lavoroprevidenza

lunedì 19 febbraio 2007

LA QUESTIONE DEI “NULLAFACENTI PUBBLICI”

del dr. Luca Busico - Funzionario Ufficio legale dell’Università di Pisa - Membro della Direzione Scientifica di LavoroPrevidenza.com

La questione dei “nullafacenti pubblici”



Recenti articoli di stampa a firma del Prof. Pietro Ichino, pubblicati sul “Corriere della sera” del 24, 29 agosto e 5 settembre 2006 (sui quali è stato aperto un forum sul sito internet dello stesso giornale) e su la voce.info del 7 settembre ed ora raccolti in un volume dal titolo “I nullafacenti”, hanno riproposto all’attenzione di addetti ai lavori e non la ciclica questione dei cosiddetti dipendenti pubblici nullafacenti.


Ai predetti articoli hanno risposto, con reazioni di vario tipo, Treu sul “Corriere della sera” del 25 agosto, Leon su “L’Unità”, Leonardi sul “Giorno”, Podda sul “Manifesto” del 2 settembre, Salvati ancora sul “Corriere” del 3 settembre, De Benedetti sul “Sole 24 Ore” del 5 settembre ed il periodico “Panorama” nel suo primo numero di settembre 2006 ha dedicato ampio spazio al dibattito.


Inoltre, sul fascicolo 4/2006 della “Rivista italiana di diritto del lavoro”, diretta peraltro dal Prof. Ichino, è stato pubblicato l’interessante contributo sul tema di Vito Tenore dal titolo “Perseguire i nullafacenti pubblici è possibile (e non è facoltativo)”.


In tale contributo l’autore parte dalla premessa, condivisa da chi scrive, secondo cui “premesso che ogni generalizzazione sarebbe scorretta e calunniatoria per chi, all’interno della pubblica amministrazione, si dedica al lavoro con dedizione e impegno, la figura del dipendente nullafacente non è un miraggio estivo di studiosi e opinionisti, ma una categoria da tempo socialmente nota, visibile e tangibile a tutti i livelli, nessuno escluso…”.


In effetti i casi di dipendenti pubblici nullafacenti non mancano e se ne possono ricordare, a titolo esemplificativo, alcuni:


1) impiegate che, senza timbrare il badge, si allontanano dall’ufficio per interminabili colazioni, comprendenti anche la spesa e la sosta dal parrucchiere;


2) impiegati che la mattina timbrano il badge, poi accompagnano i figli a scuola, parcheggiano l’automobile, quindi finalmente entrano in amministrazione (la timbratura più che l’ingresso del dipendente al lavoro ha segnato l’entrata dei figli a scuola);


3) impiegati con spiccate doti da indovini che preannunciano l’imminente malattia “ad orologeria”, casualmente concomitante con un “ponte” o con un fine settimana;


4) impiegati della medesima amministrazione rivestenti lo status di coniugi, che si ammalano contemporaneamente di giovedì sera o di domenica sera;


5) colleghi molto affiatati e solidali tra loro, che si accordano per le timbrature pomeridiane, nel senso che a turno uno timbra anche i cartellini degli altri, col risultato di fare un solo rientro pomeridiano (o magari nemmeno quello), anziché due;


6) autisti di amministrazioni che trascorrono anche intere giornate a contemplare i cortili delle amministrazioni medesime;


7) centralinisti (vedenti e non vedenti), che trascorrono molte ore a giocare a poker o simili sui computer dell’amministrazione;


8) dirigenti in rotta col vertice politico, che chiedono per le vie brevi ed ottengono inutili e comodi incarichi di studio e/o ispettivi, dichiarandosi poi dequalificati e “mobbizzati”;


9) magistrati che depositano le sentenze anche con anni di ritardo;


10) docenti universitari che per l’intero anno accademico, disertano regolarmente lezioni, esami e ricevimenti.


Esistono, tuttavia, le possibilità e gli strumenti per combattere e quanto meno ridurre i patologici fenomeni appena descritti, che si pongono in evidente antitesi con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa previsto dall’art.97 della Costituzione Repubblicana.


Tutti i contratti collettivi dei vari comparti del pubblico impiego prevedono l’irrogazione di sanzioni disciplinari, che vanno dal richiamo scritto al licenziamento con preavviso, per l’insufficiente o scarso rendimento rispetto ai carichi di lavoro e comunque nell’assolvimento dei compiti assegnati. I contratti, inoltre, ammettono la punibilità in sede disciplinare di specifiche condotte caratterizzate da negligenza, come l’assenteismo ingiustificato, lo svolgimento del doppio lavoro, la mancata evasione delle pratiche nei termini di legge.


Il licenziamento del nullafacente trova, quindi, espresso riscontro nel diritto positivo, in particolare nella fonte collettiva, che è il prodotto dell’incontro delle volontà del datore di lavoro pubblico e dei sindacati.


Ma i dirigenti pubblici, che dovrebbero essere il motore dell’azione disciplinare, per svariati motivi sono, invece, inerti e tranquilli spettatori dei propri sottoposti nullafacenti. Ciò impone qualche breve riflessione sulla dirigenza pubblica.


Le riforme legislative adottate nell’ultimo decennio dello scorso secolo hanno ridisegnato le amministrazioni pubbliche sulla base della distinzione tra politica e gestione e dell’assunzione da parte dei dirigenti, titolari delle attività gestionali, di un ruolo spiccatamente manageriale. Tale schema ha stentato ad affermarsi in concreto, poiché è andato ad incidere su equilibri e posizioni di potere consolidati, che avevano visto fino a quel momento, da un lato, un atteggiamento dei politici teso a privilegiare, per ottenere maggiore visibilità e ritorno in termini di consenso elettorale, l’assunzione in prima persona di compiti meramente gestionali piuttosto che l’attività di definizione degli indirizzi e degli obiettivi, ma anche, dall’altro lato, un comportamento della dirigenza poco propenso ad una posizione di autonomia rispetto ai politici. Alla tendenza degli organi politici ad interpretare in modo restrittivo il trasferimento alla dirigenza della potestà di amministrazione concreta ha fatto compagnia un atteggiamento a dir poco prudente, se non totalmente passivo, della dirigenza nell’assumere tale potestà e nel rivendicarla dagli organi politici medesimi.


Risultato finale della situazione sinteticamente descritta è che il politico può continuare a fare anche attività di gestione con il non trascurabile vantaggio di vedere ridotte al minimo le probabilità di dirette responsabilità civili, penali ed amministrative ed il dirigente viene lautamente retribuito (con danaro della collettività) per un’obbedienza supina al politico, consistente nel dire sempre di si.


Ma la tanto sbandierata (in libri, riviste, seminari e convegni) cultura del risultato richiederebbe, invece, un dirigente attivo protagonista dell’azione amministrativa e, quindi, severo e rigido controllore dell’operato dei propri sottoposti. Per poter avere un ruolo attivo il dirigente non dovrebbe avere interferenze del politico nell’attività gestionale, ma qui sorgono diversi interrogativi. Siamo sicuri che il politico voglia davvero che i nullafacenti siano perseguiti in sede disciplinare? Ed i sindacati lo vogliono? Cosa deve fare il dirigente se il nullafacente ha come referenti il vertice politico o quello sindacale?


Inoltre, ad avviso di chi scrive, l’accesso alla dirigenza dovrebbe avvenire solo in forza del merito, della capacità e della competenza professionale, mentre spesso avviene per altri motivi, come la contiguità politica, la fedeltà, le amicizie giuste e simili. In tal caso diventa paradossale investire della lotta ai nullafacenti soggetti, che sono arrivati alle posizioni di vertice senza meriti professionali. Come può un sottoposto, benché nullafacente, accettare di essere perseguito in sede disciplinare da soggetti del genere?



DR. LUCA BUSICO,


Funzionario Ufficio legale dell’Università di Pisa


Membro della Direzione Scientifica di LavoroPrevidenza.com
















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