lavoroprevidenza

sabato 20 febbraio 2010

I continui e pesanti rimproveri integrano il mobbing se fatti davanti ai colleghi

Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 20.03.2009 n. 6907.
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La Cassazione, sezione lavoro con sentenza 20.03.2009 n. 6907, ha ritenuto che i rimproveri orali daparte del superiore adottati con «toni pesanti» e davanti agli altri colleghi, possono costituire episodiodi mobbing. I giudici hanno così confermato la condanna per mobbing di un´azienda milanese perché unasua dirigente aveva vessato per mesi una dipendente, con una serie di sanzioni disciplinari culminate nellicenziamento

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE LAVOROha pronunciato la seguenteSENTENZAsul ricorso 10789/2006 proposto da ****- ricorrente - contro- controricorrente -avverso la sentenza n. 177/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il04/04/2005 R.G.N. 01/04; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2009dal Consigliere Dott. STEFANO MONACI;udito l’Avvocato A. per delega L.;udito l’Avvocato DI M. per delega D’A.udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RICCARDO FUZIO che ha conclusoper il rigetto del ricorso.SVOLGIMENTO DEL PROCESSOLa signora **** ha convenuto in giudizio la società **** della quale era stata dipendente in qualità diimpiegata, impugnando una serie di provvedimenti disciplinari, e, soprattutto, il licenziamento che le erastato intimato.La lavoratrice esponeva, in particolare: di essere stata assunta dal marzo 1987 ed addetta ad una seriedi mansioni varie come la reception, il centralino, la gestione dei cartellini, l’elaborazione delle agende;di non avere provvedimenti disciplinari fino al gennaio 1999; che appunto all’inizio del 1999 laresponsabile della sua attività le aveva consigliato di trovarsi un nuovo lavoro in un’altra azienda, perchéla società non era più soddisfatta delle sue prestazioni; che nei mesi dall’aprile all’agosto 1999 era statasottoposta a sette provvedimenti disciplinari di cui sei per un giorno di sospensione ciascuno ed uno peruna multa di tre ore, per addebiti che secondo l’interessata erano insussistenti, oppure tardivi, oppureancora privi di rilevanza disciplinare; di essere stata licenziata il 15 settembre 1999 sempre per fatti asuo parere non sussistenti. Sosteneva che si era trattato di un episodio di mobbing. Chiedeva perciòche una serie di sanzioni disciplinari, così come lo stesso licenziamento, fossero dichiarati, nulli,illegittimi ed inefficaci, che la convenuta fosse condannata a riassumere la dipendente, oppure arisarcirle il danno nellamisura di legge, e, inoltre, che il giudice accertasse il carattere di mobbing e perciò l’illegittimità deicomportamenti posti in essere dalla dal gennaio al settembre 1999, accertando anche che avevanoprovocato alla ricorrente un danno biologico, con condanna della società al relativo risarcimento.
Costituitosi il contraddittorio ed istruita la controversia il giudice di primo grado accoglieva ladomanda, sia pure riconoscendo il danno da mobbing soltanto nella somma di € 9.500,00, sensibilmenteinferiore a quelle richieste. Questa pronunzia veniva integralmente confermata dalla Corte d’Appello diMilano con sentenza n.177, in data 12 gennaio / 4 aprile 2005, che respingeva l’impugnazione dellasocietà.La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado anche nella motivazione, e riteneva, in sintesiche due delle sanzioni disciplinari, impugnate dinanzi al collegio arbitrale, fossero già state derubricatein semplici multe con accettazione delle parti, e che anche la loro rilevanza ai fini della recidiva andasseridotta in relazione alla minor entità della sanzione; che un’altra sanzione fosse tardiva; che le altresanzioni fossero illegittime, per irrilevanza e/o insussistenza degli addebiti contestati, o per lasproporzione di essi; che effettivamente il clima aziendale nei confronti della signora **** fossepesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesantied in modo tale che potesse essere uditi dagli altri colleghi di lavoro; che sussistesse una sproporzioneevidente tra il provvedimento di licenziamento ed i tre lievi addebiti riportati nella relativacontestazione, e che non si poteva tener conto, ai fini della recidiva, delle sanzioni disciplinari irrogatein precedenza proprio perché nulle e/o illegittime; che, tenuto conto anche dei richiami e dei rimprovericontinui della sua dirigente nei confronti della lavoratrice, si fosse verificata effettivamente unepisodio di mobbing; che, come era risultato dalla consulenza medica, effettivamente questo mobbingavesse avuto ripercussioni nelle condizioni delle signora e comportato un danno biologico, sia puremodesto, da quantificare nella “misura percentuale del 6%. Avverso la sentenza di appello, che nonrisulta notificata, la società **** proponeva ricorso per cassazione, articolato su quattro motivi diimpugnazione, notificato, in termini, il 30 marzo 2006.Resisteva l’intimata signora **** resisteva con controricorso notificato, in termine, il 9 maggio 2006.MOTIVI DELLA DECISIONE1. Nel primo motivo, relativo ad alcuni dei provvedimenti disciplinari in contestazione, la societàdenunzia l’errore di diritto in relazione agli artt.2104, 2105, 2106, e 1453 e segg. c.c, nonché l’omessa ecomunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.Sostiene, in particolare, che la signora non aveva eseguito con diligenza le prestazioni che le eranoaffidate, con conseguente violazione delle disposizioni degli artt. 2104 e 2105, e che, ai sensi dell’art.2106, queste violazioni potevano dare luogo all’applicazione di provvedimenti disciplinari. Nega che gliinadempimenti della dipendenti fossero lievi, o di scarsa importanza, e che vi fosse una sproporzionetra gli addebiti ed i provvedimenti. Nega ancora che l’interessata fosse oberata da una mole eccessivadi lavoro. Sottolinea anche le mancanze e gli errori cui si riferivano le sanzioni che erano statederubricate in sede conciliativa rimanevano comunque tali, e che tutte le mancanze e gli erroricomportavano inadempimenti contrattuali.2. Nel secondo motivo di impugnazione, relativo al licenziamento, la ricorrente denunzia l’errore didiritto per travisamento dei fatti, e l’omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivodella controversia. Sottolinea l’Importanza delle tre mancanze poste a base del recesso (perl’esattezza, l’errata compilazione del prospetto trimestrale delle presenze e delle assenze di undipendente, l’errato aggiornamento dell’agenda aziendale, l’errata distribuzione della posta) e ribadisceche potevano essere poste alla base del recesso.Allo stesso modo sussistevano effettivamente gli addebiti cui si riferivano i precedenti provvedimentidisciplinari, e la ricorrente ne sottolinea la rilevanza, perché confermavano la negligenza e lo scarso impegno della lavoratrice. In ogni caso il licenziamento, anche se, in ipotesi, non fosse stato giustificatoper giusta causa, avrebbe potuto esserio per giustificalo motivò soggettivo.3. Nel terzo motivo di impugnazione, dedicato al mobbing, la ricorrente denunzia il travisamento deifatti e l’omessa e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo dellacontroversia. Nega ancora una volta che i provvedimenti disciplinari irrogati fossero illegittimi, e chesussistessero le vessazioni e le aggressioni verbali lamentate dalla lavoratrice, che quest’ultima fossestata sottoposta a controlli esasperati.4. Con il quarto ed ultimo motivo, relativo specificamente al danno da mobbing, alla consulenza tecnicadi ufficio e al danno biologico, la società denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di unpunto decisivo della controversia. Secondo la ricorrente la consulenza di ufficio avrebbe accertato chenella signora non vi era stata e non vi era alcuna malattia in atto, ma soltanto disturbi dell’adattamento,che erano temporanei e transeunti.La ricorrente contesta le conclusioni del consulente d’ufficio, e lamenta che la sentenza di primo gradonon aveva tenuto conto delle note critiche del proprio consulente di parte. Nega si fosse verificatal’invalidità temporanea liquidata dal consulente di ufficio, come pure la sussistenza di un dannoesistenziale.5. Il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento.Nella gran parte i motivi di impugnazione sono sostanzialmente inammissibili, perché si limitano, inrealtà, a riproporre questioni di mero fatto, relative alla valutazione del comportamento della signoranello svolgimento della propria attività di lavoro, ma queste valutazioni, proprio perché tali non possonoessere oggetto di un ulteriore riesame in questa sede di legittimità. Vale la pena di sottolineare inproposito che i fatti in se stessi appaiono chiari, e sostanzialmente - almeno nelle loro linee generali -non contestati dalle parti. L’oggetto della discussione, invece, è costituito appunto dalla valutazione edall’interpretazione di questi fatti, mentre non sussistono i vari profili denunziati di difetto dimotivazione, in realtà la motivazione esposta dalla sentenza della Corte d’Appello di Milano, nei suoi variaspetti, chiarisce in maniera ampia, precisa, puntuale, e del tutto logica e convincente, le ragioni per lequali ha compiuto quelle valutazioni ed è giunta a quella decisione, né le sue valutazioni appaiono scalfitedalle argomentazioni della società ricorrente.Queste considerazioni appaiono adeguate e sufficienti a dimostrare l’inammissibilità di una parte delleargomentazioni contenute nel primo motivo del ricorso, quelle sul fatto che l’interessata non sarebbestata oberata da una mole eccessiva di lavoro (mole che, peraltro, - dato che quelle affidate allaresistente erano per lo più attività non suscettibili di rinvio - dovrebbe eventualmente essere valutatanon in via generale, ma con riferimento alle specifiche evenienze occorse nelle singole giornate cuiriferivano gli addebiti), e quella che sussistesse una sproporzione tra gli addebiti e per intero leargomentazioni contenute negli altri motivi di impugnazione, il secondo, il terzo ed il quarto.Con particolare riferimento al secondo motivo rimane da osservare, per completezza, che èinevitabilmente diverso il livello della diligenza ritenuta necessaria da un datore di lavoro (creditoredella prestazione), e perciò delle mancanze che possono giustificare dei provvedimenti punitivi, ed illivello invece ritenuto necessario dal prestatore (debitore della prestazione).Una valutare oggettiva non può che essere lasciata necessariamente ad un terzo, in concreto il giudicedel merito; in sostanza la società pretende invece, inammissibilmente, di sovrapporre la propriavalutazione, inevitabilmente soggettiva a quella della Corte d’Appello: questo vale, ad esempio, la doveriafferma che la resistente non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di lavoro, ma anche, soprattutto, quando i provvedimenti adottati fossero sproporzionati rispetto all’effettiva entità deifatti contestati.Considerazioni analoghe valgono per la valutazione dell’esistenza di un fenomeno di mobbing, di cui alterzo motivo di ricorso, e per quella delle conseguenze psicofisiche e del danno che ne è derivato, chesono oggetto, invece, del quarto motivo.6. Va esaminato separatamente, per completezza, il primo argomento contenuto del primo motivo, quellosulla legittimità delle sanzioni.La società ricorrente sostiene che sussistevano i presupposti legati per l’applicazione dei provvedimentidisciplinari contestati e contesta in particolare che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed iprovvedimenti adottati. La prima osservazione da un lato è inammissibile e dall’altro è inconferente.Come risulta dalla lettura dello stesso ricorso (che, per la verità, è assai chiaro e dettagliato) lamaggior parte gli addebiti contestati concerneva ipotesi di svolgimento delle proprie mansioni coninsufficiente diligenza, che investono -piuttosto che fatti disciplinari in senso proprio, chepresuppongano un comportamento in qualche misura volontario semplici difficoltà operative, una minorecapacità di esecuzione delle mansioni stesse. Se si tolgono i semplici fatti di mancanza di diligenza, traquanto prospettato a giustificazione degli addebiti rimane, per la verità, soltanto una quota modesta difatti che possono essere considerati volontari (l’utilizzazione non autorizzata del fax aziendale per latrasmissione di corrispondenza propria, le accuse ai superiori di manomissione del proprio cartellinopresenze).La ricorrente ricorda che l’art. 2106 c. c., sulle sanzioni disciplinari, rimanda ai due articoli precedenti,e che l’art. 2104 prescrive l’obbligo del lavoratore di eseguire le proprie mansioni con la necessariadiligenza. Per la verità il richiamo generico contenuto nell’art. 2106, sulla possibilità di irrogare sanzionidisciplinari sembra riferirsi a fatti di inadempimento volontario previsti nell’art. 2105 e nel secondocomma dell’art. 2104, piuttosto che alla semplice, e generica, carenza di diligenza contemplata nel primocomma. In una organizzazione negoziale basata sulla contrattazione collettiva, l’individuazione degliindebiti che possono essere oggetto di sanzione è demandata appunto alla contrattazione collettiva.La ricorrente non precisa dove il contratto collettivo di settore preveda la possibilità di applicaresanzioni disciplinari per i diversi fatti contestati, mentre la valutazione della loro gravità in concretoriporta ancora una volta ad una analisi di fatto e perciò ad un ambito non più suscettibile di riesame inquesta sede.7. Ma, anche astraendo da questo, in ogni caso la censura è inconferente. Anche ammettendo, in via diipotesi non concessa, che in quelle circostanze sussistesse, sotto il profilo strettamenteformale, la possibilità di irrogare dei provvedimenti disciplinari, quelle specifiche sanzioni adottate inconcreto sono stati annullate in giudizio (così come lo è stato il licenziamento che ne era stato ilcompletamento), perché - secondo la tesi accolta dai giudici di primo e di secondo grado - erano stateirrogate all’interno di un comportamento complessivo di mobbing, anche quando altrimenti non losarebbero state se non fosse sussistita una specifica volontà di colpire la**** per indurla alledimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento (come poi effettivamente èavvenuto). La sentenza impugnata, in realtà, non si basa tanto sulla motivazione che le sanzioni fosseroillegittime (o che lo fossero una parte di esse), quanto su quella che fossero eccessive e che, in realtà,fossero state irrogate per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa, amplificandol’importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza, in sostanza che i provvedimenti non sarebberostati adottati, e non sarebbero stati adottati tutti ed in un così breve periodo di tempo, se non fossesussistita una precisa volontà di colpire la lavoratrice.


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