lavoroprevidenza

giovedì 4 febbraio 2010

Risarcimento non dovuto per infortunio di gioco

Articolo di Corrado Spina (Avvocato del Foro di Salerno).
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L’infortunio durante un’azione di gioco di una gara agonistica non determina alcun risarcimento per l’autore del fallo. Così si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza n. 22811 del 6 ottobre 2009 e depositata il successivo 28 ottobre.

Durante un incontro di calcio, un atleta era intervenuto su un avversario da tergo, spingendolo e determinando la caduta a terra. A seguito della stessa il calciatore aveva riportato la frattura della mandibola che aveva reso necessario un intervento chirurgico maxilo-facciale. In giudizio il convenuto contestava la volontarietà dell’intervento sostenendo la causa del mero incidente di gioco. Il Tribunale rigettava la domanda dell’attore e la Corte di Appello confermava tale decisione, la Corte di Cassazione chiamata a dirimere la controversia non modificava le pronunce precedenti. Per la Cassazione vi fu un normale fallo di gioco “di per sé inidoneo a cagionare la frattura della mandibola, mentre quest’ultima fu causata dalla caduta e non dal fallo”. In altri termini la spinta all’avversario fu astrattamente idonea a causare la caduta, ma non il danno che risulta riconducibile alla caduta. La sentenza ci da lo spunto per analizzare la responsabilità civile nello sport. All’uopo ci viene in soccorso una recente decisione della Corte di Appello di Roma , la quale sostiene che “i danni eventualmente sofferti dai partecipanti rientrano nell´alea normale e ricadono sugli stessi”, cioè chi partecipa ad attività sportive accetta anche l’alea del rischio. E’ così “il normale fallo di gioco è un evento prevedibile in una partita di calcio” ; tale fattispecie costituisce ormai la tesi ricorrente e dominante .
L’esercizio dell’attività sportiva quindi può comportare il verificarsi di danni fisici agli atleti e su tale elemento va verificato la responsabilità di colui che ha determinato l’evento, pertanto bisogna chiedersi quale sia il fondamento giuridico che legittimi la pratica sportiva.
La responsabilità sportiva assume varie connotazioni, a seconda della rilevanza della condotta lesiva posta in essere. In primo luogo assume notevole importanza la responsabilità civile, strettamente connessa al risarcimento del danno patito dal soggetto leso dalla condotta. In tale fattispecie diventa complesso individuare il soggetto civilmente responsabile dei danni cagionati nell’espletamento di una attività sportiva. Inoltre, qualora la condotta del civilmente obbligato assuma una rilevanza particolare, come una fattispecie costituente reato, si avrà anche una responsabilità penale dell’autore.
La responsabilità penale opera tutte le volte in cui il comportamento lesivo integri gli estremi di una fattispecie penalmente rilevante. Questa ipotesi si verifica a seguito di contatto fisico tra gli atleti, allorquando la condotta dello sportivo degenera in un atto illecito. Pertanto il problema è di individuare il rapporto tra colpa sportiva e colpa ordinaria all’interno di quei comportamenti sportivi che prevedono per la loro peculiarità il contatto fisico (si pensi al calcio, rugby, pugilato). Il limite di tali situazioni è determinato dal rischio consentito, in altre parole l’elemento che consente di stabilire se il comportamento tenuto dell’atleta è da considerarsi un semplice illecito sportiva, applicando una sanzionare disciplinare sportiva, o un atto penalmente perseguibile, in quanto l’uso della violenza abbia superato i limiti delle regole di gioco . Su tale principio notevole sia Giurisprudenza che Dottrina non sono univoche, in quanto è sempre difficile dimostrare quando il fatto lesivo rientra nel rischio consentito e quando invece è una condotta violenta. Inoltre, da questo stallo non ci aiutano gli artt. 50 e 51 del Codice Penale , ovvero le scriminanti; cioè quelle fattispecie che di volta in volta permettono di considerare la condotta lecita, in quanto esiste un consenso dell’avente diritto e l’agente esercita un diritto, e quelle che non prevedono una condotta codificata, per cui il comportamento sfocia nella violenza. Una tesi, seguita da dottrina e giurisprudenza , stabilisce che ci troviamo nell’ambito del rischio consentito ogni qualvolta si determinano falli da gioco non volontari. Per essere chiari, l’atleta non è responsabile dei danni cagionati nel commettere un fallo a condizione che l’azione fallosa non è volontaria e non superi il limite del rischio consentito.
In tale contesto si colloca una famosa pronuncia della Suprema Corte , che ha confermato l’assoluta illiceità del ccdd. “fallo a gamba tesa” e la conseguente inapplicabilità delle scriminanti previste dagli artt. 50 e 51 c.p.
La Giurisprudenza opera una distinzione al fine si stabilire quando il contatto fisico nell’ambito del gioco possa ritenersi lecito e quando invece superi tale confine .
In ogni caso l’orientamento della Suprema Corte è quello di valutare i fatti con un notevole rigore, anche al fine di limitare il dilagarsi della violenza in uno sport molto seguito come il calcio . All’uopo si ricorda la decisione del Tribunale di Trento, con la quale non si applicava la scriminante ex art. 51 c.p., allorquando la gara era utilizzata come mero pretesto per porre in essere una condotta violenta nei confronti dell’avversario .
Un ulteriore limitazione alla responsabilità sportiva è costituta dal concorso di colpa, il quale si determina ogni volta in cui il comportamento della vittima, come quello del soggetto attivo della lesione, derivi da una violazione delle ordinarie regole di prudenza e diligenza. In tale fattispecie si applica l’art. 1227 co. 1 c.c. , in base la quale la colpa dell’attore, per quanto piccola, può essere sottratta dal fardello del convenuto.
In riguardo alla responsabilità dell’atleta va valutata la sua condotta qualora possa arrecare danno ad altri atleti o terzi. Tuttavia essa è strettamente collegata al rispetto delle regole di gioco da parte dello sportivo medesimo. In altre parole, i regolamenti sportivi prevedono una serie di comportamenti alle quali deve uniformarsi la condotta dell’atleta, cioè contemperare le esigenze della gara con la tutela dell’integrità fisica dei partecipanti. Tale duplicità di interessi comporta anche una distinzione, come fa la dottrina, tra gli sport a violenza necessaria, quali Boxe, Karate, Judo, gli sport a violenza eventuale, quali Calcio, Basket, Rugby e gli sport tendenzialmente senza violenza, quali Tennis, Sci, Pallavolo.
In queste fattispecie bisogna verificare le situazioni in cui il danno causato all’avversario superi il rispetto delle norme relative a quel determinato sport.
Ulteriore valutazione va posta in riferimento alle lesione cagionate nel corso di una gara e quelle inferte in un allenamento. In quest’ultimo caso, proprio la mancanza di agonismo e l’assenza del risultato sportivo da conseguire, viene richiesto un maggiore rispetto per le regole sportive con un innalzamento della soglia di prudenza.
Per concludere la responsabilità dell’atleta è legata al mancato rispetto delle regole sportive ma anche all’utilizzo di un agonismo esasperato.

avv. Corrado Spina
Professore a contratto Università degli Studi di Salerno


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