lunedì 15 febbraio 2010
IL MOBBING NEL RAPPORTO DI LAVORO
Articolo dell´Avv. BARBARA CAPICOTTO
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1.ELEMENTI COSTITUTIVI DEL MOBBING NEI RAPPORTI DI LAVORO
1.Gli elementi costitutivi del c.d. mobbing (dal verbo ”to mob” che significa accerchiare, affollarsi attorno a qualcuno), in mancanza di una definizione normativa, sono stati individuati, con orientamento ormai consolidato, dalla Giurisprudenza e dalla dottrina. La prima e ormai nota pronuncia che ha utilizzato l’espressione mobbing nell’ambito lavorativo risale al Tribunale di Milano che nel 2002 (Sentenza 22.08.2002) ha enucleato gli elementi essenziali della fattispecie del così detto mobbing venendo a delineare una situazione comportamentale che non è legata solo al mondo del lavoro.
Gli elementi essenziali del fenomeno in esame sono dunque: “l’aggressione o persecuzione di carattere psicologico; la sua frequenza, sistematicità e durata nel tempo; il suo andamento progressivo; le conseguenze patologiche gravi che ne derivano per il lavoratore mobbizzato.”
Affinché si possa configurare un’azione mobbizzante è necessaria una pluralità di comportamenti ritenuti tipici, quali nei casi più frequenti sono le vessazioni o violenze morali, la protrazione nel tempo della condotta e che essa sia diretta a ledere il lavoratore. Per fornire una specifica descrizione del fenomeno sia la giurisprudenza che la dottrina hanno preferito indicare i tre elementi costitutivi del mobbing, individuando l’elemento soggettivo: nella volontà del datore di lavoro o del collega diretta alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente o collega; l’elemento temporale: nella protrazione per un periodo più o meno lungo della pluralità di atti lesivi; specificando che la condotta deve essere reiterata e sistematica con una ciclicità che, secondo i più autorevoli studi statistici, deve ripetersi almeno una volta a settimana per un arco temporale non inferiore a sei mesi ; ed infine l’elemento dannoso, nella conseguente lesione di uno o più beni giuridici afferenti alla integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore. L’evento dannoso evidentemente può manifestarsi sul piano professionale, sessuale, morale, psicologico o fisico della vittima determinando uno stato di disagio psicologico. Disagio che è ciò che l’autore della condotta vuole ingenerare nella persona del prestatore al fine specifico di emarginarlo, ed indurlo a chiedere un trasferimento, se non addirittura a rassegnare le dimissioni o nei casi più gravi spingerlo a gesti estremi come il suicidio.
Elemento centrale è come ha ribadito la Suprema Corte, che si ravvisi una pluralità ed una continuità di azioni lesive, non ritenendosi sufficienti episodi isolati ,che trovano una ratio unificatrice nell’intento dell’autore di emarginare, e/o di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro (Tribunale di Torino 28.01.2003). Ciò significa che ogni singolo atto illegittimo assume una rilevanza non in sé stesso, ovverosia isolatamente considerato, ma solo se è sorretto dallo specifico intento di spingere la vittima all’emarginazione nell’ambiente lavorativo ed in quanto sia reiterato e protratto sistematicamente nel tempo . In altre pronunce la Giurisprudenza ha posto l’accento sul connotato del mobbing inteso come: «condotta aziendale che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore ».
Tale aspetto non è poca importanza se si considera che processualmente spetta al danneggiante dare la prova: a) di una condotta emulativa, pretestuosa, b)protratta nel tempo, ripetuta e sistematica, c)avente carattere e contenuto strettamente persecutori e d)finalizzata alla mortificazione ed emarginazione del lavoratore. Spetterà al Giudicante, sulla base delle risultanze processuali e degli elementi acquisiti in atti, accertare, caso per caso, i fatti lamentati dal mobbizzato, operando una valutazione complessiva e non episodica della condotta datoriale, anche nei casi in cui non sia ravvisabile una violazione degli specifici obblighi posti dall’art. 2087 c.c. a tutela del lavoratore subordinato.
Sussistendo gli elementi su detti viene dunque a configurarsi una specifica responsabilità del datore di lavoro che, a norma dell’art. 2087 c.c., ha l’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore e che pertanto rimane responsabile in via diretta o indiretta del danno cagionato al prestatore. Infatti, pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo – ovvero qualora il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente ai danni di un collega, e dunque il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali, la responsabilità datoriale può discendere da una sua colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.
2.TIPOLOGIE DI MOBBING.
Variegate sono le tipologia di condotte vessatorie che possono configurare azioni mobbizzanti così come molteplici e più o meno devastanti possono essere gli effetti che esse producono nella sfera psico-fisica del lavoratore vessato. A tal proposito gli studi sociologici e la psicologia del lavoro, ancora prima del diritto, hanno operato alcune distinzioni sulla base delle fattispecie concrete esaminate.
Si parla infatti di Mobbing:
- verticale detto anche bossing, o dall’alto verso il basso: è attuato da un superiore gerarchico in danno di un subordinato (rappresenta il 55% dei casi circa in Italia); specularmente si è individuato anche il mobbing ascendente o dal basso verso l’alto: esso può essere sia individuale che collettivo e si verifica quando viene messa in discussione l’autorità di un superiore (rappresenta il 5% dei casi in Italia poiché è di difficile realizzazione).
- orizzontale: se esercitato tra colleghi di lavoro ovvero tra soggetti di pari grado o condizione (rappresenta il 45% dei casi in Italia);
- collettivo: quando è perpetrato da un gruppo di persone e spesso come strategia finalizzata ad eliminare dall’ambiente di un lavoro un soggetto o ad eliminarlo;
- esterno: riguarda il datore di lavoro, pressato da minacce o da comportamenti di pressioni ad opera di sindacati o di individui con ambizioni carrieristiche.
Infine a seconda degli ambienti in cui si verifica il mobbing si connota come lavorativo, familiare, scolastico e simili.
3. IPOTESI DI MOBBING NELL’AMBIENTE DI LAVORO.
Con specifico riferimento al mondo del lavoro l’ipotesi più frequente è il così detto Mobbing verticale o Bossing o mobbing pianificato. Si tratta di una forma di vessazione strategica ovvero programmata dall’azienda o dai vertici dirigenziali come strategia volta alla riduzione, al ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure più semplicemente alla eliminazione della persona indesiderata. La finalità specifica di tale condotta mobbizzante dell’autore è quella di indurre il dipendente divenuto “scomodo” a rassegnare le dimissioni salvaguardandosi dal rischio di incorrere in azioni di natura sindacale. «Le modalità attraverso cui tale strategia viene posta in essere, sono molteplici ma tutte tendono alla creazione, intorno alla persona da eliminare, di un’aura di tensione insopportabile, alimentata da minacce reiterate, rimproveri, atteggiamenti severi, talvolta anche da sabotaggi di difficile dimostrazione, provenienti dai vertici della dirigenza. In tale pratica persecutoria, qualsiasi errore commesso dal dipendente, anche una mera distrazione nella compilazione di un modulo, può diventare, per il datore di lavoro, uno strumento di persecuzione psicologica» . L’effetto di tali pratiche di sopruso è di provocare nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psicologico che spesso sfocia nell’insorgere di malattie psicosomatiche, quali disturbi di adattamento e, nei casi più gravi, disturbi post-traumatici da stress. A titolo esemplificativo, la psicologia del lavoro, ha individuato alcuni atteggiamenti tipici del mobbing come idonei a colpire il lavoratore menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso. Tali possono essere il caso tipico della reiterazione di richiami e di sanzioni disciplinari, la sottrazione di benefits o di vantaggi precedentemente attribuiti al lavoratore, ridurne o aumentarne repentinamente ed inaspettatamente il carico di lavoro o assegnare lo svolgimento di mansioni inferiori o inadeguate rispetto alla propria posizione all’interno dell’azienda, o infine di isolarlo fisicamente attraverso il trasferimento in uffici deserto o in sedi distaccate e disagevoli . Tutte queste pratiche devono presentare sempre i caratteri della ripetitività e continuità nel tempo.
Nella pratica e alla luce delle numerose pronunce giurisprudenziali, il mobbing si può ravvisare in alcune situazioni ormai tipiche, quali: demansionamento, trasferimento immotivato, relegamento del lavoratore in luoghi isolati ed inadeguati, continui richiami verbali senza alcuna motivazione, sanzioni disciplinari abnormi e pretestuose, molestie sessuali e licenziamento illegittimo e simili .
A proposito del demansionamento va specificato che la c.d. dequalificazione professionale può essere ricondotta oltre che al mobbing anche all’ipotesi definita come straining che si differenzia dal primo, in quanto in questa fattispecie, enucleata dalla giurisprudenza, è sufficiente che via sia anche una singola azione che abbia effetti duraturi nel tempo, come è nel caso di demansionamento/dequalificazione professionale. Ciò significa che mentre il mobbing è caratterizzato dalla ripetitività e protrazione temporale delle aggressioni (ovvero di una pluralità di azioni) con intento persecutorio lo straining si concretizza in una sola azione stressante e ostile, che ha una durante costante e dalla quale scaturisca un effetto negativo nell’ambiente di lavoro.
Il mobbing strategico/bossing, è il più diffuso e anche il più pesante per il lavoratore e per l’azienda stessa che lo pone in essere. Ciò poiché simili “strategie vessatorie” generano diseconomie all’interno dell’azienda, cagionando danni alla salute per i dipendenti, danni all’immagine della stessa azienda sia all’interno (generando malcontento tra i lavoratori) che all’esterno della stessa. Infatti, come confermato dai più accreditati studi sul fenomeno, è stato appurato che il lavoratore sottoposto a continue e pesanti pressioni psicologiche rende l’80% in meno delle proprie capacità divenendo un costo eccessivo. L’azienda, per rimuovere il problema, sarà costretta a sostituirlo o a farlo coadiuvare, gravando il proprio bilancio di maggiori costi. Inoltre, se a seguito delle vessazioni subite il prestatore promuove vittoriosamente un giudizio per mobbing dimostrando anche l’insorgenza in sé di una patologia psicosomatica dovuta a tali azioni, il datore di lavoro sarà condannato al risarcimento dei danni e nei casi più gravi, se la patologia viene riconosciuta come malattia professionale, anche ad un indennizzo o pensione di invalidità, nonché al pensionamento anticipato, con conseguenti riflessi economici negativi sulla produttività aziendale, sugli istituti di previdenza e assistenza sociale, e sul sistema sanitario nazionale, con riflessi sull’intera collettività.
Quanto alla vittima, è stato dimostrato nelle fattispecie concrete come, spesso il danno psico-fisico cagionato dalle sofferenze subite dal lavoratore produce delle conseguenze irreparabili atteso che chi, non riesce a resistere alla persecuzione degli attacchi del bossing, viene ridotto in uno stato di tale prostrazione che, pur dimettendosi e cercando un altro impiego, non riuscirà mai a recuperare a pieno la propria capacità lavorativa e non sarà mai più in grado di rendere al massimo delle proprie risorse.