giovedì 16 aprile 2009
Il valore sociale della retribuzione
Prof. Sergio Sabetta
“ La nostra percezione delle variazioni improvvise dipende dalla scala temporale adottata per osservare questi processi” ( Rubì )
Già in un articolo apparso in “Economia & Management”, ed. Etas del marzo-aprile 2006, a firma di Barbara Imperatori dal titolo “Ricompensa ed equità: problema antico e nuova sfida manageriale”, si affermava la necessità non solo di una maggiore sofisticazione dei sistemi retributivi, ma anche di una riflessione sul crescere della complessa gestione dell’equità quale corollario diretto della frammentazione retributiva a seguito del presunto collegarsi della stessa alla qualità produttiva individuale.
Giustamente si osserva che ciascuno definisce il proprio ruolo lavorativo e i propri comportamenti anche attraverso il confronto con gli altri e in questo rientra, tra l’altro, l’aspetto retributivo.
L’aumento della personalizzazione dell’offerta crea il rischio di distorsioni percettive e di una serie di sensazioni di frustrazione e di iniquità di trattamento, che vengono ad intaccare il contratto psicologico tra la persona e l’organizzazione, si ha la formazione di una percezione di ingiustizia organizzativa sia in termini di equità distributiva che di equità procedurale, ossia di formazione e variazione nel tempo del livello retributivo.
Si parla quindi della necessità di recuperare e valorizzare nel tempo la quota di retribuzione fissa al fine di ottenere un rapporto equilibrato, ma anche di investire nella comunicazione interna per ottenere una condivisione della logica di distribuzione.
Se certamente è una questione etica e come tale viene riconosciuta apertamente da tutti, i premi concessi e la retribuzione goduta da colui che avendo danneggiato l’azienda se ne allontana senza penalità, sì da giustificare reazioni aggressive dei dipendenti vista la passività sociale e le conseguenze di azioni deresponsabilizzate su di loro scaricate, non altrettanto può negarsi il formarsi di un problema etico, ossia di valori condivisi ( Dewey), e quindi di un problema di giustizia organizzativa connessa ai fondamenti della vita sociale, nel rapporto di valore tra le retribuzioni di vertice e quelle di base.
Vi è di fatto una valutazione implicita dell’importanza che ciascun membro dell’organizzazione ha all’interno della stessa, questo avviene sia in termini di potere che di apporto di capacità lavorative, pertanto non può ridursi in un mero calcolo utilitaristico a breve secondo una pura concezione meccanicistica alla Bentham.
Spencer insegna che vi è un adattamento progressivo dell’uomo alle sue condizioni di vita mediante il ripetersi delle esperienze, questo deve indurci a non sganciare l’aspetto retributivo dalla giustizia organizzativa, il differenziare sproporzionatamente le retribuzioni porta nell’ipotesi di crisi ad una rivolta interiore che solo per la mancanza di un collante può non trasformarsi in disordini, come al contrario estremamente demotivante è l’appiattimento retributivo.
Deve esservi quindi un contratto psicologico interno che comprenda anche l’aspetto retributivo, ossia la percezione di valore e sua sostituibilità che ciascun ruolo possiede all’interno dell’organizzazione e tale contratto deve avere trasparenza nell’organizzazione stessa.
Solo l’utile è direttamente collegato al capitale investito, tutto il resto è valutabile tra le parti e giudicabile dalle stesse, pertanto la retribuzione sebbene collegata al potere possiede una valenza maggiore rapportata al concetto sociale di giustizia esistente al momento e quindi contrattabile e adattabile, ma mai arbitraria.
Bibliografia
• A. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, Torino 1974;
• A. Bausola, L’etica di John Dewey, Milano 1960;
• A. Vilsaberghi, Esperienza e valutazione, Torino 1958.