preservazione della loro caratterizzazione collettiva.

C’è poi che ritiene che l’intervento possa essere fatto anche nell’ottica deflattiva della mole del contenzioso, assegnando, ad es., un ruolo centrale in tema di risoluzione delle “controversie di massa ”.

3) “Si alza il sipario”: l’udienza di discussione.

Con gli interventi si chiude la fase “dietro le quinte” dello spettacolo.

Fino a questo momento gli “attori”, che non si sono ancora incontrati sulla scena, hanno compiuto tutti i preparativi per la coincisa rappresentazione di cui risultano essere “parti”, ed in cui avranno il loro primo e unico confronto personale.

Lo spettacolo sarà breve.

Il “primo atto” si consumerà con la presentazione e instaurazione del “dialogo” tra gli “attori”.

Nel “secondo atto”, si entra, invece, nel vivo della rappresentazione: il “dialogo” si fa più acceso ed è una fase molto “onerosa” per gli “attori”.

E’ in questo atto che il giudice, se lo ritiene necessario, può intervenire personalmente sulla scena.

In questi due atti gli “attori” reciteranno la propria parte, che non desta alcuna sorpresa nè tra gli “attori” nè tra gli “spettatori”.

E’ tutto chiaro dall’inizio. O, almeno, dovrebbe esserlo.

Le “parti” potranno precisare qualche battuta già inserita nel copione, ma non potranno inventarne nessuna ex novo.

Devono, ovviamente, intervenire personalmente; problemi di non semplice soluzione sorgono, infatti, quando non compaiono sulla scena.

Si apre, dunque, il “terzo atto” che condurrà alla conclusione dello spettacolo.

Ancora una volta la realtà processuale è somigliante a quella teatrale.

Nel rito del lavoro, infatti, l’udienza di discussione della causa, come l’unico “spettacolo” teatrale, rappresenta il fulcro, il momento centrale di tutto il processo nel quale si realizzano concretamente i principi chiovendiani dell’oralità, immediatezza e concentrazione ispiratori della riforma introdotta con la L.533/73.

E’ forse la più significativa innovazione del rito del lavoro e costituisce, nel sistema, lo strumento essenziale per la rapida decisione della causa anche in base ai risultati del contatto immediato tra le parti ed il giudice e del diretto chiarimento orale allo stesso giudice delle contrastanti tesi difensive .

Il carattere essenziale che, nel sistema del nuovo rito del lavoro, assume la accennata oralità, induce a ribadire che il giudice non può, prima dell’udienza di discussione, prendere provvedimenti diversi da quelli descritti negli artt.413 e 418 c.p.c. e in specie disporre la attività istruttoria cui fa riferimento il successivo art.421c.p.c..

“Opinare altrimenti significherebbe trasformare il processo orale, immediato e continuamente dialettico tra le parti, voluto dal legislatore, in una procedura dominata dall’autoritarismo burocratico e paternalistico del magistrato ”.

Nell’udienza di discussione disciplinata nel nuovo rito dall’art.420c.p.c., la dottrina è solita distinguere lo svolgimento di successive fasi: una fase preliminare, dedicata alla verifica della regolarità degli atti, della costituzione delle parti, dell’integrità del contraddittorio ed al tentativo di conciliazione, una fase istruttoria, ed una fase decisoria, sulla falsariga di quanto previsto per il rito ordinario: la dottrina ritiene, infatti, che alle prima due fasi si applichi il disposto dell’art.83 disp.att.c.p.c, e che pertanto l’udienza, fino al momento della discussione in senso stretto, art.128c.p.c., non sia pubblica .

Segue. Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione.

Una delle attività che caratterizza l’udienza di discussione è l’interrogatorio libero delle parti: la sua funzione va ripensata e individuata alla stregua della struttura delineata dai primi due commi dell’art.420c.p.c. e dal rilievo assegnatogli dal legislatore .

L’art.420, 1°comma sancisce l’obbligatorietà dell’interrogatorio e ne inserisce lo svolgimento all’inizio della trattazione della causa attribuendo alla mancata comparizione della parte senza giustificato motivo, effetti negativi sul piano della prova dei fatti oggetto del sindacato giurisdizionale.

Nonostante l’obbligo di esperire l’interrogatorio libero delle parti in limine litis, sovente accade che il giudice del lavoro ometta di sentire liberamente le parti nei primi momenti dell’udienza di discussione.

La questione della conseguenza di tale omissione è stata vivacemente dibattuta.

In giurisprudenza, si è consolidato l’orientamento secondo cui l’omissione dell’interrogatorio libero è del tutto irrilevante e non determina la nullità del procedimento, tutto ciò sia in considerazione della mancanza di una espressa sanzione, sia , per quanto riguarda la nullità per inidoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo, in considerazione del fatto che tale omissione “non impedisce di raggiungere lo scopo dell’accertamento della verità dei fatti, conseguibile anche attraverso altri strumenti probatori ”, “non rappresentando una prova in senso tecnico e quindi non potendo concretare un attentato al diritto della parte di provare la propria pretesa e di scegliere i mezzi di prova cui intende affidare la sorte della propria domanda e delle proprie eccezioni, ed una violazione del principio della disponibilità delle prove ”.

Tale orientamento viene criticato da chi ravvisando nell’interrogatorio libero “un momento ineliminabile del procedimento, avente la primaria funzione di fissare definitivamente il thema probandum ed il thema decidendum” sottolinea che si tratta di “un atto la cui nullità, o peggio, la cui omissione, inficia gli atti successivi del processo ”.

L’interrogatorio libero raccolto in limine litis non è, infatti, soltanto un atto probatorio ma anche un atto di impulso, necessario, dal quale dipendono gli atti successivi: “esso ha infatti lo scopo principale di permettere al giudice di ottenere chiarimenti sulla materia del contendere, onde impostare e dirigere in maniera adeguata l’istruzione della causa, esercitare i poteri istruttori officiosi attribuitigli dalla legge e realizzare un processo effettivamente improntato ai principi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione. Pertanto l’omissione dell’interrogatorio informale, (...), importa la nullità degli atti dell’istruttoria e la sentenza, che dovranno essere rinnovati in appello a norma dell’art.354, u.c.,c.p.c. ”.

Altri autori, rifiutando queste soluzioni estreme, suggeriscono di distinguere le situazioni concrete, e di applicare la sanzione della nullità solo qualora l’omesso svolgimento dell’interrogatorio libero di fatto privi le parti del loro diritto di difesa.

L’art.420 non dispone nulla circa il valore probatorio delle risposte che le parti forniscono al magistrato nel corso di tale informale colloquio.

Tutto ciò ha ingenerato non poche incertezze e perplessità, che hanno dato vita ad una vivace disputa dottrinale e ad orientamenti giurisprudenziali discordanti.

In giurisprudenza si registrano due opposti insegnamenti: in alcune decisioni, infatti, si è affermato che le risposte fornite dalle parti possono costituire unica e sufficiente fonte di prova, specialmente nelle controversie di lavoro, in cui l’interrogatorio libero è regolato come un atto istruttorio obbligatorio per il giudice di primo grado, e soprattutto quando riguardano fatti che possono essere conosciuti solamente dalle parti. Alle dichiarazioni in parola è stata attribuita un’efficacia probatoria fondante ed autonoma, ma solo nei limiti dell’insussistenza di altri elementi probatori contrari .

In altre decisioni, invece, si è sottolineato che “le dichiarazioni rese dalla parte durante il colloquio informale costituiscono per il magistrato un mero elemento sussidiario ed integrativo di convincimento, idoneo solo a corroborare o disattendere il materiale probatorio acquisito ”.

La funzione prevalente e principale è, infatti, offrire al magistrato, attraverso la collaborazione delle parti, un quadro chiaro e preciso del contrasto effettivamente esistente tra le parti stesse , onde consentirgli di dirigere il procedimento nella maniera più proficua e celere, ed esercitare i poteri istruttori ad esso riservati.

L’individuazione del thema disputandum vale anche a precisare la necessità della modifica di domande, eccezioni e conclusioni, facendo emergere i gravi motivi che la condizionano e che permettono al giudice di autorizzarla, nonchè a consentire l’esperimento di un producente tentativo di conciliazione.

Una sentenza della Cassazione, 22 aprile 1995, n.4562, ha confermato l’esclusione di quella tesi minoritaria per cui lo scopo dell’interrogatorio libero sarebbe principalmente probatorio.

Per confermare l’assunto la Corte, in ordine al significato dell’esperimento “argomenti di prova”, di cui all’art.116 ha voluto distinguere gli argomenti di prova delle vere e proprie prove, dove, come rileva la dottrina prevalente, gli argomenti di prova non sono idonei a costituire di per sè il fondamento della decisione del magistrato, potendo essi operare solo in via sussidiaria, in funzione critica ed interpretativa delle prove raccolte.

In altre parole gli argomenti di prova costituiscono una probatio inferior, non idonee a formare la convinzione del giudice .

Una volta desunti argomenti di prova dalle risposte delle parti, sembra che il magistrato possa discrezionalmente decidere di utilizzare le risposte delle parti senza che la Cassazione possa sindacarne la scelta.

Questa discrezionalità “sembra derivare dall’inequivocabile lettera dell’art.116, 2°comma, che stabilisce che il giudice può desumere argomenti di prova ”.

Un analogo potere discrezionale del magistrato è stabilito dall’art.420, 1°comma: “la mancata comparizione delle parti costituisce comportamento valutabile ai fini della decisione”. Anche in tal caso, non sussistendo un obbligo per il magistrato di tenere in considerazione l’assenza ingiustificata della parte, le relative valutazioni del giudice non sono suscettibili di sindacato di legittimità.

Al contrario, la mancata conoscenza dei fatti da parte del procuratore che rappresenta la parte in sede di interrogatorio libero “è valutabile dal giudice ai fini della decisione” (art.420, 2°comma c.p.c.). In questo caso viene meno la discrezionalità del giudice di desumere argomenti di prova dovendosi considerare sussistente l’obbligo, sanzionabile ex art.360 n.5 c.p.c., di dare conto nella motivazione del valore attribuito o meno alla ignoranza del procuratore.

Il 1° comma dell’art.420c.p.c., inoltre, fa assurgere il tentativo di conciliazione a tappa obbligatoria del rito speciale, disponendo che il giudice, dopo aver interrogato liberamente le parti, tenta la conciliazione; la sua realizzazione, però, è affidata alla diligenza del giudice e all’effettiva esperibilità dell’esperimento.

Anche nel caso di conciliazione giudiziale, per la violazione della norma non è prevista alcuna sanzione processuale .

Se la conciliazione ha riuscita, il giudice del lavoro ne redige verbale, che ha efficacia di titolo esecutivo.

In caso di esito negativo, invece, il giudice, se la causa non risulta già matura per la decisione o se non sono proposte questioni di competenza, giurisdizionali o relative ad altre pregiudizialità che possono definire il giudizio, assume in udienza gli opportuni provvedimenti ordinatori continuando il rito come se questa parentesi non si fosse mai inserita.

Segue. Ius poenitendi.

Le preclusioni inerenti alla completezza degli atti introduttivi dell’attore e del convenuto sono disposte in ragione del rapido svolgimento del processo coordinato alla più rigorosa garanzia della difesa e del contraddittorio ma non per ostacolare il funzionamento della trattazione orale della causa, in dialettico contatto tra il giudice e le parti.

A tal fine era necessario escludere un incondizionata libertà delle parti di modificare le domande e le eccezioni ma nello stesso tempo non inchiodare, in ogni caso, le parti al contenuto degli atti introduttivi, sancendone la totale immodificabilità.

La via di mezzo tra queste esigenze è stata individuata nella formulazione dell’art.420c.pc. che ha limitato lo ius poenitendi alla mera modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate subordinandola alla doppia condizione della sussistenza di gravi motivi e della preventiva autorizzazione del giudice.

Sarà, dunque, concessa quando risulti che le chieste modifiche siano il giusto ed adeguato risultato della funzionale oralità, e “non siano invece il pretesto per “tirar fuori dalla manica assi” che la furbizia difensiva abbia ritenuto utile tener nascosti negli atti introduttivi ”.

Una attenta analisi del 1°comma dell’articolo richiede innanzi tutto di precisare cosa si intende per modifica.

Nel processo del lavoro le modificazioni di domande, eccezioni e conclusioni consentite sono quelle che integrano non una mutatio, che è vietata, ma una semplice emandatio libelli.

La stessa conclusione si può applicare al rito ordinario in cui si erano presentati problemi analoghi a quelli sopra accennati.

Il rito ordinario e quello speciale non hanno, infatti, differenze teoriche rispetto alle soluzioni dottrinali e giurisprudenziali.

La particolarità è pertanto di stretto diritto positivo

La giurisprudenza, ormai costante dagli anni ‘70, sostiene che la mutatio libelli è quella che si traduce in una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, cioè quella che comporti una modificazione sostanziale degli elementi di fatto, introducendo nel processo un tema di indagine completamente nuovo, perchè basato su presupposti totalmente difformi da quelli prospettati nell’atto introduttivo, in modo da determinare uno spostamento dei termini della contestazione.

L’emendatio libelli, invece, tende attraverso nuove deduzioni, a precisare le situazioni e le circostanze già allegate nell’atto introduttivo del giudizio .

Una delle due condizioni per poter modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate è, lo abbiamo già detto, la ricorrenza di gravi motivi.

Tali motivi possono essere desunti dal comportamento delle parti e consistere in fatti idonei a giustificare il ritardo nella proposizione della domanda o dell’eccezioni nella stesura modificata ovvero dalla sostanza della nuova deduzione e dall’importanza della stessa ai fini della ricerca della verità .

Non sembra dubbia la necessità di una rigorosa valutazione dei “gravi motivi” addotti a giustificazione dalla parte: ma è del pari evidente che la formula adottata dal legislatore non sarebbe congrua se il mutamento fosse “solo un momento della effettività del contraddittorio di fronte alle novità di oggetto, o quanto meno di fatti, introdotte nel giudizio dal convenuto o da terzi interventori ” dal momento che in tal caso i gravi motivi sarebbero in re ipsa.

Per questo motivo Montesano sembra aderire alla tesi secondo la quale “il giudice del lavoro potrà autorizzare la modificazione anche in caso di impossibilità “soggettiva” di apprestare un’adeguata difesa ”.

L’autorizzazione del giudice del lavoro può anche essere implicita .

Un’ultima considerazione da fare riguarda le conseguenze dell’inosservanza della norma in questione o, addirittura, dell’introduzione nel processo di domande ed eccezioni nuove.

Nel rito speciale, a differenza di quanto avviene nel giudizio ordinario , il rispetto delle preclusioni risponde ad un’esigenza di ordine pubblico, in quanto, lungi dall’avere come unico obiettivo l’eliminazione di aggravi nella difesa delle parti, attiene alla stessa possibilità di funzionamento del processo nell’ossequio delle sue linee ispiratrici dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza.

"Le inosservanze delle preclusioni dovranno pertanto essere rilevate d’ufficio: privo di senso sarebbe ritenere il contrario in un processo in cui le mere modificazioni delle domande e delle eccezioni non hanno diritto di cittadinanza se non sono preventivamente delibate e autorizzate dal giudice ".

Segue. Attività ed inattività delle parti.

Se nello spettacolo teatrale gli attori devono salire sulla scena per recitare il “proprio” ruolo, nel processo del lavoro le parti devono comparire in udienza per svolgere le attività previste dal codice.

La regolamentazione introdotta con la legge n.533 del 1973 non fa alcun riferimento alla evenienza della mancata comparizione delle parti alla udienza di discussione; in conseguenza di ciò l’interprete è posto di fronte al problema se considerare compatibili le norme che regolano il c.d. processo ordinario di cognizione col rito del lavoro, ispirato ai canoni di oralità, concentrazione ed immediatezza, oppure ritenere inapplicabili tali norme anche in virtù del divieto di udienze di mero rinvio disposto dall’ultimo comma dell’art.420c.p.c..

La risposta a tale quesito è diversificata .

Una prima opinione espressa al riguardo dell’evidenziato problema propende per la soluzione secondo la quale, nella ipotesi di mancata comparizione delle parti, la causa dovrebbe essere ugualmente trattata con decisione “allo stato degli atti” .

E’ noto, infatti, che la sentenza 26 marzo 1982 n.1884 aveva negato l’applicazione della disciplina dell’inattività delle parti , prevista per il rito ordinario, al rito del lavoro: le Sezioni unite avevano affermato che, nonostante l’assenza delle parti all’udienza di discussione, il giudice dovesse decidere senza rinviare ad altra udienza .

Si osservò in quella occasione che la l.533/73 ha reintrodotto un sistema di preclusioni ancora più rigoroso della stessa normativa del 1940, ha accresciuto i poteri del giudice in ordine alla acquisizione e alla valutazione delle prove ed ha bandito, per scongiurare i danni che dal singolo processo si riverserebbero su tutti quelli pendenti nello stesso ufficio, i rinvii che non siano indispensabili per il rispetto del diritto di difesa .

“Ne deriva un modello processuale caratterizzato al massimo dalla concentrazione dell’attività, tanto che, (…), nella stessa udienza di discussione il giudice unico ovvero il collegio potrebbero decidere la causa. A ciò si deve aggiungere il contatto immediato che vi è istituito tra il giudice e le parti e il materiale probatorio dedotto da esse o acquisito d’ufficio.

In un processo caratterizzato da queste peculiarità funzionali e strutturali non possono trovare collocazione le norme che disciplinano l’inattività delle parti nel rito ordinario, il quale privilegiando “il privato” consente alle parti medesime di determinare il momento della decisione della controversia ”.

L’orientamento espresso dalla sentenza era stato costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, fino al punto di essere ormai considerato ius receptum .

La Sezione lavoro della Cassazione con sent. 7 marzo 1991 n.2366 abbandonando l’orientamento della sentenza n.1884 del 1982, ha affermato l’applicabilità dell’art.348c.p.c. al rito del lavoro, confermando successivamente il proprio orientamento nella recente sent. 14 aprile 1993 n.4424.

Di fronte ad un vero e proprio ius receptum la sentenza del 1991 si preoccupa di indicare i motivi che inducono ad un ripensamento e ad una rinnovata meditazione sul tema dimostrando, quindi, che non vi sono argomenti contrari per escludere l’applicabilità degli art.181 e 309c.p.c. al giudizio di primo grado nel rito del lavoro: tali norme si applicano integralmente sia in primo grado che in appello.

“Le esigenze di celerità e concentrazione sono soddisfatte dalle norme che ad esse rispondono, e dalla mancata previsione di istituti già disciplinati nel rito ordinario di norme non ispirate agli stessi principi può solo dedursi l’incompleta realizzazione del fine perseguito ”.

Con questo nuovo orientamento la giurisprudenza della Cassazione si contrasta: in meno di dieci anni, infatti, vengono pronunciate decisioni che dichiarano due principi incompatibili tra loro.

Il contrasto viene risolto dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione che con la decisione 25 maggio 1993, n.5893 stabiliscono che: “la disciplina dell’inattività delle parti dettata dal codice di procedura civile, con riguardo tanto al giudizio di primo grado che a quello di appello, si applica anche alle controversie individuali di lavoro regolate dalla l.11 agosto 1973, n.533, sia perché il relativo processo nonostante gli ampi poteri officiosi e le rigide preclusioni, è pur sempre ispirato al principio dispositivo ed è quindi strutturalmente compatibile con le disposizioni del rito ordinario in materia, sia perché non ha carattere di rinvio mero, in rapporto al divieto di cui all’art.420 ult.co., c.p.c., il differimento dell’udienza giustificato da ragioni processuali” .

Nel rito civile, infatti, la disciplina positiva degli effetti dell’inattività delle parti rappresenta un punto cruciale, nel quale s’incentrano e vanno coordinati diversi “sommi” principi: da un lato, la concentrazione delle udienze, cioè l’intento di accellerare lo svolgimento del processo, dall’altro, il potere dispositivo delle parti rispetto alla lite, il potere d’impulso riservato al giudice, la stessa integrità del contraddittorio e soprattutto il diritto di difesa che deve, comunque, essere sempre garantito.

Ancora una volta giova utilizzare una metafora “teatrale”.

Se gli “attori” non si presentano ad una delle prove dello spettacolo, il “regista” non può annullare il cast e decidere che la rappresentazione teatrale non sia più “rappresentata” . Dal momento che, però, le prove costituiscono la condicio sine qua non per lo spettacolo, assenze ripetute degli attori possono indurre ad un giusti annullamento da parte del regista che non può ritenersi impegnato per uno spettacolo “fantasma”.

Allo stesso modo, nel processo, alla “diserzione” di una sola udienza non consegue l’automatica estinzione del processo ma solo la cancellazione della causa dal ruolo che potrà essere riassunta entro l’anno.

La novella del 1990, dopo notevoli cambiamenti , ha, infatti, confermato l’omogeneità della disciplina dell’inattività delle parti nella “prima udienza”, ex art.181, ed in quelle successive, ex art.309c.p.c.: in qualunque momento del processo, la mancanza di tutte le parti all’udienza, nei gradi di merito, determinerà la cancellazione della causa dal ruolo; una volta riassunta nell’anno, l’assenza di tutte le parti comporterà di nuovo la cancellazione dal ruolo e l’estinzione immediata del processo.

L’assenza di tutte le parti, però, non esime il giudice dal controllo preventivo della regolarità della fissazione dell’udienza in cui sia avvenuta la “diserzione” delle parti.

Infatti, se l’udienza “disertata” è di prima comparizione, il giudice dovrà verificare che essa corrisponda a quella indicata dall’attore o a quella ad essa immediatamente successiva, tenuta dal giudice al quale la causa è stata affidata.



5) “II° atto”: la fase istruttoria.



Con gli applausi del pubblico vengono accolti sul palco gli “attori” pronti ad affrontare un tour de force non indifferente.

Il “II° atto” è il più movimentato ma anche il più interessante di tutto lo spettacolo: il “dialogo” si fa più che mai stimolante e gli “attori” sono pronti a “difendere” la “parte” che stanno recitando.

L’importanza dell’atto, però, non si ferma qui.

Il “regista”, infatti, oltre a dover maturare la sua “decisione” che, nel “III° atto” “leggerà” agli “attori” e agli “spettatori” come epilogo dello spettacolo, può, se lo ritiene opportuno “calcare le scene del successo”.

Reminiscenze liceali potranno sostenerlo in questa decisione.

“Numero Deus impare gaudet” scriveva, infatti, Virgilio nelle sue Egloghe, VIII, 75, perchè gli “antichi” credevano che i numeri dispari avessero speciali virtù in quanto particolarmente graditi agli Dei.

Per noi “moderni”, invece, la citazione dovrebbe suonare un pò diversa: “numero partes impare gaudet” sottolineando, così l’utilità dell’esercizio dei modesti poteri istruttori del giudice.

A questo proposito è opportuno svolgere alcune considerazioni.

Il principio dispositivo, presuppone, infatti, nella formazione del materiale probatorio, l’uguaglianza pratica delle parti in ordine alla possibilità di allegare o meno determinati fatti a sostegno delle proprie richieste, il che spesso non si verifica.

Esprimendosi ancora una volta in termini microeconomici possiamo dire che il principio dispositivo opera bene quando vi è concorrenza perfetta tra le parti all’interno del processo.

Ma così come in economia il regime di concorrenza perfetta è una mera astrazione tecnica e, chi possiede nozioni basilari sa che se non intervengono correttivi normativi il mercato si orienta verso forme più o meno marcate di oligopolio, così nell’area giusprocessualistica può affermarsi che non è vero che le parti hanno uguali e concrete possibilità di accesso al materiale di prova.

Di conseguenza se per il mercato è necessario intervenire con correttivi normativi per evitare che si orienti verso forme più o meno marcate di oligopolio, nel processo è bene che entro certi limiti il contraddittorio venga stimolato e corretto dai poteri istruttori del giudice, essendo l’onere di allegazione presupposto logico e giuridico di quello probatorio.

Fatte queste premesse possiamo inoltrarci nella trattazione delle questioni attinenti all’istruzione probatoria.

Segue. Onere di allegazione.

Il II° atto dello spettacolo, come la fase istruttoria del principio è molto “onerosa” per gli attori.

Infatti, nel rispetto del principio del contraddittorio e dell’eguaglianza delle parti la fase istruttoria del processo è costruita intorno a due manifestazioni del principio dispositivo: l’onere dell’allegazione e l’onere della prova .

Dal coordinamento dell’art.414, n.4, e dell’art.416, 2° e 3° comma, c.p.c. si può desumere che l’onere di allegare i fatti costitutivi della domanda principale o riconvenzionale incombe rispettivamente sull’attore e sul convenuto, come l’onere di allegare i fatti impeditivi o estintivi e tutte le eccezioni di merito, oltre che processuali, relative alla domanda principale dell’attore, incombe sul convenuto e, correlativamente, quello relativo alla domanda riconvenzionale incombe sull’attore, sempre che non si tratti di eccezioni rilevabili ex officio .

Va però precisato che differente è la posizione dell’attore da quella del convenuto: l’attore con la sua domanda, e quindi con l’esposizione di alcuni fatti, indica il thema decidendum e fissa i limiti alla cognizione del giudice; il convenuto, con l’eccezione, allarga si la quaestio facti, ma rimane nei limiti della domanda dell’attore.

L’iniziativa d’ufficio non può sollevare le parti da quest’onere di allegazione, essendo limitate le questioni che nel nostro ordinamento, sono rilevabili d’ufficio.

Anche se il giudice, utilizzando i suoi poteri istruttori, evidenzia l’esistenza di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo rilevabile d’ufficio, allarga si la quaestio facti , ma non determina un mutamento del bene della vita controverso che viene determinato dalle parti con le loro allegazioni.

Segue. Ammissione e assunzione dei mezzi di prova.

Una volta esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, il giudice, ove non sorgano questioni pregiudiziali e non ritenga la causa matura per la decisione procede alla valutazione di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi istruttori proposti.

La completezza degli atti introduttivi, sia sotto il profilo delle allegazioni che delle istanze istruttorie, consente al giudice del lavoro di provvedere subito al conseguente giudizio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori dalle parti ed anche, ove ciò sia possibile, alla loro immediata assunzione ; la norma prevede, inoltre, l’ammissione dei mezzi di prova che le parti non abbiano potuto proporre prima .

Tale impossibilità è da intendere nello stesso senso prospettato a proposito dalle modificazioni delle domande ed eccezioni: qualcuno ritiene che si debba lasciare un certo spazio anche a motivi soggettivi, purchè, in una rigorosa valutazione da parte del giudice, siano dimostrati e meritevoli, di giustificare la rimessione in termini .

La fase istruttoria, come del resto tutto il processo del lavoro, si ispira ai principi chiovendiani dell’oralità, immediatezza e concentrazione.

E’ proprio alla concentrazione che si è ispirato il legislatore quando ha previsto la più sollecita assunzione dei mezzi di prova ammessi.

Infatti, se è possibile e se le parti, pur non sapendo se la prova sarà ammessa, hanno condotto i testi, i mezzi saranno assunti immediatamente .

Se il provvedimento di ammissione non può essere immediatamente pronunciato, il giudice del lavoro rinvia alla successiva udienza, che deve fissare non oltre dieci giorni dalla prima concedendo alle parti, ex 6° comma, se del caso, alle parti, in concorrenza di “giusti motivi”, un termine perentorio non superiore a cinque giorni dalla prima di tale udienza per il deposito di note difensive .

Non è lecito, infatti, sacrificare in vista della concentrazione il principio del contraddittorio consentendo al giudice del lavoro di ammettere le prove in assenza delle parti, prima dell’udienza .

Anzi, proprio in attuazione del principio del contraddittorio, il 7° comma, dell’art.420 concede alla controparte di dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli nuovi ammessi in base al 5° comma.

Alla luce di quanto fin qui esposto e anticipando qualche conclusione del “futuro” di questo lavoro , si può comprendere perché “è essenziale all’equilibrio del sistema non solo che la prova disposta dal giudice sia assunta col rispetto del principio del contraddittorio, ma che la parte possa eccepire a quella disposizione la violazione del non meno fondamentale principio di parità di difesa, rilevando che i fatti da provare o le fonti della prova non emergono dalle allegazioni e deduzioni dell’altra parte, e possa altresì controdedurre proprie prove sui fatti medesimi, sia per mantenersi in posizione paritaria, anche nel (formale) impulso e svolgimento del mezzo istruttorio, sia perché la controprova può servire a contrappesare l’ingiusto, spostamento di equilibrio attuato dal giudice che, nei sensi poc’anzi chiariti, abbia supplito –con l’acquiescienza del controinteressato- o persista nel supplire – pur di fronte alla resistenza dello stesso controinteressato –alla difesa di una della parti” .

Proprio a tale necessità sistematica risponde il richiamo, nel 2° comma dell’art.421 non solo del 7° , del 5° ma anche del 6°comma dell’art.420c.p.c. che, consente all’interessato di predisporre il contrattacco argomentativo e probatorio. L’ordinanza con cui viene disposta l’ammissione deve essere emanata in udienza e non è reclamabile .

Segue. Onere della prova.

Il principio dell’onere della prova come regola di giudizio conserva inalterato il suo pieno valore nel rito speciale del lavoro : indipendentemente dalla contestazione o meno dei fatti costitutivi impeditivi, modificativi o estintivi, tutti i fatti dovranno essere provati, per cui, se al termine dell’istruzione residui incertezza, questa si risolverà in danno dell’attore se relativa a fatti costitutivi , e in danno del convenuto se relativo a fatti impeditivi, modificativi, estintivi.

Nell’istituto dell’onere della prova trovano un punto di incrocio peculiare, esigenze di tecnica processuale e di opportunità pratica. Mentre il principio della domanda involge, in certo qual modo, la valutazione ed il regime di tutela degli interessi materiali, talché il vincolo del giudice civile di non giudicare senza azione si pone come limite invalicabile all’interno del nostro ordinamento, i problemi di individuare il soggetto a cui spetta affermare i fatti rilevanti nonché acquisirne le prove in giudizio e del come acquisirle, rientrano tutti fra le questioni concernenti la struttura del processo , la sua tecnica.

Esistono anche ragioni di opportunità che contribuiscono a dettare una regola legale e generale di ripartizione dell’onere della prova finalizzata a realizzare un principio di giustizia distributiva per cui, normalmente, colui a favore del quale un fatto costituisce la base di una pretesa o eccezione, si procura la disponibilità dei mezzi necessari a dimostrarli.

Dunque, il rischio della mancata prova si pone a carico della parte che naturaliter dovrebbe avere la prova a sua disposizione.

In altri termini, esiste un interesse bilaterale alla prova, nel senso che una volta affermato il fatto, ciascuna parte ha interesse a fornire rispetto ad esso la prova: l’una ha interesse a provare la sua esistenza l’altra a provocare la sua inesistenza; in pratica, poi, avviene che le attività istruttorie sono compiute da quella parte a cui esse giovano ai fini di ottenere la decisione desiderata: la norma, dunque, di fatto si limita a registrare e generalizzare questa regola di esperienza.

“Riportata la questione dell’onere della prova alle sue radici, sgombrato il campo da posizioni assolutanti, di rispetto ieratico e di adesione supina alla formula normativa, si può tentare di ripensare la valenza della regola nello specifico del processo del lavoro, considerando anche che, giusto l’insegnamento di Carnelutti, il carattere del processo, la sua disciplina, opera e si integra con il diritto a cui si riferisce distinguendosi, su questa base, dagli altri tipi di processo ”.

Il punto è se nelle controversie di lavoro, per le ragioni che si enunceranno ad un onere di affermazione debba, funzionalmente e necessariamente corrispondere, in onere di dimostrazione, o se, al contrario, nulla osti a che un provvedimento del giudice possa sollevare la parte che abbia correttamente adempiuto il primo, dal secondo .

Si deve innanzitutto affermare che le attività istruttorie delle parti si svolgono, sostanzialmente, per un oggetto ad esse comune a cui sono egualmente interessate; contribuire realmente al giudizio significa che ambedue le parti siano effettivamente in grado di avvalorare o fatti allegati, che abbiano, cioè, una eguale possibilità di incidere sulla decisione formale, ovvero che si realizzi il contraddittorio tra le parti.

A tutto ciò si deve aggiungere che il rapporto di lavoro subordinato è caratterizzato dallo svolgimento della prestazione lavorativa in un’organizzazione del lavoro aliena e che all’origine della concreta controversia di lavoro si trova sovente l’atto di esercizio di un potere .

Dunque, l’equilibrio delle possibilità di difesa delle parti è strutturalmente alterata dalla condizione di subordinazione di una parte nei confronti dell’altra.

Tale condizione di sfavore sul piano processuale corrisponde ad una condizione di diseguaglianza in ordine alla pratica disponibilità dei fatti probatori sul terreno della realtà materiale.

Cosicché se appare falsata ab origine quella eguaglianza delle parti sul piano materiale, postulato dalla massima acquisizione di fatti probatori nel processo attraverso la loro naturale concorrenza nel contraddittorio processuale, lo stesso obiettivo può ottenersi attribuendo al giudice diretti poteri d’indagine officiosa, o, ancora più efficacemente, pensando ad un suo intervento in chiave di stimolo della situazione di concorrenza e di integrazione del contraddittorio .

Un simile adattamento della regola del giudizio trova, inoltre, un aggancio normativo di carattere internazionale: gli artt.6 e 14 della convenzione europea sui diritti dell’uomo garantiscono, infatti, il diritto ad un processo “equo” .

Una configurazione dell’onere della prova come regola di giudizio finale collegata alle concrete possibilità e posizione delle parti nel caso concreto e non desunta meccanicamente da fattispecie astratte, non trova ostacolo, nelle esigenze tecniche dello strumento processuale.

Il provvedimento inversivo nella fase istruttoria, trova la sua giustificazione normativa nei poteri istruttori officiosi previsti dall’art.421c.p.c.; esso può essere emanato in qualsiasi momento, ferma restando l’applicazione del 7° comma dell’art.420 c.p.c. a garanzia del contraddittorio formale .

Per chiudere definitivamente il discorso, è bene prevenire alcune possibili obiezioni di carattere generale.

Si potrebbe, infatti, eccepire che la regola di giudizio, come formulata, apra varchi a scelte soggettive, arbitrarie ed irrazionali dei giudici, violando, inoltre, principi cardine del nostro ordinamento costituzionale quali l’eguaglianza formale delle parti, l’imparzialità del giudice garantita da un libero ed eguale contraddittorio, ex art.24 Cost., la certezza del diritto, ex art.102, 2°comma Cost., intesa come obbligo del giudice non solo si sottostare alle leggi anche di applicarle e non di crearle, principi garantiti dall’esercizio del contraddittorio, ex art.24 Cost..

Infatti il contraddittorio, come abbiamo già rilevato, rappresenta il concretizzarsi nel processo della astratta possibilità che hanno le parti di farsi udire dal giudice mediante l’introduzione dei fatti che si ritengono rilevanti; su tale meccanismo formale il giudice può agire innestandone uno diverso che miri a creare una situazione tale da comportare, possibilmente, il raggiungimento della parità delle parti sul terreno processuale e la manifestazione, in esso, di quella verità che si sarebbe conosciuta se fosse esistita la parità sul terreno materiale, ciò mediante un provvedimento che miri a sollecitare la parte che può, ad introdurre fatti probanti che potrebbero essere esclusi da una ripartizione astrattamente logica dall’onere della prova.

In ogni caso dovrebbero rimanere ferme le garanzie di difesa espresse dal contraddittorio inteso in senso soggettivo che mirano a che il procedimento probatorio si svolga nel dialogo costante tra le parti ed il giudice, in modo tale che la parte onerata di qualsiasi iniziativa istruttoria sia posta in grado di difendersi e formulare le sue controdeduzioni.



Segue. "Omne trinum est perfectum".



Il coordinamento dei poteri d’iniziativa istruttoria del giudice del lavoro e dell’attività delle parti è un delicatissimo problema che “assomiglia al fenomeno della rifrazione, per cui un raggio di luce che vada a colpire obliquamente un prisma, si rifrange, cioè devia spezzettandosi nello spettro di radiazioni di diverso colore che lo compongono ”.

Il problema può essere visto, infatti, sotto molteplici aspetti: in relazione al momento dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, a causa delle rigida preclusioni iniziali che gravano sulle parti; in relazione ai principi ordinari della domanda e del monopolio delle parti nella allegazione dei fatti; in relazione all’applicabilità della regola finale di giudizio rappresentata dall’art.2697c.c.; in relazione all’applicabilità delle regole di assunzione delle prove del codice di procedura civile; in relazione alla garanzia del diritto di difesa delle parti.

Condizione necessaria per affrontare tutti questi aspetti è stabilire “se il processo vada inteso come una finestra, che l’attore apre sul mondo con la domanda, oppure come uno specchio, che riflette unicamente la realtà storica che le parti vi pongano davanti ”.

La prima immagine deve essere immediatamente esclusa: il giudice non può, infatti, affacciarsi dalla finestra per vedere tutto ciò che vuole. In effetti se potesse utilizzare la sua scienza privata per decidere la causa ne resterebbe seriamente compromessa la sua imparzialità nonché la portata del principio dispositivo .

Il processo va, dunque, inteso come “uno specchio, che riflette unicamente la realtà storica che le parti vi pongono davanti ”.

Data questa visione del processo, il giudice può esercitare i suoi “poteri” ex art.421c.p.c. solo in presenza di determinate condizioni.

Un primo limite va ravvisato nei fatti che le parti abbiano posto a fondamento delle domande e delle eccezioni e che da esse siano stati regolarmente allegati.

L’art.112c.p.c., infatti, vietando al giudice di pronunciarsi oltre i limiti della domanda esclude che questi possa prendere in considerazione fatti che non sono stati allegati dalle parti , quantunque ne abbia privata conoscenza, e anche se fossero per avventura provati in quella causa.

Non è concesso al giudice rilevare d’ufficio neanche uno solo degli elementi rilevanti per la fattispecie costitutiva del diritto, giacchè la decisione non risulta pronunciata su iniziativa di parte se non si collega alla domanda nella sua interezza, e la violazione di questo principio si riflette sulla validità della sentenza, che resta inficiata dal vizio di ultrapetizione .

In secondo luogo, il giudice dovrà verificare che nessuna preclusione si sia verificata nei confronti delle parti in ordine al mezzo di prova che egli intende ammettere d’ufficio. Se così non fosse, infatti, egli porrebbe la parte, vincolata al sistema di preclusione previsto dagli artt.414 e 416 c.p.c., in condizione di non poter opporre alcuna difesa, con evidente violazione del principio del contraddittorio.

Il rispetto di queste condizioni garantisce l’imparzialità del giudice, il principio del contraddittorio e il diritto di difesa, inteso come “parità delle armi” tra i due contendenti.

Questa conclusione non è stata pacifica: qualcuno ha, infatti, avanzato la preoccupazione che la parità risulta alterata qualora il giudice usi le sue “armi”, cioè i suoi poteri istruttori a favore di una sola delle parti, non consentendo all’altra di formulare prove contrarie.

A queste considerazioni la giurisprudenza e la dottrina hanno offerto visioni differenti.

Alcuni pretori hanno, infatti, replicato che il principio del contraddittorio, e quindi il diritto di ciascuna parte di interloquire sull’uso che il giudice faccia dei suoi poteri istruttori, deve armonizzarsi con la realtà sostanziale oggetto del processo e con il “bisogno di tutela giuridica” delle parti, sicchè la negazione o la compressione del contraddittorio può ben essere giustificata dall’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale .

Pertanto se il giudice, utilizza i suoi poteri istruttori non già per favorire una delle parti, ma per accertare la verità storica dei fatti e quindi per emanare una pronuncia quanto più rispondente è possibile a tale realtà storica, le parti non hanno motivo di dolersi: l’uso dei poteri istruttori d’ufficio, infatti, verrà effettuato non già per “simpatia” nei confronti di una parte, ma per accertare la verità storica dei fatti, non c’è rischio di parzialità del giudice .

Questo ragionamento seguito da alcuni pretori non è condiviso dalla dottrina che approda, invece, ad una conclusione diversa.

“La colorazione pubblicistica del rito del lavoro, l’esigenza di accertare la realtà storica dei fatti giustificano l’accentuazione dei poteri istruttori del giudice, ma non possono consentire la compressione del contraddittorio e del diritto di difesa della parte a cui danno l’acquisizione del mezzo di prova può giocare ”.

Orbene, la deroga al principio del contraddittorio, attraverso cui trova estrinsecazione il diritto di difesa, può avvenire eccezionalmente solo nell’ipotesi in cui i modi e i tempi del suo rispetto pregiudicherebbero l’effettività della tutela giurisdizionale (ovvero nei processi cautelari).

Nel processo del lavoro l’effettività della tutela giurisdizionale non risulta pregiudicata dal rispetto del principio del contraddittorio, anzi riconoscere alle parti il diritto di interloquire in ordine all’assunzione di un mezzo istruttorio d’ufficio garantisce maggiormente la rispondenza della pronuncia del giudice alla realtà dei fatti.

Del resto un minimo di contraddittorio è previsto letteralmente dal richiamo del comma 6 dell’art.420 da parte dell’art.421, per cui qualora il giudice ammetta prove d’ufficio, dovrà fissare un’altra udienza, concedendo alle parti ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni per il deposito di eventuali note difensive per confutare la rilevanza e l’ammissibilità della prova disposta e le parti potranno, a loro volta ed entro lo stesso termine, dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi .

E’ opinione comune, inoltre, che debba essere riconosciuta alle parti la facoltà di controdedurre , violandosi altrimenti il diritto di difesa della parte, con conseguente sospetto di incostituzionalità della norma dell’art.421c.p.c.”.

Con queste argomentazioni, dunque, la dottrina definisce infondate tutte le preoccupazioni che volevano l’esercizio dei poteri del giudice lesivo del diritto di difesa; il giudice, quindi, dovrà valutare il materiale probatorio acquisito alla causa per iniziativa delle parti, per verificare se vi siano lacune che indurrebbero all’applicazione dell’art.2697c.c.; in seguito, nell’ipotesi in cui abbia effettivamente riscontrato tali lacune, “dovrà”, ricorrendo anche le altre condizioni, attivarsi per colmarle.

La presenza del giudice nella fase istruttoria risulta, quindi, più che mai necessaria per poter avere un quadro completo della situazione e strano a dirsi, anche per l’effettività del contraddittorio tra le parti.

Dunque, non avevano torto i latini quando affermavano che “omne trinum est perfectum”!

Quasi ispirata a questo “detto” la Cassazione in una decisione, 15 gennaio 1998, n.310, ha parlato addirittura di “potere-dovere” del giudice di provvedere d’ufficio.

“Nel rito del lavoro, dove, per la particolare natura dei rapporti controversi il principio dispositivo va contemperato con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo, quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, non può farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova ma occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia d’ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti. Il mancato esercizio di tale potere non è direttamente denunziabile in sede di legittimità anche in assenza di espressa motivazione sul punto, ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su di un elemento probatorio offerto da una delle parti ma contrastato dall’altra parte e per sé non dotato di sicura affidabilità, senza la necessaria verifica e senza che dal contesto del provvedimento possano desumersi le ragioni che hanno indotto ad ometterla” .

Un breve cenno merita, infine, la facoltà per il giudice di superare, nell’esercizio dei suoi poteri, i limiti previsti dal c.c..

L’art.421, 2° comma c.p.c. contempla la possibilità per il giudice di disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio e dell’accesso sul luogo di lavoro, testualmente esclusi dalla norma medesima .

Per quanto concerne, poi, il significato della disposizione di cui all’art.421, 2° comma c.p.c., è opinione sostanzialmente generalizzata quella secondo la quale la norma riguarda in realtà unicamente i limiti posti alla prova per testimoni e per presunzioni, non trovando, in particolare, applicazione il disposto di cui agli artt.2721-2724c.c..

Analogamente, la S.C. ha affermato che il divieto di cui all’art.2722c.c. di ammissione di prova testimoniale relativa a patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento non opera nel rito del lavoro anche per quanto riguarda lo specifico limite stabilito dall’art.1417c.c. in tema di simulazione, salvo che tale prova attenga all’esistenza di un negozio per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam, consentendo l’art.421, 2° comma c.p.c. soltanto il superamento dei limiti stabiliti dal codice di rito per la prova testimoniale ma non quelli fissati dall’ordinamento giuridico per determinati e specifici atti in ordine alla forma, sia ad substantiam che ad probationem con la conseguente impossibilità di ammettere la prova per testi ex art.421 c.p.c. di una transazione per la quale è richiesta la forma scritta.

Restano, inoltre, invalicabili ad opera del giudice i presupposti di ammissibilità della confessione e del giuramento, secondo quanto viene comunemente affermato dalla dottrina.

Con queste considerazioni si chiude il discorso sulla fase istruttoria e nel contempo “cala il sipario” sul secondo atto dello spettacolo.

“Parti” e “attori”, ormai, esausti si riposano.



6) “Cala il sipario”.



Con l’apertura del III° ed ultimo atto , lo spettacolo volge al termine.

Gli “attori” hanno quasi terminato la recitazione; il “regista” si è occupato della parte “tecnica” e dove lo ha ritenuto necessario è intervenuto direttamente sulla scena.

Di tempo ne è trascorso relativamente poco e, se tutto è andato per il meglio, i due atti precedenti si sono susseguiti senza inutili perdite di tempo.

Gli “attori” sono, dunque, pronti a mettere in scena il III° atto dello spettacolo: ma questa volta non hanno alcun copione da recitare.

I colpi di scena che sono mancati nei due “atti” precedenti fanno qui capolino: nessun “attore”, nessuno “spettatore” sa, infatti, come si concluderà lo spettacolo.

Con una certa suspense si attende la “decisione” del regista.

E’ lui, infatti, dopo aver rivisto velocemente l’andamento dei due “atti” precedenti a dover “leggere” il tanto atteso finale.

Cala, dunque, il sipario tra “applausi e fischi”, lasciando l’incertezza se, a breve, si “rialzerà”.

Il seguito della storia non è, infatti, assicurato: sarà qualcuno che ha interesse, in presenza di certi requisiti e compiendo certe formalità, a rivolgersi ad un nuovo “regista” affinchè ne venga inscenata la seconda parte.

Avevamo lasciato l’attore ed il convenuto riposarsi dopo una “onerosa” fase istruttoria.

La loro ultima fatica è quella di concludere davanti al giudice che è soggetto attivo per eccellenza in questa terza fase dell’udienza di discussione.

“Nell’udienza -così dispone l’art.429, 1°comma- il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo”. Il 2°comma del medesima articolo tempera tuttavia il rigore di tanta immediatezza aggiungendo che “se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza ”.

Come accade nel processo penale, il giudice dà immediata lettura solo del dispositivo mentre il teso completo della sentenza verrà depositato in cancelleria nel termine ordinatorio di quindici giorni dalla pronuncia; e di tale deposito, che perfeziona la fattispecie della pubblicazione in modo irreversibile , trattandosi di atto a rilevanza esterna , il cancellerie “dà immediata comunicazione alle parti” (art.430c.p.c.) .

Il 2°comma dell’art.413, all’evidente scopo di consentire l’avvio dell’esecuzione subito dopo la pronuncia della sentenza, come previsto dal 1°comma dell’articolo in esame per “le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore”, dispone che “all’esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza”.

Su questa efficacia esecutiva, sulla quale, in quanto attribuita dalla legge, il giudice di 1° grado non influisce in alcun modo, può influire soltanto il giudice d’appello il quale, ex art.431, 3°comma, “può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno”.

La l.353/90, aggiungendo un altro comma all’articolo in questione, ha esteso il regime di esecutorietà, di cui agli artt.282 e 283c.p.c. solo alla condanna a favore del datore di lavoro .

Il meccanismo che abbiamo appena descritto è solo uno dei possibili epiloghi del rito del lavoro: è doveroso ricordare, infatti, oltre all’ipotesi della conciliazione andata a buon fine, quella di cui all’art.187, 1° comma, ossia l’ipotesi che il giudice ritenga la causa matura per la decisione senza bisogno di istruzione, o quella si cui all’art.187, 2° e 3° comma, ossia che “sorgano questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio”.

Per tutte le ipotesi previste dall’art.187 e sul presupposto che la conciliazione non sia riuscita. l’art.420, 4° comma dispone che “il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva ”. Tuttavia, anche in queste ipotesi è applicabile il 2° comma dell’art.429 che, come abbiamo già visto, consente un breve differimento dell’udienza di discussione e di cui i pretori spesso si avvalgono.

Per concludere questo breve excursus tra le pronunce del giudice in fase decisoria menzioneremo l’art.423c.p.c. che prevede la possibilità di due diverse pronunce di condanna in via provvisoria: l’una sul fondamento della “non contestazione”, e l’altra sul fondamento di un già conseguito accertamento e nei limiti di tale accertamento .

I problemi della fase decisoria sono, comunque, molti di più di quelli appena accennati.

Con al pronuncia della sentenza, tuttavia, “cala il sipario” sul processo, cioè su quel “procedimento in cui partecipano (sono abilitati a partecipare) coloro nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a svolgere effetti: in contraddittorio” effetti che saranno favorevoli per l’uno e pregiudizievoli per l’altro.

Sembra contraddittorio che la medesima citazione possa costituire ad un tempo introduzione e conclusione della stessa analisi: ma non c’è nulla di strano.

In fondo, come scrive Hermann Hesse, nel suo Siddharta: “d’ogni verità anche il contrario è vero!”.



note a piè di pagina




Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1996, VIII ed., p.82.

Così Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p.28.

Così Liebman, Manuale di diritto processuale civile, I , III ed., Milano, 1973, p.8.

Così Comoglio, Art.24, 1°-2° ca., Cost., in Comm.Cost. Branca, Rapporti civili, Artt.24-26, Bologna-Roma, 1981, p.58-59; si veda anche Trocker, processo civile e Costituzione, Milano, 1974, p.381.

Qualificando in tal senso il contraddittorio, si sviluppa l’idea che la contrapposizione dialettica fra una dualità minima di antagonisti in lite inerisca necessariamente alla struttura plurilaterale del giudizio, inteso quale actus ad minus trium personarum (Fazzalari, Processo, im Nss. D.I., XIII, Torino, 1966, pagg.1067ss., 1072-1073).

Sicuramente è un uso improprio della storica espressione con cui Smith definì la concorrenza nel sistema di libero mercato; quello che con questa allusione ho voluto mettere in evidenza è semplicemente il fatto che entrambe sono regole operative tra le parti, non dimenticando, ovviamente, che, mentre la vera “mano invisibile” è una scelta del mercato, la nostra è una scelta del legislatore, un principio costituzionalmente garantito, un “diritto al contraddittorio”.

La nozione, in tal caso, è fedele alla sua derivazione logico-filosofica: si veda, infatti, Calogero, Contraddizione, in Enc.it., XI, Roma, 1931, rist.1949, p.246 a-b; Calogero Contraddittorio, in L.U.I., V, Roma, 1970, p.380.

Si veda Denti, Valori costituzionali e cultura processuale, Riv.Dir.Proc., 1984, pagg.444-448; e Taruffo, La giustizia civile in Italia dal’700 a oggi, Bologna, 1980. pagg.310-318.

Sono parole di Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, Riv.Dir.Proc, 1975, p.585.

Spunti nel primo senso. ad es., in C.cost., 22 giugno 1963, n.108, in Foro it., 1963, I, 1526 ; C.cost., 22 dicembre 1980, n.184, Foro it., 1981, I, 323; nel secondo, invece, sembrano orientarsi C.cost., 27 marzo 1962, n.29, Foro it., 1962, I, 603-604 e 14 novembre 1979, n.127, Foro it., 1979, I, 624; ancora, C.cost., 8 giugno 1983, n.149 e 20 ottobre 1983, n.320 Foro it., 1983, I, 2083-2088, 2920-2922.

Entrambi i punti di vista, a ben riflettere, sono legittimi, giacchè, considerando la statuizione costituzionale a sè stante oppure privilegiandone la correlazione logica con le altre garanzie mirano a descrivere aspetti complementari di un’identica realtà, al fondo della quale si coglie l’esigenza costante di assicurare alle parti la “possibilità di agire” o “di tutelare in giudizio le proprie ragioni” nelle forme tecnicamente più idonee.

E’ quanto si riscontra sul piano comparativo, tanto per indicare gli esempi più noti, nell’evoluzione giurisprudenziale della due process clause, sancita dagli Emendamenti V e XIV della Costituzione federale nordamericana, ove esperienze plurisecolari hanno via via condensato in formule sempre più raffinate l’effettività del diritto alla difesa, l’eguaglianza sostanziale delle parti, o la concretezza dell’opportunity to be heard, entro i confini di un “giusto processo” (per adeguati richiami , Watson e Smit, Fundamental Guarantees of the Parties in Civil Litigation, Cappelletti e Tallon Editors, Milano-New York, 1973, p.223ss., 449ss.). Ma è quanto si verifica pure con l’art.103, 1°co., del Grundgesetz tedesco-occidentale, per il quale gli sforzi ermeneutici si sono da tempo concentrati sull’analisi delle condizioni soggettive di esercizio del diritto al rechtliche Gehor, nell’intento di chiarire in che misura l’esigenza minima di partecipazione alla dialettica del processo possa dirsi efficacemente soddisfatta dall’attribuzione di poteri assertivi o difensivi, capaci di influire sulla formazione della decisione giudiziale ( Baur, Der Anspruchauf rechtliches Gehor, in AcP, 1954. p.393ss.; Grunsky, Grundlagen des Verfahrensrechts, II ed., Bielfeld, 1974, p.393ss., 401-403, 408ss.; Rosenberg-Schwab, Zivilprozessrecht, XII ed., Munchen, 1977, pagg.393-396, in partic.394-395.

E’ una realtà che si concreta nell’esigenza di garantire l’eguaglianza delle parti nel processo.

C.Cost., 14 gennaio 1977, n.13, in Foro it., 1977, I, p.1629-1630; degli artt.415-416 c.p.c. C.Cost., 22 aprile 1980, nn.61, 62, 65, in Foro it., 1980, I, p.1241-1246; sull’art.419, C.Cost., 29 giugno 1983, n.193, in Foro it., 1983, I, 2068-2072.

E’ una espressione utilizzata da Comoglio in Contraddittorio (principio del), Enc.Treccani,p.8.

Così Comoglio, Contraddittorio (principio del), Enc.Treccani, p.8.

E’ un risvolto del rafforzamento del ruolo attivo del giudice che postula, quale indispensabile contraltare, una maggiore possibilità di controllo, riconosciuta alle parti sull’attività da lui svolta in adempimento dei suoi doveri.

E’ un chiaro riferimento al processo del lavoro.

Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimento speciali, Riv.Dir.Proc., 1975, p.613.

Colesanti, Principio del contraddittorio nei processi speciali, Riv.Dir. Proc., 1975, p.614.

Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, p.145.

Così Tesoriere, L’uguaglianza delle parti nel nuovo processo del lavoro, Studi Satta, p.1773.

Ad es. Romagnoli, Autorità e democrazia in azienda, in lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, 1974, p.109.

A dubitare sono i sostenitori dell’indirizzo dottrinario di Satta secondo cui il processo del lavoro non attua una funzione assistenziale.

Per la differenza in dottrina si veda la fine di questo stesso paragrafo.

Ci riferiamo alle qualifiche di attore, convenuto; ricorrente, resistente; interveniente, appellante ecc..

Diversamente non si spiegherebbe l’interscambiabilità dei ruoli senza comportare alcuna alterazione sul piano processuale.

Si deve notare, infatti, come anche la legge 533 del ‘73 non parli di lavoratore e di datore di lavoro, ma di ricorrente e di convenuto; è, dunque, del tutto irrilevante che statisticamente il ricorrente sia quasi sempre il lavoratore.

Il fatto che, statisticamente, ricorrente sia quasi sempre il lavoratore, è del tutto irrilevante, perchè ciò non impedisce che ad assumere tale veste possa essere anche il datore di lavoro.

La dottrina distingue tra: contraddittorio formale (presenza di entrambe le parti nel processo); contraddittorio sostanziale o materiale (sempre sul versante del processo: pari facoltà delle parti di esercitare il contraddittorio, cioè di difendersi); e, ancora, un contraddittorio anch’esso sostanziale o materiale (ma questa volta fuori dalla prospettiva del processo) come effettiva parità delle parti anche di carattere sociale ed economico, nel senso precisato da Calamandrei.

Così Tesoriere, L’uguaglianza della parti nel nuovo processo del lavoro, Studi Satta.

Il nuovo rito costituirebbe una tutela giurisdizionale differenziata, non neutrale, sensibile alla posizione e all’interesse del lavoratore; una tutela che volutamente discrimina un soggetto, in favore di un altro; così Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it., 1973, V, p.207, ripubblicato in Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, p.65ss..

Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1996, VIII ed., p.86.

Si veda Fazzalari, Processo (teoria generale) in “Nov.Dig.It.”, XIII, Torino, 1966, p.1072.

E’ noto come l’atto iniziale non sia una citazione, da notificarsi prima al convenuto e poi da iscriversi al ruolo, ma sia un ricorso che prima si deposita nella cancelleria del giudice e poi si notifica, in uno al decreto di fissazione dell’udienza di comparizione.

Cass. 18 ottobre 1977, n.4457, Foro it., Rep.1978, voce Previdenza sociale, n.468; 11 febbraio 1978, n.634, Foro it., Rep.1978, voce Lavoro e previdenza (controversie), n.139; 29 marzo 1979, n.1824, Foro it., Rep.1979, voce Provvedimenti d’urgenza, n.53; 14 ottobre 1983, n.6012, Foro it., Rep.1983, voce lavoro e previdenza (controversie), n.224; 22 ottobre 1985, n.5189, Foro it., Rep.1985, voce Competenza civile, n.110).

Cass.10 marzo 1990 n.1945.

Nella specie i soggetti sono l’attore ed il giudice. Bisogna però considerare che se questo bastasse per rendere pendente un processo, farebbe al contempo venire meno il fondamento della definizione fin ora fornita e la stessa struttura dialettica del contraddittorio come “partecipazione dei destinatari degli effetti dell’atto finale alla fase preparatoria del medesimo; nella simmetrica parità delle loro posizioni; nella mutua implicazione delle loro attività (volte, rispettivamente, a promuovere ed a impedire l’emanazione del provvedimento); nella rilevanza delle medesime per l’autore del provvedimento: in modo che ciscun contraddittore possa esercitare un insieme di scelte, di reazioni, di controlli, e debba subire i controlli e le reazioni degli altri, e che l’autore dell’atto debba tener conto dei risultati”, Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, VIII ed., Padova, 1996, p.83.

Monteleone, Litispendenza nelle controversie di lavoro: una svista della corte di cassazione, Riv.Dir.Proc., 1993,2, p.579.

Non essendoci una norma ad hoc ricavabile dagli artt.409ss., l’art.39 deve considerarsi come disposizione generale applicabile alla fattispecie in forza dell’art.12 delle Preleggi: “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”. Pur ammettendo che l’art.39, 3° comma c.p.c. non sia applicabile al caso non esiste nel c.p.c. una norma, o un principio, che esplicitamente o implicitamente stabilisce che nei processi introdotti con ricorso la pendenza inizi col deposito.

Monteleone, Litispendenza nelle controversie di lavoro: una svista della corte di cassazione, Riv.Dir.Proc., 1993, 2 , p.582.

La prima attinente “al momento iniziale del processo” e la seconda “alla statuizione della causa”.

Monteleone, Litispendenza nelle controversie di lavoro: una svista della corte di cassazione, Riv.Dir.Proc., 1993, 2, p.585.

Questa concezione nell’originaria ideologia del c.p.c. vigente è caratterizzata da una esorbitante accrescimento dei poteri dell’organo pubblico a scapito delle parti.

Così Monteleone, Litispendenza nelle controversie di lavoro: una svista della corte dio cassazione, Riv.Dir.Proc., 1993,2.

E’ una frase riportata da Perone nel suo testo, Il nuovo processo del lavoro, Padova, 1975,p.116.

Si tratta non solo del petitum mediato, bensì di quello immediato: cioè occorre indicare non solo il bene preteso, ma anche il contenuto del provvedimento richiesto, in armonia con il principio di attiva collaborazione delle parti e di pronta e completa trasparenza delle reciproche posizioni processuali.

Si vuole, infatti, evitare che l’attore abbia una posizione di ingiustificato privilegio rispetto al convenuto che, nella memoria difensiva ex art.416 c.p.c., deve proporre e svolgere tutte le proprie difese, comprese la domanda riconvenzionale e le eccezioni non rilevabili d’ufficio.

La causa petendi è descritta in termini analoghi a quelli impiegati dall’art.163 c.p.c., n.4; “ma il sistema nel suo complesso lascia intendere che, oltre ad individuare la causa petendi sufficiente a delimitare l’oggetto del futuro giudicato, occorre interamente svolgere tutte le difese in fatto, mentre per gli “elementi di diritto”- vigendo la regola jura novit curia (art.113 c.p.c.)- basteranno quelli identificativi della causa petendi nel senso accennato poc’anzi”, così Montesano-Vaccarella Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, p.106ss..

Parte essenziale della domanda non è solo la nuda allegazione dei fatti, ma pure l’enunciazione delle loro fonti di prova, cioè degli strumenti che danno, dei fatti medesimi, rappresentazione o argomento. La mancanza di un espresso riferimento alla decadenza della prova dell’attore, a differenza di quanto espressamente prevede l’art.416, 3°comma c.p.c., per il convenuto, non giustificava i dubbi di costituzionalità inizialmente prospettati da alcuni autori; dubbi dichiarati infondati dalla Corte Costituzionale, (14 gennaio 1977 n.13 in Foro It., 1977, I, p.257) osservando che l’attore non è privilegiato rispetto al convenuto, dal momento che anche per lui vale la preclusione desumibile da un combinato disposto della norma in esame con l’art 420,5°comma c.p.c..

Di conseguenza, se nel rito ordinario le due attività di c.d. vocatio in jus della controparte e di c.d. edictio actionis sono contenute nell’atto di citazione, nel rito del lavoro l’instaurazione del contraddittorio è invece attività estranea e successiva all’atto di ricorso, che contiene la sola identificazione della domanda.

Il termine viene elevato a ottanta giorni nel caso di notificazione all’estero ex 6°comma.

Una parte della dottrina ritiene che il termine massimo intercorrente tra la data di deposito del ricorso e l’udienza di discussione è perentorio, dato che la sua violazione non si limiterebbe a ritardare l’esito della controversia, ma provocherebbe la mancata instaurazione del processo, con gravissima limitazione del diritto di azione giurisdizionale. L’art.24 della Costituzione non tollererebbe che la norma in esame lasciasse al giudice il potere di evitare l’instaurazione del contraddittorio a suo piacimento, soprattutto considerando che l’instaurazione del contraddittorio corrisponde a quella del processo.

E’ bene precisare che la mancata identificazione del diritto dedotto in giudizio assume un particolare rilievo, in quanto impedisce al giudice di giungere a giudicare nel merito della controversia, la scorretta instaurazione del contraddittorio, invece, impedisce una tempestiva difesa del convenuto ma non pregiudica la valida deduzione in giudizio del diritto controverso.

Requisiti di cui ai nn 3-4 dell’art.414 c.p.c..

“Quanto qui evidenziato testimonia che la giurisprudenza prevalente si è orientata nel senso di pretendere un rigore formale notevole del ricorso introduttivo, e ciò è motivato dall’esigenza di rispettare quel diritto di difesa costituzionalmente sancito dall’art.24, in virtù del quale il convenuto deve essere posto in grado di prendere una precisa e non generica posizione difensiva, al Giudice si deve consentire di affrontare preparato l’udienza di discussione ed alle parti di parteciparvi altrettanto preparate”, D’Andrea, Sulla nullità del ricorso introduttivo, nelle controversie di lavoro, per mancanza dei requisiti richiesti dall’art.414 c.p.c.., Giur.Lav.lazio, 1995, p.483.

E’ soltanto uno dei tre orientamenti seguiti dalla giurisprudenza.

Un altro indirizzo ritiene applicabile l’art.164c.p.c. considerando il vizio sanabile con efficacia ex nunc, cioè con salvezza dei diritto quesiti.

Il terzo orientamento reputa, invece, inapplicabile l’art.164c.p.c., nega che la violazione dei termini a comparire possa essere considerata una nullità della notificazione e reputa che essa costituisca piuttosto un difetto relativo all’onere di vocatio in jus della controparte, disciplinato dalla normativa generale in tema di nullità, ed in particolare dall’art.162 c.p.c..

Appare isolata Jaccheri, Nullità del ricorso per inosservanza del termine a comparire nel processo del lavoro, in Giust. civ., 1992, I, 2091 e segg., la quale ritiene de iure condito corretta la soluzione adottata dalle Sez.Un..

E’, comunque, possibile anche una costituzione tardiva dal contumace.

Si veda in dottrina: Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, p.146; in giurisprudenza, Cass. 13-5-89 n.2213, Giustizia civ.Mass., 1989, p.559; Cass.30-10-84 n.5555, Giustizia civ.Mass., 1984, p.1804; sulla ritualità del deposito di una memoria aggiuntiva alla comparsa di costituzione, purchè avvenga nel rispetto dei termini dell’art.416, 1°comma, c.p.c.: Cass.15-1-90, Giustizia civ.mass., 1990, p.30.

Dopo aver enunciato, nel 1°comma che “il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito”, prosegue, nel 2°comma, disponendo che “la costituzione del convenuto si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”. Infine, nel terzo comma, si precisa che “nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della sua domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare”.

Sono parole di Petaccia, Tipicità della costituzione del convenuto nel rito del lavoro, Giur.Lav.Lazio, 1994, p.774.

Cass., 24 giugno 1997, n.5629. In tal senso Cass., 15 gennaio 1990, n.1116, in Mass.Giur.lav., 1190, p.287, secondo cui la parte resistente, nel termine di cui all’art.416c.p.c., ben può depositare una memoria aggiunta alla comparsa di costituzione. Contra Cass., 6 luglio 1982, n.4012, in Giust.Civ., 1982,I, p.2568, secondo cui la memoria di costituzione del convenuto non può essere frazionata in una pluralità di scritto difensivi, ancorchè depositati nel termine suddetto.

La relazione illustrativa del codice di procedura civile del 1942 (n.24) rilevava che “tra i più abusati espedienti di quella malafede che il nuovo codice si propone di sradicare dai processi, è stata sempre deplorata la tattica furbesca di certi litiganti che i loro migliori argomenti defensionali tengono in serbo fino all’ultimo momento, per farli valere soltanto quando essi credono che l’avversario non sia più in grado di contrapporvi una replica esauriente. Siffatte arti sono contrarie ai fini della giustizia sotto un doppio punto di vista: prima di tutto perchè con esse il litigante più scaltro cerca di turbare a suo vantaggio quella uguaglianza delle parti, che trova la suia miglior garanzia nel contraddittorio; in secondo luogo perchè il normale corso del processo è ritardato oltre misura da queste schermaglie dilatorie che spostano il centro di gravità del processo dalla fase iniziale alla fase finale, e che spesso fanno apparire il giudizio di primo grado come un preannuncio appena abbozzato delle vere difese riservate al grado di appello”.

Relazione al cod.proc.civ., n.24. Per realizzare questi principi l’art.416c.p.c. ha delineato una memoria di costituzione che sia “specchio integrale della posizione del convenuto e degli strumenti istruttori e documentali di cui intende avvalersi”, Relazione Lospinoso Severini, esposta alle commissioni riunite giustizia e lavoro dela Camera il 31 marzo 1971.

L’oggetto della cognizione del giudice nel processo è costituito dalla domanda dell’attore. E’ l’attore che con la domanda determina la materia del contendere. Il processo però è tale poichè deve svolgersi in contraddittorio, ed il convenuto nelle sue “difese” può ampliare la materia del contendere attraverso due fondamentali strumenti: l’eccezione e la domanda riconvenzionale.

La domanda riconvenzionale è l’azione che il convenuto in giudizio può proporre contro l’attore, affinchè essa sia trattata in concomitanza con quella porposta dall’attore.

La proposizione della domanda riconvenzionale provoca la ripetizione del subprocedimento inteso alla vocatio in jus, già percorso a seguito del deposito del ricorso, con la differenza che, in tal caso, esso è diretto nei confronti di un attore già costituito, che la notificazione della memoria e del decreto deve effettuarsi a cura dell’ufficio e che alcuni dei termini sono più brevi. E’, comunque, necessario porre l’attore in condizione di predisporre a sua volta le proprie difese prima dell’udienza che deve perciò essere nuovamente fissata nel rispetto dei termini di cui all’art.418c.p.c..

L’attore convenuto in via riconvenzionale può a sua volta formulare nei confronti del convenuto una domanda riconvenzionale. Si prospetta, ad es., l’ipotesi del lavoratore che chieda la condanna del datore di lavoro al pagamento di indennità per il lavoro svolto ed il convenuto in riconvenzionale chieda la condanna del lavoratore al risarcimento del danno da questi cagionato agli impianti, e che il ricorrente lavoratore in riconventio riconventionis chieda il ristoro dei danni da lui riportati nella manovra degli impianti, inidonei per violazione delle norme sulla sicurezza del luogo di lavoro.

Nel caso di riconventio riconventionis dovranno trovare applicazione analogica tutte le disposizioni contenute nell’art.418c.p.c. relative alla notificazione della domanda sempre per garantire il diritto di difesa.

Gli aspetti problematici di questo argomento sono innumerevoli. In questa sede abbiamo messo in evidenza solo quelli che hanno implicazioni con la più ampia problematica che stiamo affrontando.

Non sembra che questo dettato abbia, nella sua genericità, una portata veramente preclusiva, giacchè rispetto alle difese in diritto opera la regola jura novit Curia, mentre rispetto alle difese in fatto ogni concreto oggetto di preclusione è esaurito dalle regole concernenti, da un lato, le eccezioni e i mezzi di prova e, dall’altro lato, le allegazioni.

Poichè la legge non configura alcuna specifica decadenza per l’eventuale mancata osservanza di questo onere, si deve ritenere che la sola conseguenza di tale inosservanza stia nella possibilità per il giudice di tenerne conto come comportamento valutabile ai fini della decisione.

Tutto ciò in analogia con il disposto dell’art.420 e comunque in applicazione della regola generale di cui all’art.116, 2°comma. Si veda Cass.2 giugno 1994, n.5359; Cass, 19 agosto 1994 n.7447.

Secondo la Cass.3 marzo 1995 n.2415, la mancata contestazione di una circostanza, a fronte di questo onere, vale a renderla “pacifica”.

Relazione Lospinoso Severini alle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro della Camera, seduta del 31 marzo 1971 (V Legislatura).

La decadenza in argomento, peraltro, non impedisce al convenuto la deduzione, in qualunque momento, di mere difese dirette a contestare l’esistenza e la portata del fatto costitutivo della pretesa dedotta in giudizio dall’attore, posto che anche nel rito del lavoro non è in discussione il principio dell’onere della prova così come ripartito tra attore e convenuto dall’art.2697cc., sicchè spetta all’istante fornire la priva dei fatti costitutivi della propria pretesa ed in relazione a tale onere, incombente a carico del medesimo, non è, ne può essere inibita al convenuto la facoltà di contrattare, con idonee argomentazioni in fatto e in diritto, quanto l’attore allega ed intende dimostrare a conforto della domanda.

In questa situazione il convenuto può anche sollevare eccezioni rilevabili d’ ufficio, partecipare alla discussione orale della causa ed indicare al giudice l’associazione sindacale cui si richiede informazioni e osservazioni ex art.421, 2°comma c.p.c..

Si veda Cass.10-12-1993, n.12196 in Mass., 1993: Cass.12-8-1993, n.8662, in Mass., 1993; Cass.4-2-1993, n.1378, in Inform.prev., 1993, p.223; Cass.22-2-1992. n.22009 in Inform.prev., 1192 fasc.9, p.936;Cass.7-2-1192, n.1335, Mass., 1992; Cass.1-10-1991, n.10206 Mass., 1991; Cass. 13-6-1991, n.6655, in Mass.1991. In dottrina Piccinini, La tutela di primo grado, in Tutela dei diritti nel processo del lavoro, a cura di Dell’Olio, Torino, 1994, p.47.

Art.59 Disp.Att..

In caso di mancata costituzione del convenuto il giudice del lavoro nella prima udienza di discussione dovrà: a) rilevare d’ufficio l’eventuale nullità del ricorso, ed in caso positivo disporne la rinnovazione sulla base del combinato disposto dagli artt.162 e 421, 1°comma c.p.c.; b) rilevare d’ufficio l’eventuale nullità della notificazione del ricorso ed in caso positivo fissare all’attore un termine perentorio per rinnovarla sulla base dell’art.291, 1°comma c.p.c.; se l’ordine di rinnovazione della notifica del ricorso non è eseguito, si applicherà il 3°comma dell’art., 291, secondo cui in tale caso “il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell’art.307 3°comma”; c) se la verifica della validità del ricorso e della sua notifica si risolve in senso positivo, il giudice del lavoro dichiara la contumacia del convenuto.

Quanto al termine della costituzione tardiva, non essendo oggettivamente applicabile alla lettera l’art.293c.p.c., è da ritenere che il convenuto contumace possa costituirsi fino all’esaurimento della discussione orale prevista dal 1°comma dell’art.429 c.p.c.. Quanto alle modalità della costituzione, invece, il 2°comma dell’art.293 c.p.c. è pienamente compatibile con il processo del lavoro.

Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, VIII ed., Padova, 1996, p.305.

Ricordiamo che proprio in virtù della partecipazione di coloro che stanno per divenire destinatari dell’efficacia del provvedimento, cioè dei “contraddittorio”, il procedimento è processo.

Così Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, VIII ed., Padova, 1996, p.320.

E’ l’ipotesi di chiamata in garanzia.

Esempi di tale figura nel processo del lavoro possono essere ravvisati nell’intervento spiegato dal parente entro il terzo grado vivente a carico del prestatore di lavoro defunto nel giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro da altro parente non legittimato a mente dell’art.2122 c.c., e nell’inserimento, nella causa promossa da un agente nei confronti del preponente per il pagamento delle provvigioni riguardanti determinati affari, spiegato da altro agente, che reclami a sè la conclusione dei medesimi affari.

E’ una espressione di Andrioli che si ritrova in molte sue opere.

Esempi sono l’intervento dell’alienante dell’azienda nella lite iniziata da un prestatore di lavoro nei confronti dell’acquirente ed avente per oggetto retribuzioni maturatesi prima del trasferimento dell’azienda stessa; l’intervento dell’appaltatore nelle cause promosse dai suoi dipendenti nei confronti del committente a norma dell’art.1676 c.c.; quello del locatore di una macchina ad un imprenditore nel giudizio di risarcimento promosso da questi nei confronti del lavoratore responsabile per negligenza della sua manomissione; l’intervento di un lavoratore licenziato nel processo instaurato da altro collega licenziato per ottenere la declaratori di illegittimità del licenziamento collettivo.

Cass., 23 maggio 1972, n.1602, Giust.Civ., Rep.1972, n.41.

Esempi ne sono l’intervento del lavoratore, cui spetti una partecipazione agli utili, nella causa di impugnazione del bilancio per falsità promossa da un socio dell’impresa sociale, e, nel rito speciale, l’intervento del socio nel giudizio vertente tra la società di persone ed il prestatore di lavoro; l’intervento del lavoratore nella causa di impugnativa del licenziamento promossa da altro lavoratore licenziato con il manifesto scopo di far diminuire il numero dei dipendenti impiegati nell’impresa al di sotto dell’entità minima prevista dall’art.35 dalla legge 300/70.

Si tratta delle ipotesi di intervento principale e intervento adesivo autonomo o litisconsortile.

Il riferimento è all’intervento adesivo dipendente.

Così Pretura Napoli, 17 aprile 1978, in Foro it., 1979, I, p.283.

Alcuni pretori si erano orientati in tal senso, per cui “il terzo che interveniente nel processo del lavoro in via principale, o in via adesiva litisconsortile, oltre a depositare in cancelleria la memoria di intervento almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata per la discussione, deve, a norma dell’art.418 c.p.c., chiedere al giudice la fissazione di una nuova udienza e notificare il relativo decreto alle parti originariamente costituite” (Pretura Roma 3 gennaio 1975, in Foro it., 1975, I, 1271), mentre nel caso di intervento adesivo dipendente, l’intervento ad adiuvandum è correttamente instaurato con il deposito in cancelleria della memoria nel termine di legge, in quanto esso si limita ad aderire alle domande di una delle parti, senza introdurre nel processo una domanda nuova che ampli l’oggetto del giudizio, e, pertanto, non necessita di notifica alle parti originarie e non comporta lo spostamento dell’udienza di discussione (Pret.Roma 28 gennaio 1978, in Riv.Giur.lav., 1979, II, 236).

Intervento coatto su istanza di parte ex art.106c.p.c..

Intervento per ordine del giudice ex art.107c.p.c..

Litisconsorzio necessario ex art.102c.p.c..

Si verifica, ad es., in relazione a fattispecie concorsuali o paraconcorsuali con pluralità di partecipanti o aspiranti quando oltre che l’annullamento del provvedimento impugnato sia chiesto l’accertamento del diritto del ricorrente ad occupare, per esempio, in concreto una determinata posizione con la consequenziale esclusione di ogni altro partecipante.

In questo caso, il Trib. Firenze, 26 luglio 1984 ha stabilito che, nel caso di vertenza sulla legittimità di un trasferimento operato a favore di alcuni dipendenti a preferenza di altri aspiranti, il contraddittorio deve essere necessariamente integrato con tutti gli interessati, pretermessi e favoriti, al provvedimento.

Così Tarzia, Manuale del processo del lavoro, III ed., Milano, 1987, p.85.

L’omissione di tali adempimenti determina la nullità della sentenza, la quale, se rilevata in Cassazione, comporta il rinvio al primo giudice: così Cass.28 gennaio 1987 n.828.

Il diritto di difesa è, infatti, assicurato in modo pieno anche con riferimento a quelle ipotesi in cui tramite la chiamata in causa ex artt.106 o 107 non si proponga alcuna domanda nei confronti del terzo, ma questi sia chiamato unicamente a partecipare ad un processo avente ad oggetto un rapporto giuridico pregiudiziale rispetto a quello di cui egli è titolare.

“In linea di principio affinchè i nuovi confini, soggettivi ed oggettivi, della causa siano determinati con il minor danno possibile per la concentrazione e speditezza del procedimento; ma è ovvio che, ove la non integrità del contraddittorio emerga successivamente, il giudice dovrà disporre l’integrazione in qualsiasi momento per evitare di emanare una decisione nulla, ed eventualmente riaprendo l’istruzione”, così Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, III ed., Napoli, 1996, p.176.

E’ il caso, ad esempio, dell’imprenditore che faccia valere nei confronti del dipendente la violazione del dovere di diligenza nella manovra di alcuni impianti per ottenere il risarcimento dei danni, e del convenuto che deduca doversi imputare ad altro soggetto l’omissione o l’errata manovra che ha danneggiato la macchina; ovvero il caso del convenuto, che in via riconvenzionale deduca la pericolosità della macchina e la sua inidoneità ai sensi dell’art.2087c.c. pretendendo il risarcimento dei danni, che a sua volta gliene sono derivati, e dell’attore, che chieda di chiamare in causa la ditta costruttrice della macchina.

Per una consolidata giurisprudenza “la causa di garanzia, che si inserisca nella controversia di lavoro per effetto della chiamata in giudizio di un terzo ai sensi dell’art.420, 9° comma c.p.c., è attratta nella competenza funzionale del giudice del lavoro in caso di garanzia propria, mentre in caso di garanzia impropria, cioè fondata su un titolo autonomo, e sempre che questo non sia riconducibile fra quelli contemplati dagli artt.409 e 442 c.p.c., rimane soggetta alle comuni norme sulla competenza, per valore e per territorio, ferma restando, per deducibilità e rilevabilità dell’eventuale incompetenza di detto giudice, l’applicabilità delle regole di cui all’art.38 c.p.c." (Cass. Sez.Un. 8 novembre 1989, n.4692; Cass. 20 novembre 1987, n.857; Cass.26 gennaio 1984, n.620; Cass.11 ottobre 1983, n.5898; cass. 6 febbraio 1985, n.895).

Come è noto, infatti, “ricorre l’ipotesi di garanzia impropria quando il convenuto tende a riversare le conseguenze del proprio inadempimento, o comunque della lite in cui trovasi impegnato, su di un terzo, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale”, mentre la garanzia propria “sussiste quando la domanda principale e la domanda di garanzia abbiano in comune lo stesso titolo, o quando si verifichi una connessione obiettiva tra i titoli delle due domande, ovvero quando sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con l’azione principale e con quella di regresso” Cass. 9 dicembre 1988, n.6678.

Così Ventura, Una novità crescente del processo del lavoro: il litisconsorzio necessario, Riv.Giur.Lav., 1990, II, p.467.

Cass., Sez.Unit., 2 novembre 1979, n.5688.

Quindi, un problema processuale in cui litisconsorte è un altro lavoratore collega del ricorrente, è in linea di massima correlato all’apposizione di limiti al potere datoriale, ed in particolare di limiti volti alla “procedimentalizzazione” dell’esercizio di tale potere, sia che entrino in gioco diritto perfetti che aspettative giuridicamente tutelate.

Così Ventura, Una novità crescente del processo del lavoro: il litisconsorzio necessario, in Riv.Giur.Lav., 1990, II, p.471. Lo stesso, nella medesima sede continua affermando che a conferma di tutto ciò si deve ricordare che “per avere una sentenza che deve essere pronunciata “in confronto di più parti”, il rapporto fra queste deve essere diretto. Pertanto non si può condividere la tesi dell’estensione del ricorso all’integrazione del contraddittorio ogniqualvolta, anche in via mediata, a seguito di una sentenza possa sorgere l’interesse dell’imprenditore ad un comportamento speculare e contrario a quello impostogli dalla sentenza stessa. Questo potrebbe essere il caso dell’esecuzione in forma specifica”.

E’ una norma la cui applicabilità, in genere, è stata negata sia per la sua implicita abrogazione a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo, sia per la mancanza di associazioni sindacali legalmente riconosciute

Per una esposizione succinta delle tre opinioni rinviamo a Carrato, Le forme di intervento delle associazioni sindacali nel processo del lavoro, Giur.Merito, 1995, p.849.

La trattazione congiunta di questi due tipi di controversia è dovuta all’omogeneità di situazioni procedimentali e all’affinità degli interessi dedotti in giudizio.

Accade soprattutto in tema di concretazione di una condotta antisindacale da parte del datore di lavoro, la quale situazione viene a determinare una comunanza, quantomeno parziale, di causa petendi in relazione al comportamento anzidetto, tra la domanda del singolo lavoratore e l’intervento del sindacato, poggiante su un analogo petitum, semprechè, ovviamente, esso investa e comporti una violazione della libertà e delle attività sindacali.

Rimane, comunque, salvaguardata la possibilità di un coinvolgimento del sindacato in tal caso, facendo ricorso ad un altro canale processuale, rappresentato dall’acquisizione delle informazioni e delle osservazioni richiamate nell’art.425c.p.c..

Sono le c.d. azioni di massa o di serie.

Proto Pisani, AA.VV, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, pagg.615-616.

Infatti tra le due domande, quella originaria e quella del sindacato sussiste solo una forma di connessione impropria, in quanto entrambe dipendono dalla risoluzione di identiche questioni; ma non è rinvenibile alcuna connessione nè per petitum nè per causa petendi che legittimi l’intervento, ex 105-106-107c.p.c. o alcun motivo che possa sul piano dell’interesse ex art.100 c.p.c. giustificarlo.

Proto Pisani, AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, p.623

Le due norme in questione non sono, infatti, l’una il doppione dell’altra.

Non esiste, comunque, una sanzione in caso di condotta inadempiente della sollecitata associazione.

In questo caso il giudice può esercitare il suo potere poichè “essendo finalizzato l’intervento officioso all’acquisizione di ulteriore elementi integrativi per la domanda definitiva, non può ritenersi che una o entrambe le parti, che potrebbero avere addirittura un loro interesse a mantenere oscuri alcuni aspetti della causa, possano precludere al giudice la possibilità di ricevere le informazioni in discorso, omettendo semplicemente l’indicazione dell’associazione sindacale cui il decidente dovrebbe rivolgersi per a richiesta delle opportune notizie”, Carrato, Le forme di intervento delle associazioni sindacali nel processo del lavoro, Giur.Merito, 1995, p.852.

In questo modo il giudice farà riferimento alle associazioni che riterrà più adeguate privilegiando, ovviamente, quelle più rappresentative sul piano nazionale.

Di opinione contraria Proto Pisani secondo cui il giudice deve fare a meno delle informazioni e delle osservazioni.

La persona che rende oralmente le informazioni in giudizio deve produrre un titolo giustificativo del potere di rappresentanza dell’organizzazione.

Cass. 16 giugno 1987, n.5321.

Cass. 12 maggio 1989, n.2173.

Cass. 29 gennaio 1985, n.526

Cass. 1 febbraio 1988, n.871.

Disposizione valevole anche per l’art.421c.p.c..

Questa possibilità è prevista sia nell’art.421 sia nell’art.425c.p.c..

“Il contrasto sulle modalità di attuazione di tale strumento si è sostanzialmente risolto nell’averlo qualificato come l’estrinsecazione di un potere discrezionale del giudice, che può ricorrervi secondo il suo prudente apprezzamento, pur nel rispetto del generale principio dispositivo delle parti, anche se attenuato dalla possibilità di interventi inquisitori spesso anche incisivi”, così Carrato, Le forme di intervento delle associazioni sindacali nel processo del lavoro, Giur.Merito, 1995, p.853.

Cass., Sez.lav., 20 gennaio 1993 n.589.

L’argomento merita qualche riflessione.

Alcuni autori studiosi, processualisti e giuslavoristi hanno manifestato una certa perplessità per le c.d. controversie di serie che implicherebbero l’estensione dell’efficacia della pronuncia giudiziale a livello aziendale, non eccedendo l’ambito soggettivo coincidente con la competenza per territorio del giudice investito della controversia. Lamentano la manifesta collisione con il fondamentalissimo principio della domanda, che deve esplicarsi anche in insindacabili valutazioni del titolare del diritto soggettivo di scegliere se e quando farlo valere.

De Angelis non condivide, invece, queste perplessità ritenedo che “la garanzia del diritto di difesa, intesa come possibilità di far valere le proprie ragioni, la quale rappresenta l’esigenza di fondo irrinunziabile sottesa all’art.24 Cost., sembra d’altronde assicurata senza riserve dal sistema che si è descritto. Questo, anzi, se ha un limite più evidente, è nella prospettiva fortemente individualistica che lascia alla lite”, Le controversie di serie in materia di lavoro, Riv.Dir.Proc., 1993, p.842.

In questa udienza “il giudice, sul presupposto di una effettiva conoscenza dei termini della lite -che s’impone per gli adempimenti cui è tenuto e per le decisioni che deve adottare- deve prendere il timone dell’andamento della causa, senza prestarsi a sotterfugi di qualsiasi genere”, Relazione Lospinoso Severini alle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro della Camere, seduta del 31 marzo 1971 (V Legislatura).

Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto del lavoro, III ed., Napoli, 1996, p.161.

Di regola è una sola udienza: l’eccezione è rappresentata da un numero limitato di altre udienze che le facciano subito seguito.

“La violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, alla cui salvaguardia sono preordinate le prescrizioni degli artt.128 e 129 c.p.c., deve essere sanzionata con la nullità del procedimento, per l’inidoneità dell’udienza e dgli atti in essa compiuti al raggiungimento del loro scopo”, così Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p.85.

La centralità dell’interrogatorio nel sistema di un processo orale spiega il motivo per cui deve essere ammesso a rendere ‘interrogatorio libero anche il convenuto costituitosi tardivamente.

A differenza del rito ordinario in cui, ex art..117 e 185, l’interrogatorio libero è meramente facoltativo ed è considerato uno strumento per fornire una fonte sussidiaria di convincimento, idonea a consentire la valutazione delle prove già esperite.

Cass. 8 marzo 1978, n.1171, in Giur.It.1979, I, 1, c.320.

Cass.29 gennaio 1985, n.526, Foro it., Rep.1985.

Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p.100.

Così Bernasconi, Sulla efficacia delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, Riv.Dir.Proc., 1996, II, p.626.

Non in questo senso la Suprema Corte, Cass.8 marzo 1978, n.1171, per cui essendo stato raggiunto “lo scopo del processo”, consistente “nell’accertamento della verità”, opererebbe la sanatoria ex art.156 c.p.c..

Cass. 21 maggio 1984, n.3139.

Bernasconi, Sulla efficacia delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, Riv.Dir.Proc., 1996,II, p.622.

In questo modo si rende operante l’obbligo del convenuto di prendere posizione in ordine ai fatti affermati dall’attore e, correlativamente, l’obbligo dell’attore di pronunciarsi su fatti impeditivi ed estintivi o costitutivi, come la domanda riconvenzionale, addotti dal convenuto. Tale obbligo dell’attore, anche se non è previsto da alcuna norma, si ricava analogicamente per un’elementare esigenza di simmetria intesa ad assicurare parità di trattamento a posizioni conformi.

“Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.

Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.

Tuttavia, è da considerare che in dottrina si sono sviluppate diverse tesi, che riconoscono, invece, agli argomenti di prova l’idoneità a costituire il fondamento autonomo della decisione, riconducendole, ad es., nell’alveo delle presunzioni.

Bernasconi, Sulla efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero, Riv.Dir.Proc., 1996,II, p.642.

Le gravi ragioni che giustificano la mancata conoscenza dei fatti da parte del procuratore devono individuarsi, in via esclusiva, in quelle che giustificherebbero l’ignoranza in capo allo stesso rappresentato ove fosse comparso personalmente e che quindi impedirebbero al giudice di trarre elementi di convincimento da una risposta non esauriente. L’avvenuto conferimento della procura e la serietà dei motivi che, soli, possono scriminare l’ignoranza del procuratore impediscono di ritenere che fra essi possano ricomprendersi le difficoltà o impossibilità di comunicazione tra mandante e mandatario”, così Pezzano, AA.VV.,Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma. 1987, p.650.

Si ripropongono in questa sede gli stessi “schieramenti" analizzati in sede di interrogatorio libero delle parti: c’è chi propende per la causa di nullità e chi, invece, limita la nullità agli atti successivi.

Così Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto del lavoro, III ed., Milano, 1996, p.173.

Mentre nel rito ordinario le parti possono liberamente modificare (nei limiti di una emendatio) le domande precedentemente proposte con il solo limite cronologico, costituito dall’udienza di precisazione delle conclusioni, nel rito del lavoro, fermo il divieto della mutatio della domanda, la mera modificazione, ai sensi dell’art.420, comma 1°c.p.c., è sottoposta a preventiva autorizzazione del giudice, purchè ricorrano “gravi motivi”.

Come emerge dalla lettera della legge, l’ultima parte del 1°comma dell’articolo in questione si riferisce alle domande, eccezioni e conclusioni già formulate, contenute in tutte le scritture preparatorie, comprese quelle depositate dall’attore in replica alla domanda riconvenzionale del convenuto, e dell’attore e del convenuto in replica all’intervento.

Devono essere ritenute introducibili anche le domande e le eccezioni nuove se la necessità della proposizione sia scaturita dalle difese del convenuto o dell’interveniente spiegate all’atto della loro costituzione e che pertanto non possono essere proposte per la prima volta che nell’udienza di discussione.

Motivi giustificativi della modificazione possono essere la scoperta di circostanze e documenti prima ignorati, o una malattia che abbia impedito al convenuto di compiutamente conferire con il proprio legale.

Così Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, p.129.

A conforto di questa tesi soccorre ora anche l’art.184bis come modificato dal D.L. n.238 e n.432 del 1995.

Così Montesano-Vaccarella, manuale del processo del lavoro, III ed., Napoli, 1996, p.175.

Cass. 4 dicembre 1986 n.7197; Cass. 16 giugno 1986 n.3996; Cass. 14 gennaio 1987 n.214; Cass. 22 dicembre 1989, n.5783.

Il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio ordinario di primo grado è posto unicamente per assicurare le esigenze del contraddittorio e la tutela di interessi privati; pertanto se la parte, contro cui la domanda nuova è formulata, invece di eccepire la sua improponibilità, accetta il contraddittorio e si difende nel merito, l’improponibilità non può essere rilevata d’ufficio dovendo ritenersi che l’interessato abbia rinunziato alla preclusione, Cass. 15 ottobre 1983, n.6060.

Pezzano, AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna e Roma, II ediz., 1987, p.660.

In dottrina Converso (Raffone, Pini, Scalvini), Il nuovo processo del lavoro, Milano 1973, 128. Per la giurisprudenza Pret. Perugia 20 marzo 1974, in Foro it. Rep.1975 e, con riferimento al giudizio di secondo grado, ma con un ragionamento estensibile al primo grado, Cass. Sez.un., 26 marzo 1982, n.1884, in Foro it., 1982, i, 1280 ed, altresì, cass. Civ. 16 dicembre 1982, n.6951.

Ci riferiamo agli artt.181, 309, 348c.p.c..

Il Supremo Collegio esprimeva il principio secondo cui, nel processo del lavoro, la lacuna non fosse colmabile mediante il ricorso alla normativa generale e l’assenza dei contendenti all’udienza di discussione non esimesse pertanto il giudice dal definire la lite.

Art.429, ultimo comma, in relazione ai commi 6° e 7°; art.421, 2°comma; art.429, 2°comma; art.437, 2°, 3°, 4° comma, in relazione all’art.429, 2°comma.

Oriani, La sezione lavoro della Corte di cassazione abbandona indirizzi consolidati sull’inattività delle parti nel processo del lavoro, Foro it., 1991, I, p.1094.

Tra le tante: Cass. 5 aprile 1990 n.2845, Giust.Civ. Rep.1990 v.Lavoro (controversie individuali), 127; Cass. 5 aprile 1990, n.2845; Cass. 6 marzo 1990, n.1744; Cass. 23 febbraio 1989, n.1011 e 23 giugno 1989, n.3022.

Tali motivi sono: a) problemi indotti dall’applicazione generalizzata del principio; b) la varietà di orientamenti tuttora presenti nella giurisprudenza di merito in tema di inattività delle parti nel rito del lavoro; c) gli sviluppi registrati dalla giurisprudenza del Supremo collegio circa il rapporto tra il rito speciale e il rito ordinario; d) la precisazione in ordine alle “udienze di mero rinvio” (art.420, c.p.c.), contenuta nella sentenza 382/86 della Corte costituzionale.

Cassazione 7 marzo 1991, n.2366.

Con tale decisione le Sez.Un. aderiscono all’orientamento espresso dalla Sez.lav. nel 1991.

I capisaldi intorno a cui le Sezioni unite costruiscono la significativa svolta giurisprudenziale sono due: il primo di essi attiene all’esatta interpretazione della disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art.420c.p.c., ove è sancito il divieto di udienze di mero rinvio.

Il secondo argomento, certamente di maggiore spessore teorico, involge la filosofia stessa del processo del lavoro, che la Corte delinea quale processo non inquisitorio, in cui i poteri di impulso sono si in parte attribuiti al giudice, senza peraltro che ne siano del tutto private le parti, ma nel quale si verte pur sempre in tema di diritti disponibili.

Ci possono essere, infatti, delle ragioni che giustificano “una” assenza.

Dal 1942 la disciplina ha subito notevoli cambiamenti, prima di giungere alla novella del 1990.

Già una volta in questo capitolo abbiamo fatto riferimento a questa interessantissima scienza utilizzando una espressione di Smith per riferirci al contraddittorio.

Tale onere attiene alla deduzione in giudizio da pare dell’attore del fatto costitutivo della domanda, ovvero, da parte del convenuto, dei fatti impeditivi o estintivi.

Tale onere attiene alla dimostrazione dei fatti, una volta che gli stessi siano stati dedotti. L’argomento sarà trattato nei prossimi paragrafi.

Tutto ciò attiene all’onere di allegazione.

Senza però ricorrere alla sua scienza privata e sempre nel rispetto del principio del contraddittorio, dovendo sottoporre l’esame del fatto alle parti.

Tale convinzione si forma in base alla valutazione dei documenti prodotti e degli elementi di convincimento desumibili dalle scritture preparatorie, dalle risposte date e dal contegno assunto dalle parti in sede di interrogatorio libero,

Così l’art.420, 5° comma.

Per evitare troppo agevoli scappatoie dal rigore delle preclusioni che ispira tutta la norma in esame, i “rari motivi, che in base al 1° comma giustificano lo ius variandi concesso alle parti. Non possono per le prove essere diversi dall’accennata impossibilità di produzione, addotta dalle parti e accertata dal giudice.

Ci stiamo riferendo a Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p.104 e Perone, il nuovo processo del lavoro, Padova, 1975, p.187.

Sembra doveroso consentire alle parti di adeguare le loro istanze istruttorie non solo alle modificazioni oggettive intervenute (ex art.420, 1° comma, o ex art.420, 9° comma, ovvero ancora a seguito di domanda riconvenzionale) dopo la maturazione della preclusione, ma anche alle difese del convenuto.

Il limite invalicabile consiste bell’escludere ogni ius poenitendi delle parti.

Si ricordi che il processo del lavoro si dovrebbe concludere in una sola udienza.

Montesano ritiene che si tratti di un “utopistico, più che ottimistico, 6° comma”, Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, pag. 196.

Il riferimento alle note difensive lascia intendere che non solo l’assunzione ma anche l’ammissione delle prove può essere oggetto all’udienza successiva.

La stessa considerazione sarà fatta a propostito dei mezzi istruttori ammissibili d’ufficio.

In seguito ci soffermeremo sui limiti ad un “uso partigiano” dei poteri officiosi del giudice.

Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, p.196-197.

Comma che prevede la controdeduzione dei “mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi.

Comma che consente di assumere le prove nella stessa udienza in cui ne sia stata disposta l’assunzione.

Ciò è dovuto non solo per la lettera dell’art.420, 5° comma ma anche per il principio emergente dall’art.429, 1° comma.

Tale regola è prevista dall’art.2697c.c..

“L’attribuzione al giudice del lavoro dei noti poteri istruttori non solo non incrina il monopolio delle parti private per la delimitazione dell’ambito della lite, ma n tocca neppure l’oggettiva regola finale di giudizio per cui grava sul soggetto onerato il rischio della mancata prova, rispondendo solo all’esigenza di ridurre le occasioni di applicazione con l’aumento delle possibilità di accertamento dei fatti di causa”, Vallebona, L’inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, Riv.trim.dir.proc.civ., 1992, p.809.

In questo caso la domanda dovrà essere respinta.

Tutto ciò soddisfa esigenze di tecnica processuale.

E’ l’altra esigenza che si incontra nell’istruzione dell’onere della prova.

Caruso, Tutela giurisdizionale, onere della prova, equità processuale. Una ricerca sul diritto del lavoro nel processo, Riv.Giur.La,, 1982, I, p.203.

Senza arrivare a perorare una sorta di right to begine con valore assoluto, tipico della frase predital del processo anglosassone, si tratta di vedere se si renda ammissibile un intervento esplicito e non surretizio del giudice, in quanto tale controllabile, in grado di trasformare la “regola di carta” in regola reale razionalizzata, che realizzi, oltretutto, i criteri ispiratori della riforma.

L’iniziativa ed il procedimento di formazione dell’atto sono, generalmente, allo stato, di pertinenza unilaterale dell’imprenditore, ovvero, si pongono, come atto interno alla sua sfera di azione privata.

Tale condizione si potrebbe tradurre in un pregiudizio per la veridicità e razionalità della decisione.

Si ricordi il parallelo fatto con la microeconomia nel paragrafo introduttivo alla fase istruttoria.

Più concretamente, se la contrapposizione delle parti e gli altri strumenti giuridici, non sono in grado di ridurre entro limiti tollerabili l’incidenza della diseguaglianza sulla effettiva disponibilità delle armi processuali, spetterà al giudice determinare esplicitamente nel processo la posizione delle parti di fronte ai fatti oggetti di prova, in maniera di aumentare lo stimolo all’introduzione di tutti i fatti probatori rilevanti i quali possono per ragioni di disponibilità, vicinanza, facilità essere introdotti dall’una o dall’altra parte.

Secondo una linea di interpretazione che si condivide, l’inserimento del principio nel nostro ordinamento non accresce sostanzialmente le garanzie già offerte dalla nostra carta costituzionale, ma permette di leggere in maniera più ricca le disposizioni essa contenute; il principio può, cioè, costituire una griglia di lettura delle norme che “ponga in armonia, con scritto di realismo, le regole processuali presenti e i presenti bisogni”.

A ciò non osta il rigido sistema di preclusioni previsto dagli artt. 414-416c.p.c.: esso pone soltanto un limite cronologico alle parti in ordine alla volontario offerta di prove in funzione di esigenza di speditezza e celerità del ritmo processuale e per prevenire eventuali manovre dilatorie.

Buoncristiani, I poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro ed il principio del contraddittorio: obbligo di capitolazione della prova testimoniale, Giust.civ., 1989, I, p.2216.

Buoncristiani, Interazione tra allegazione e prova del fatto, in connessione con i poteri del giudice del lavoro, Giust.Civ., 1990, I, p.1647.

Come abbiamo già detto, infatti, è la parte a decidere in che limiti vuole tutela.

Buoncristiani, Interazione tra allegazione e prova del fatto, in connessione con i poteri del giudice del lavoro, Giust.civ., 1990, I, p.1647.

Il principio dell’allegazione, infatti, come abbiamo già dimostrato, vige pienamente anche nel processo del lavoro e riguarda sia i fatti principali sia i fatti secondari.

Come è stato osservato di recente, i fatti secondari rilevano solo sul piano funzionale del diritto dedotto in giudizio; ne segue che in ordine ad essi il giudice incontrerà gli stessi limiti che incontra in ordine alle fonti materiali di prova, senza quindi che si possa affermare che l’onere di allegazione si estenda anche ai fatti secondari.

Ha, infatti, pieno vigore il principio della domanda.

Consentire al giudice di evidenziare i fatti costitutivi non dedotti dall’attore, per di più fuori da una esplicita previsione di legge, potrebbe determinare innanzitutto un mutamento del thema decidendum, con conseguente pregiudizio del diritto di azione e degli interessi dell’attore.

Si ha, infatti, violazione del principio del contraddittorio qualora il giudice assuma una prova relativa ad una circostanza di fatto decisiva non dedotta neppure genericamente da una parte o quando abbia ammesso d’ufficio una prova di fronte alla quale una delle parti sia stata priva di ogni tipo possibile di concreta difesa istruttoria.

In dottrina molto è stato detto a proposito: tra i tanti Liebman, Fondamento del principio dispositivo, Riv.Dir.Proc., 1960, 562-563, per il quale la neutralità del giudice sarebbe compromessa “qualora gli incombesse anche il compito e la responsabilità di rilevare i fatti influenti per la decisione”; per Grasso, La pronuncia d’ufficio, molano, 1987, p.93, “la difesa, limitatamente alla posizione del fatto, è garantita dalla narratio che rende noto all’altra parte quale sia il compendio fattuale nel quale il giudice può prelevare la materia della decisione”.

Dal momento che il bene della vita controverso è spesso rappresentato da u diritto indisponibile o semi-indisponibile del lavoratore, il giudice non può accontentarsi della verità meramente processuale.

“Il giudice potrà accogliere la richiesta tardiva di mezzi istruttori ora dell’una ora dell’altra parte, purchè risultino idonei a lumeggiare la verità storica”, così Buoncristiani, poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro ed il principio del contraddittorio. Obbligo di capitolazione della prova testimoniale, Giust.Civ., 1989, I, p.2217.

AA.VV., le controversie in materia di lavoro. Legge 11 agosto 1973 n.533 e norme connesse, Bologna, 1987; Montesano-Vaccarella, manuale del processo del lavoro, III ed., Napoli, 1996.

Buoncriastiani, i poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro ed il principio del contraddittorio: obbligo di capitolazione della prova terstimoniale, Giust.CIV., 1989, I, P.2218.

Nella nuova udienza il giudice dovrà prendere in considerazione tali note difensive ed eventualmente revocare l’ordinanza ammissiva della prova.

Comma 7 dell’art.420c.p.c..

E’ il testo integrale della sentenza della Cassazione 15 gennaio 1998, n.310.

Restano , quindi, nella disponibilità del giudice del lavoro tutti i mezzi di prova già devoluti all’iniziativa del giudice ordinario mentre si è ritenuto condizionato all’istanza di parte l’ordine di esibizione di documenti di cui all’art.210c.p.c..

Così Cass. 24 novembre 1993, n.11588.

Tra le tante, Cass. 14 marzo 1990, n.2953; Cass. 14 aprile 1988, n.2943; Cass. 20 maggio 11986, n.2351.

Per quanto riguarda il contenuto, la legge prevede l’ipotesi in cui la sentenza sia di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro. Per tale ipotesi, il 3°comma art.429, dispone che il giudice “deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione dei valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto”.

Ancora al contenuto si riferisce la disposizione contenuta nell’art.432 e secondo la quale “quando sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa”.

Cass. 16 luglio 1987, n.6274; Cass. 13 novembre 1981, n.6022.

Cass. 1 febbraio 1995, n.1167.

I motivi pratici per cui il legislatore del 1973 ha introdotto questa innovazione sono molto semplici: in primo luogo, prevedendo che la controversia debba essere risolta subito dopo la discussione, costringe il giudice ad arrivare all’udienza dopo aver studiato la causa; in secondo luogo fare sì che il tempo intercorrente fra la deliberazione del dispositivo e il deposito in cancelleria della sentenza completa di motivazione non vada a danno del lavoratore che abbia avuto ragione e che conseguentemente, ai sensi dell’art.431, 2°comma, è legittimato ad agire in via esecutiva anche sulla base della sola copia del dispositivo.

Allo scopo di garantire il diritto di difesa del datore di lavoro soccombente in primo grado contro il “danno gravissimo” che può determinargli l’esecuzione del dispositivo, ed allo scopo ad un tempo di far sì che sulla istanza di sospensione dell’esecuzione si pronunci sempre il giudice d’appello, l’art.433, 2° comma dispone che “ove l’esecuzione sia iniziata, prima della notificazione della sentenza, l’appello può essere proposto con riserva dei motivi”; questo istituto dell’appello con riserva dei motivi è tutto funzionalizzato a consentire la proposizione al giudice d’appello dell’istanza di sospensione ex art.431, 3°comma.

“Non occorre sottolineare come in questo modo si realizzi il massimo grado di concentrazione: immediata precisazione delle conclusioni, niente scambio di scritti difensivi, ma immediata discussione e immediata decisione. C’è solo, doverosamente, da domandarsi se e fino a che punto sia opportuna tanta rapidità nella decisione di un giudice che (non lo si dimentichi) è solo con tutta la sua responsabilità di fronte ad un compito decisorio che può implicare la soluzione di delicati problemi giuridici; se insomma non si corra il rischio di sacrificare al “presto” il “bene”; Così Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, XI ed., Torino, 1997, III° volume. p.509.

La prima di queste due pronunce è configurata dal 1°comma dell’art.423, secondo cui “il giudice del lavoro , su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate”. Questa ordinanza può essere pronunciata “a istanza di parte” e quindi a istanza di ciascuna delle due parti.

Per non contestazione deve intendersi, secondo la definizione di Andrioli, quella che “nasce da un sistema di argomentazioni del difensore o della parte, comparsa di persona, che sia conciliabile con la verità dei fatti allegati dall’altra parte o dal difensore, nè importa che la conciliazione sia esplicita o implicita”; essa è, quindi, un comportamento processuale della parte attivamente presente nel processo, incompatibile con la posizione del contumace.

Per quanto riguarda, invece, la natura di questa ordinanza, dottrina e giurisprudenza la riconducono nella categoria dei provvedimenti sommari anticipatori, revocabili e modificabili dallo stesso giudice che li ha pronunciati e destinati ad essere assorbiti dalla sentenza che definisce il giudizio, o a divenire inefficaci in caso di estinzione del processo.

La seconda delle due pronunce in discorso, invece, è configurata dal 2°comma della’art.423, secondo cui “in ogni stato del giudizio può, su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Questa ordinanza priva dell’elemento della sommarietà, è paragonabile, a detta di Mandrioli, “ad una sentenza provvisionale, di cui all’art.278c.p.c.”, Corso di diritto processuale civile, XI ed., Torino, 1997, 3° volume, p.514.







 
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