lunedì 12 aprile 2010
Infortunio sul lavoro: il fallo di gioco non determina risarcimento
Articolo dell´ avv. Corrado Spina (Foro Di Salerno)
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L’infortunio occorso in un torneo di calcetto non comporta alcun risarcimento per l’autore del fallo. Così si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza n. 7175 del 16 febbraio 2010 e depositata il successivo 25 marzo. Durante una gara di calcetto, nell’ambito di un torneo, un atleta era intervenuto su un avversario causandogli lesioni al viso ed ai denti. Adito il Giudice di Pace, questi condannava l’autore del fallo e la società organizzatrice del torneo in solido al risarcimento dei danni biologici e morali, mentre il Tribunale accoglieva l’appello e condannava l’appellato alla restituzione delle somme percepite. Contro la decisione di riforma della sentenza la Corte di Cassazione veniva chiamata a dirimere la controversia.
Per la Cassazione “ il gioco di calcetto, per le modalità concrete di svolgimento, non costituiva esercizio di attività pericolosa”. Inoltre “ la fattispecie va inquadrata nell’ambito dell’illecito aquiliano (art. 2043 c.c.), per cui va esclusa la imputabilità soggettiva del calciatore antagonista e dell’associazione cui non era ascrivibile alcuna colpa in eligendo o in organizzando. L’incidente era avvenuto in condizioni di rischio consentito e ciò elideva la ingiustizia del danno” In altri termini la scontro che aveva causato le lesioni al viso ed ai denti era un normale incidente di gioco, per altro nemmeno sanzionato dall’arbitro, per cui nessun risarcimento era dovuto. Inoltre l’evento si era verificato nell’ambito di una manifestazione sportiva disciplinata da regole approvate da una Federazione sportiva. La decisione, infine conferma quanto aveva già previsto dalla stessa Corte Suprema con la Sentenza dello scorso ottobre 2009, allorquando aveva stabilito che l’episodio si era verificato per un normale fallo di gioco.
La sentenza ci da lo spunto per analizzare la responsabilità civile nello sport. All’uopo ci viene in soccorso una recente decisione della Corte di Appello di Roma, la quale sostiene che “i danni eventualmente sofferti dai partecipanti rientrano nell´alea normale e ricadono sugli stessi”, cioè chi partecipa ad attività sportive accetta anche l’alea del rischio. E’ così “il normale fallo di gioco è un evento prevedibile in una partita di calcio”; tale fattispecie costituisce ormai la tesi ricorrente e dominante.
L’esercizio dell’attività sportiva quindi può comportare il verificarsi di danni fisici agli atleti e su tale elemento va verificato la responsabilità di colui che ha determinato l’evento, pertanto bisogna chiedersi quale sia il fondamento giuridico che legittimi la pratica sportiva.
La responsabilità sportiva assume varie connotazioni, a seconda della rilevanza della condotta lesiva posta in essere. In primo luogo assume notevole importanza la responsabilità civile, strettamente connessa al risarcimento del danno patito dal soggetto leso dalla condotta. In tale fattispecie diventa complesso individuare il soggetto civilmente responsabile dei danni cagionati nell’espletamento di una attività sportiva. Inoltre, qualora la condotta del civilmente obbligato assuma una rilevanza particolare, come una fattispecie costituente reato, si avrà anche una responsabilità penale dell’autore.
La responsabilità penale opera tutte le volte in cui il comportamento lesivo integri gli estremi di una fattispecie penalmente rilevante. Questa ipotesi si verifica a seguito di contatto fisico tra gli atleti, allorquando la condotta dello sportivo degenera in un atto illecito. Pertanto il problema è di individuare il rapporto tra colpa sportiva e colpa ordinaria all’interno di quei comportamenti sportivi che prevedono per la loro peculiarità il contatto fisico (si pensi al calcio, rugby, pugilato). Il limite di tali situazioni è determinato dal rischio consentito, in altre parole l’elemento che consente di stabilire se il comportamento tenuto dell’atleta è da considerarsi un semplice illecito sportiva, applicando una sanzionare disciplinare sportiva, o un atto penalmente perseguibile, in quanto l’uso della violenza abbia superato i limiti delle regole di gioco . Su tale principio notevole sia Giurisprudenza che Dottrina non sono univoche, in quanto è sempre difficile dimostrare quando il fatto lesivo rientra nel rischio consentito e quando invece è una condotta violenta. Inoltre, da questo stallo non ci aiutano gli artt. 50 e 51 del Codice Penale , ovvero le scriminanti; cioè quelle fattispecie che di volta in volta permettono di considerare la condotta lecita, in quanto esiste un consenso dell’avente diritto e l’agente esercita un diritto, e quelle che non prevedono una condotta codificata, per cui il comportamento sfocia nella violenza. Una tesi, seguita da dottrina e giurisprudenza , stabilisce che ci troviamo nell’ambito del rischio consentito ogni qualvolta si determinano falli da gioco non volontari. Per essere chiari, l’atleta non è responsabile dei danni cagionati nel commettere un fallo a condizione che l’azione fallosa non è volontaria e non superi il limite del rischio consentito.
In tale contesto si colloca una famosa pronuncia della Suprema Corte , che ha confermato l’assoluta illiceità del ccdd. “fallo a gamba tesa” e la conseguente inapplicabilità delle scriminanti previste dagli artt. 50 e 51 c.p.
La Giurisprudenza opera una distinzione al fine si stabilire quando il contatto fisico nell’ambito del gioco possa ritenersi lecito e quando invece superi tale confine .
In ogni caso l’orientamento della Suprema Corte è quello di valutare i fatti con un notevole rigore, anche al fine di limitare il dilagarsi della violenza in uno sport molto seguito come il calcio . All’uopo si ricorda la decisione del Tribunale di Trento, con la quale non si applicava la scriminante ex art. 51 c.p., allorquando la gara era utilizzata come mero pretesto per porre in essere una condotta violenta nei confronti dell’avversario .
Un ulteriore limitazione alla responsabilità sportiva è costituta dal concorso di colpa, il quale si determina ogni volta in cui il comportamento della vittima, come quello del soggetto attivo della lesione, derivi da una violazione delle ordinarie regole di prudenza e diligenza. In tale fattispecie si applica l’art. 1227 co. 1 c.c. , in base la quale la colpa dell’attore, per quanto piccola, può essere sottratta dal fardello del convenuto.
In riguardo alla responsabilità dell’atleta va valutata la sua condotta qualora possa arrecare danno ad altri atleti o terzi. Tuttavia essa è strettamente collegata al rispetto delle regole di gioco da parte dello sportivo medesimo. In altre parole, i regolamenti sportivi prevedono una serie di comportamenti alle quali deve uniformarsi la condotta dell’atleta, cioè contemperare le esigenze della gara con la tutela dell’integrità fisica dei partecipanti. Tale duplicità di interessi comporta anche una distinzione, come fa la dottrina, tra gli sport a violenza necessaria, quali Boxe, Karate, Judo, gli sport a violenza eventuale, quali Calcio, Basket, Rugby e gli sport tendenzialmente senza violenza, quali Tennis, Sci, Pallavolo.
In queste fattispecie bisogna verificare le situazioni in cui il danno causato all’avversario superi il rispetto delle norme relative a quel determinato sport.
Ulteriore valutazione va posta in riferimento alle lesione cagionate nel corso di una gara e quelle inferte in un allenamento. In quest’ultimo caso, proprio la mancanza di agonismo e l’assenza del risultato sportivo da conseguire, viene richiesto un maggiore rispetto per le regole sportive con un innalzamento della soglia di prudenza.
Per concludere la responsabilità dell’atleta è legata al mancato rispetto delle regole sportive ma anche all’utilizzo di un agonismo esasperato.