lavoroprevidenza

martedì 9 gennaio 2007

SPECIALE PARI OPPORTUNITA : LE DISCRIMININAZIONI SUL LAVORO PER MOTIVI DI SESSO

dell Avv. Anna Lisa Marino, Foro di Salerno -SPECIALE Pari Opportunità - sezione curata e diretta dalla Prof.ssa Avv. Rocchina Staiano - Vicedirettore LavoroPrevidenza.com

LE DISCRIMININAZIONI SUL LAVORO PER MOTIVI DI SESSO


Avv. Anna Lisa Marino, Foro di Salerno





1. Le molestie sessuali come discriminazioni basate sul sesso


Molestie sono tutti quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale che possano offendere la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro.


Esse si collegano pertanto alla possibilità, reale o presunta, di avere potere e di esercitarlo indebitamente ai danni del lavoratore, in dispregio al principio di parità di trattamento, nell’accesso al lavoro, nella formazione, nella promozione, nelle condizioni generali presenti sul luogo di lavoro.



Più specificamente sono definite molestie sessuali quelle situazioni nelle quali “si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.”[1]



L’ordinamento vieta al datore di lavoro di assumere comportamenti che, direttamente o indirettamente, possano realizzare delle discriminazioni basate sul sesso.


Ciò è stabilito dall’articolo 37, comma primo della Costituzione (tutela della donna lavoratrice), dall’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, dalla legge del 1977 n. 903, dalla legge del 1991 n.125 (azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dal D. Lgs del 2003 n.216 (parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro).



Il codice di comportamento adottato per le pubbliche amministrazioni, in particolare, prevede la creazione di una apposita figura, quella del consulente di fiducia, per il rispetto dei diritti della parte lesa e per l’attivazione di specifici interventi formativi per prevenire molestie sui luoghi di lavoro.[2]


Ma la tutela contro questo tipo di discriminazioni si estende anche al settore privato e al lavoro autonomo.[3]




2. Responsabilità civile e penale per le molestie sessuali



L’imprenditore deve fare il necessario "per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" ai sensi dell’articolo 2087 c.c.


Se la responsabilità penale ricade sul singolo che molesta, per delitto di violenza sessuale con abuso di autorità di cui all art. 609 bis, comma primo c.p., per abuso di relazioni d ufficio di cui all’art. 61 n. 11 c.p., ovvero per aggressione o atti contrari alla pubblica decenza, dal punto di vista civile, invece rimane responsabile il datore di lavoro anche se non interviene nella molestia.



Al datore di lavoro, infatti, viene imposto un obbligo di protezione che si concreta nell’intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare ed organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti.


Il prolungato comportamento omissivo del datore di lavoro costituisce dunque violazione dell art. 2087 c.c.[4]



Peraltro non v’è dubbio che, in forza del principio del concorso tra responsabilità extracontrattuale e responsabilità contrattuale, il lavoratore discriminato abbia la facoltà di scegliere tra l’azionare l una o l altra forma di responsabilità facendo valere, nel primo caso, il diritto alla riparazione del pregiudizio arrecatogli dall illecito e, nel secondo, la violazione del diritto (di credito, in quanto di natura personale) a non essere discriminato e la conseguente responsabilità per danni, e non soltanto la nullità dei relativi atti discriminatori.[5]




2. Omosessualità, transessualismo, transgender: appartenenza sessuale sul lavoro


Orientamento sessuale e identità di genere sono concetti sempre più in uso, che rimandano all’aspetto dell’appartenenza sessuale del soggetto lavoratore.


Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha sottolineato come il sesso indichi oggi una connotazione in termini di appartenenza.[6]


La tutela contro le discriminazioni si estende nei confronti di soggetti verso i quali si presenta in forma più delicata il problema dell’appartenenza.[7]



Da tempo le organizzazioni sindacali si occupano della questione della tutela di fasce particolarmente deboli. A favore di omosessuali, transessuali, transgender, vengono promosse iniziative e attività di informazione, formazione, counseling per combattere discriminazioni mascherate sotto falso nome, violenze psicologiche o verbali, sfruttamento, mobbing. La CGIL, il maggior sindacato italiano, ha istituito un Ufficio Nazionale apposito e nelle sedi sindacali distribuite sul territorio sono stati aperti sportelli per il supporto alla tutela di questi soggetti.



Al riguardo occorre segnalare che il 10 novembre 2004 la regione Toscana ha approvato la legge n. 49 titolata “ Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”, la prima del genere in Italia, con cui si è adeguata alla direttiva europea 78/2000/CE che chiede espressamente agli stati membri di legiferare per punire le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale sui luoghi di lavoro.


La legge riconosce il diritto alla libera espressione e manifestazione del proprio “orientamento sessuale” e della propria “identità di genere” stabilendo misure antidiscriminatorie.


La Corte costituzionale, dinanzi alla quale la legge era stata impugnata dal governo della XIV legislatura, si è pronunciata con sentenza n. 253/2006, dichiarandone la legittimità degli artt. 2, 3 e 4. L’art. 2 è legittimo infatti perché “non attribuisce diritti in più a favore di alcuni cittadini in ragione dell’orientamento sessuale”, mentre gli artt. 3 e 4 sono legittimi perché assicurano pari opportunità nell’accesso ai percorsi di formazione e di riqualificazione alle “persone che risultino discriminate e esposte al rischio di esclusione sociale per motivi derivanti dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere” e favoriscono “l’accrescimento della cultura professionale correlata all’acquisizione positiva dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere di ciascuno”, non violando in merito la competenza esclusiva dello stato.



Se è vero che il lavoro deve essere tutelato come forma di espressione della persona nella sua globalità, è sicuramente vero che tali categorie meritano particolare attenzione in ragione dei rischi che la loro appartenenza sessuale crea, ed in questo senso pare che proprio la legge citata e la recente pronuncia in merito della Corte Costituzionale, siano sintomatiche dei progressi compiuti a livello nazionale.








[1] Direttiva 2002/73/CE in GUCE L 269/15 del 5 ottobre 2002


Direttiva 2006/54/CE in GUCE L 204/23 del 5 luglio 2006





[2] Il codice di comportamento delle pubbliche amministrazioni del 3 dicembre 2002 è consultabile sul sito del Ministero delle Attività produttive, all’indirizzo www.attivitàproduttive.gov.it.





[3] “ Il divieto oggettivo di discriminazione dei lavoratori, per ragioni collegate all’appartenenza ad un determinato sesso, opera sicuramente anche nei rapporti di lavoro autonomo, sulla base della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento e, in particolare, delle regole poste dal diritto comunitario” Cass. 26/5/2004 n. 10179




[4] Trib. Milano 28/12/2001





[5] Cass. Sez. Lav. n. 9877 dell’8 luglio 2002





[6] Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, caso Nicholas Toonen vs. Australia





[7] Si vedano in proposito Corte Giust., 30 aprile 1996, causa C-13/94, P vs and Cornwall Council County; Corte Giust., 7 gennaio 2004, causa C-117/01, B.K. V National Health Service.





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