martedì 10 febbraio 2009
Tipo e natura della responsabilità in fattispecie di “mobbing”
Su gentile concessione dell´autore Avv. Stefano Spinelli (Avvocato in Cesena e Collaboratore della Rivista LavoroPrevidenza.com) abbiamo il piacere di pubblicare l´articolo, a Sua firma, dal titolo:
Tipo e natura della responsabilità in fattispecie di “mobbing” (Sentenze n. 4774 e n. 12.445 del 2006 – ed altre – della Suprema Corte).
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L´articolo - ci segnala l´autore - è pubblicato anche su "Il Lavoro nella Giurisprudenza", IPSOA, fasc. 7, 2007, p. 667 ss.
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Abtract:
La fattispecie giuridica “mobbing” non ha autonomia normativa ed è di origine prettamente giurisprudenziale. E’ pertanto di tutta evidenza l’importanza che – in detta situazione – assumono i pronunciamenti del Giudice di Legittimità in materia. Il contributo vuole essere un excursus sui primi delineamenti strutturali che il “mobbing” sta assumendo nel panorama giurisprudenziale della Corte di Cassazione, con particolare riferimento alle sentenze 4774/2006 e 12445/2006, ma anche a quei recenti interventi che contengono riferimenti indiretti o obiter dictum, comunque importanti, relativi alla fattispecie. Si analizza quindi la sua riconduzione all’art. 2087 c.c. ed alla responsabilità contrattuale, con riguardo al secondo binomio oggettivo tutelato (la personalità morale del prestatore di lavoro); si propone una precisa distinzione tra atto illecito ed atto offensivo; si approfondisce il problema dell’imputabilità della responsabilità e del riparto dell’onus probandi; nonché della risarcibilità di danni non patrimoniali (art. 2059 c.c.) in presenza di responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.).
PREMESSA: PRIMI DELINEAMENTI DELLA FATTISPECIE GIURIDICA “MOBBING”
Come è noto, la fattispecie – oramai universalmente conosciuta ed accettata, anche giuridicamente, come – “mobbing” , non ha autonomia normativa, non ha una sua propria definizione precettiva o regolamentazione giuridica nell’ambito dell’ordinamento vigente.
Si tratta di fattispecie di origine prettamente giurisprudenziale, in virtù della quale i Giudici di Merito hanno cominciato a sanzionare, in via prevalentemente risarcitoria, un fenomeno già esistente in ambito lavorativo (ed assurto a rilevanza sociale), attraverso l’utilizzo di un duplice “strumento” normativo (l’art. 2087 c.c., in combinato disposto con l’art. 32 Cost.; e/o l’art. 2043 c.c.) e di una duplice emersione di responsabilità (contrattuale e/o extracontrattuale).
E non è un caso che sia l’art. 2087 sia l’art. 2043 possano definirsi norme “a fattispecie aperta”, in quanto non delineano in maniera tassativa i “casi” compresi nella tutela giuridica accordata, lasciando all’interprete definire – in maniera più o meno estesa – i confini della tutela (anche in relazione all’acquisizione di avvertite nuove esigenze di tutela): obbligo “contrattuale” di adozione delle “… misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; obbligo “aquiliano” di risarcimento per “qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto…”
E, a ben vedere, la novità dal punto di vista giuridico consiste proprio nell’aver trasfuso in termini e strutture – appunto – giuridiche, una nozione tratta da altre discipline ed applicata al campo delle relazioni umane nell’ambiente di lavoro.
Non è che prima della presa di coscienza da parte degli operatori giuslavoristi della nuova fattispecie non esistesse tutela rispetto ai singoli comportamenti datoriali illeciti che oggi si definiscono potenzialmente mobbizzanti (licenziamento illegittimo, trasferimento ingiustificato, dequalificazione, sanzioni disciplinari illegittime, singole violazioni contrattuali, lesioni personali, offese e ingiurie…).
Solo che prima – appunto – detti “illeciti” venivano perseguiti “singolarmente” (artt. 7 e 18 Statuto Lavoratori; art. 8 L. 604/66; art. 2103 c.c.; artt. 1176 e 1375 c.c.; artt. 590, 594 e 595 c.p.; per citarne alcuni…), ciascuno in relazione alla propria specie, alla propria disciplina (anche inerente alla prescrizione) ed ai propri effetti (reintegratori, ripristinatori, sanzionatori, risarcitori, penali), in una visione frantumata e atomistica della dinamica lavorativa.
La peculiarità del tentativo compiuto dai Giudici di Merito, nel delineare la nuova fattispecie giuridica, si ritiene rinvenibile proprio nella riconduzione ad unità di un insieme di comportamenti “potenzialmente offensivi”, illeciti o meno, o comunque – come si dice in materia con termine a-tecnico – di “attacchi” subiti dal lavoratore, valutati in una prospettiva “dinamica” e “globale” e non meramente “statica”, in considerazione del collante rappresentato dal medesimo “intento persecutorio” del datore di lavoro (volto a provocare l’allontanamento e comunque l’esclusione, anche psicologica o morale, del primo dall’ambiente lavorativo) .
E’ questa unitarietà di intenti e volontà che fa sì che comportamenti datoriali, di regola anche “neutri” (ossia di per sé non illeciti e non vietati, come può essere, per esempio, il fatto di escludere il lavoratore da promozioni o aumenti di stipendio o di privarlo di ‘benefit’ o privilegi), possono assumere le caratteristiche della “violenza psicologica”, se – appunto – riconducibili a tale intento vessatorio “ad excludendum” in senso lato, e perpetrati in modo sistematico e continuativo .
Difatti, nella ricostruzione “giuridica” della fattispecie attuata dai Giudici di Merito, sono stati individuati alcuni caratteri essenziali del “mobbing”: la reiterazione della condotta mobbizzante, la sua durata nel tempo, la sua rilevanza ed idoneità offensiva . Deve peraltro dirsi che recentemente si è sviluppato un orientamento che pone l’accento, più che sulla ripetitività della condotta, sulla sua intensità lesiva e perdurante nel tempo .
Comunque, ciò che qui si vuol sottolineare è che, nella giurisprudenza in materia, si è partiti dal piano “fenomenico” (dall’analisi del fenomeno esistente in ambito lavorativo) e si sono “ricercati” gli strumenti giuridici considerati “idonei” ad apprestare una adeguata tutela alla fattispecie desunta dal substrato meta-giuridico.
E’ pertanto di tutta evidenza l’importanza che – in detta situazione – assumono i pronunciamenti del Giudice di Legittimità in materia.
Questo breve scritto vuole essere un excursus sui primi delineamenti strutturali che la fattispecie “mobbing” sta assumendo nel panorama giurisprudenziale della Corte di Cassazione.
Si fa qui riferimento, in particolare, alle sentenze del 06.03.2006, n. 4774 (Presidente: Mercurio; Estensore: Miani Canevari), e del 25.05.2006, n. 12445 (Presidente Ciciretti; Estensore: De Luca), le prime – a quanto mi è dato sapere – che affrontano in maniera specifica, con riferimento agli strumenti normativi utilizzabili nella specie, il tema sul tipo e sulla natura della responsabilità derivante da fatti di “mobbing”. Ma ci si riferisce altresì anche ad altre sentenze della Suprema Corte, intervenute recentemente, che contengono riferimenti indiretti o obiter dictum, comunque importanti, relativi alla fattispecie del “mobbing”.
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SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE N. 4774 DEL 6 MARZO 2006
Un primo problema è – ovviamente – quello “definitorio”.
Le recenti sentenze della Cassazione avallano l’individuazione della fattispecie “mobbing”, così come enucleata dai Giudici di Merito.
In particolare, la Suprema Corte, nella citata pronuncia 4774/2006, definisce il “mobbing” e la relativa responsabilità .
Peraltro, essa conferma la sentenza impugnata della Corte di Appello di Venezia, che aveva escluso la configurabilità di una fattispecie di “mobbing” nei comportamenti aziendali protratti nel tempo che – seppur corrispondenti singolarmente e astrattamente a comportamenti leciti – sarebbero stati (nella prospettazione del ricorrente) caratterizzati da intenti persecutori e finalizzati all’emarginazione del lavoratore (trasferimento già accertato con sentenza come illegittimo; serie di visite ripetute di accertamento di idoneità fisica in breve tempo; privazione dell’uso del terminale; irrogazione di una sanzione disciplinare; attribuzione di note di qualifica ‘insufficiente’).
La Suprema Corte, pur rigettando, ha così avuto modo di precisare:
“Le circostanze esaminate acquistano rilevanza ai fini dell’accertamento di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 c.c.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”.
Affermato il principio, la Suprema Corte conclude che la sentenza impugnata ha seguito i criteri suddetti ed ha escluso, con congrua motivazione, la configurabilità di un disegno persecutorio realizzato con i comportamenti elencati.
Ma l’incipit affermato dalla Cassazione è di notevole significato giuridico, in quanto con esso si dà una sorta di “imprimatur” alla fattispecie enucleata sinora dai Giudici di Merito.
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FATTISPECIE E CARATTERISTICHE
Si “vara” la fattispecie giuridica “mobbing” come possibile fonte di tutela risarcitoria per le conseguenze dannose ad essa collegate.
E la si vara con l’indicazione di caratteristiche ben precise, che possono così sintetizzarsi.
a) Riconducibilità della fattispecie “mobbing” all’art. 2087 c.c. e dunque alla responsabilità cd. “contrattuale” , ovverosia a responsabilità per l’inadempimento di una obbligazione sancita in un rapporto giuridico preesistente (quello lavorativo), fonte di diritti, obblighi, poteri e soggezioni.
In tal senso, la fattispecie rappresenta (non la violazione della regola di condotta, valida generaliter, del neminem laedere, bensì) la violazione da parte del debitore (del rapporto) di un dovere “specifico” di prestazione originato e insito nell’ambito dello stesso rapporto obbligatorio .
b) Scissione tra illecito “contrattuale” (inadempimento della prestazione di adozione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore) e singoli inadempimenti di specifici obblighi contrattuali .
In questo senso, l’art. 2087 c.c. diventa “norma aperta”, rinvia ad un contenuto che – per quanto chiaro in relazione all’oggetto della tutela (la persona, nella sua unitarietà fisica e morale) – non è già individuato – quanto a prestazione da adempiere – mediante la tipicità degli obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro.
Si verifica in materia una sorta di “recupero” all’interno della responsabilità contrattuale di categorie giuridiche proprie della responsabilità extracontrattuale , nel senso che anche detta norma viene intesa (al pari dell’art. 2043 c.c.) come una regola contrattuale “primaria” che individua un obbligo “generale” di sicurezza (non meramente ricognitivo di presupposti obblighi rinvenibili nell’ordinamento giuridico). Detto obbligo può desumersi da ogni altra possibile regola esistente sul piano normativo – contrattuale (comportamento contra jus), la cui violazione potrebbe peraltro non essere sufficiente, secondo la valutazione “concreta” del Giudice, ad integrare la fattispecie; oppure, viene rimesso alla valutazione “concreta” del Giudice, anche in assenza di violazione di altre regole comportamentali .
In quanto “regola primaria”, dunque, l’art. 2087 c.c. è esso stesso in grado di individuare l’illecito contrattuale, indipendentemente dal rinvio ad altri obblighi “specifici”.
Esso, così interpretato, viene quindi a prevedere un obbligo contrattuale amplissimo e slegato da singoli obblighi specifici: quello di astenersi dal compiere (ed anche attivarsi per impedire, come meglio si vedrà) ogni comportamento con caratteristiche di offensività che possa (idoneo a) recar danno all’integrità fisica ed alla personalità morale del lavoratore, salva la prova dell’esclusione da responsabilità per impossibilità della prestazione per causa non imputabile ex art. 1218 c.c.
Ed infatti è rimessa alla valutazione giudiziale (secondo la tipologia della “norma aperta”) l’individuazione di quei comportamenti datoriali illeciti, comunque dotati di “idoneità offensiva”, ed anche di quelli che – seppure leciti – tuttavia presentino “caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione” (come meglio si vedrà).
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LE INNOVAZIONI DESUNTE DALL’ART. 2087 C.C.
In primo luogo, va sottolineata la profonda innovazione contenuta in questa interpretazione dell’art. 2087 c.c. atta a comprendere fattispecie di “mobbing”.
La norma è nata essenzialmente come obbligo di rispetto, da parte del datore di lavoro, delle singole norme antinfortunistiche specifiche.
Poi, è stato affermato che, per adempiere al precetto normativo, non è sufficiente rispettare la legislazione “tipica”, dovendo invece il datore di lavoro adottare tutte quelle misure di sicurezza – anche non specificatamente previste dalla legge – suggerite comunque dallo sviluppo dell’esperienza e della tecnica (si rimane sempre nell’ambito di un obbligo di sicurezza ricondotto a violazione di singole regole di comportamento, desunte dalla legge e/o dalla prassi e dalla tecnica: i cosiddetti standard di sicurezza, individuati sulla base del rischio specifico di infortunio che si intende evitare) .
Si può anche aggiungere che – sinora – la norma ha quindi avuto una applicazione sostanzialmente “limitata” alla configurabilità di obblighi riconducibili alla tutela del primo dei due beni oggetto di tutela (l’integrità fisica).
Ora, si dice ancora qualcosa di più.
Si individua un obbligo “generale” di sicurezza, comprendente il divieto di ogni possibile condotta (non predeterminabile a priori – ché, può assumere le forme più varie ed inusitate – ed anche lecita), sulla base della sua intrinseca idoneità “offensiva” e quindi “lesiva della personalità morale del lavoratore” (e, come conseguenza, incidente principaliter sulla sua “integrità psichica”, anche se ovviamente non esclusivamente, potendo dalla condotta offensiva e lesiva derivare qualunque tipo di danno, patrimoniale e/o non patrimoniale).
Si pone dunque l’accento sul secondo aspetto del bene tutelato, la personalità morale; e, quale principale conseguenza, sulla lesione della integrità psichica che ne derivi; in connessione, peraltro, con quanto disposto dall’art. 41, comma secondo, della Costituzione, secondo il quale la libertà economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; ed anche dall’art. 2 della Carta Fondamentale, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo “nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”.
Si svincola la fattispecie contrattuale illecita dall’inadempimento di obblighi contrattuali specifici, lasciandosi “aperta” l’individuazione dell’obbligo, mediante la valutazione “concreta” della condotta datoriale posta in essere, in relazione alla sua caratteristica offensiva della persona ed al relativo grado di aggressione al bene tutelato.
Rispetto al secondo binomio tutelato dall’art. 2087 c.c. (personalità morale del prestatore di lavoro), non esiste una normazione “tipica” di prevenzione e protezione (come nel caso delle regole comportamentali, anche desunte dall’esperienza, a protezione dell’integrità fisica del lavoratore).
L’obbligo di sicurezza, in tal caso, si sostanzia nel rispetto sic et simpliciter dello stesso bene protetto, e l’inadempimento dell’obbligo si verifica in presenza di “modalità” e “caratteristiche” della condotta, tali da fare ritenere quest’ultima lesiva rispetto al bene tutelato (idoneità offensiva).
La lesione della personalità morale del lavoratore pare qui rappresentare non tanto l’evento, quale conseguenza non voluta dalla finalità della norma (come la lesione dell’integrità fisica del lavoratore: scopo perseguito mediante il rispetto di singole regole di comportamento, desumibili da legge, contratto o esperienza).
Essa funge, soprattutto, da criterio per individuare il contenuto concreto dell’obbligo, consistente – appunto – nel divieto di compiere e/o nell’impedire – in via generale – qualsiasi condotta dotata di “idoneità offensiva” e, per questo, “lesiva della personalità”.
L’individuazione dell’oggetto tutelato (interesse protetto) è, al tempo stesso, anche l’individuazione dell’obbligo contrattuale (condotta da adempiere).
In altre parole: una volta definito che cosa si intenda per rispetto della personalità morale del lavoratore e – di conseguenza – in cosa consista il nucleo di valori in cui si sostanzia l’interesse protetto, si avrà correlativamente anche il criterio per individuare la condotta inadempiente all’obbligo contrattuale, se ritenuta in grado di aggredire detto nucleo.
Si potrebbe dire che un certo grado di lesione del bene, in misura più o meno evidente, è elemento sempre essenziale della condotta inadempiente, che – per essere tale – deve essere in qualche modo offensiva (e partecipare dunque alla realizzazione della lesione) .
In sostanza, la cernita delle condotte inadempienti dell’obbligo contrattuale verrà operata utilizzando il criterio della sussistenza della lesione dell’interesse protetto (ossia quelle ritenute connotate da valenza offensiva e quindi incidenti negativamente sulla personalità morale del lavoratore verso il quale si indirizzano) .
Una volta poi individuata la sussistenza dell’inadempimento ed escluse cause di in-imputabilità, si valuteranno i danni patrimoniali o non patrimoniali (biologici, morali, esistenziali) – con particolare riguardo, ovviamente, all’integrità psichica – prodotti e risarcibili .
Si può quindi dire che l’inserimento della fattispecie “mobbing”, entro i confini della previsione di sicurezza in ambito lavorativo, amplia il contenuto della norma primaria e ne modifica – come si diceva – la portata, nel senso che la valutazione dell’inadempimento si sposta dalla prestazione pretesa a tutela dell’integrità fisica, alla lesione del bene tutelato della personalità morale.
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IL PRESUPPOSTO DELL’INDIVIDUAZIONE DELL’INADEMPIMENTO
In secondo luogo, pare qui opportuno precisare che la prima problematica posta dalla nuova fattispecie giuridica di “mobbing”, quale illecito contrattuale, è rinvenibile proprio nel piano presupposto dell’individuazione stesso dell’inadempimento.
Buona parte della disamina giuridica su detta fattispecie si è incentrata e si sviluppa sull’aspetto relativo all’imputabilità della responsabilità ed al connesso onere probatorio.
In realtà, si ritiene che – poiché la responsabilità del debitore si fonda sull’inadempimento e trova un limite nell’impossibilità non imputabile della prestazione – la prima analisi da apprestare sia quella concernente l’individuazione dell’obbligo contrattuale da rispettare ed il cui inadempimento è fonte – appunto – di responsabilità, da imputarsi, poi, secondo i criteri definiti dal nostro codice.
Ora, nel momento in cui si scinde l’obbligo contrattuale di sicurezza del lavoratore da singoli obblighi specifici posti dall’ordinamento, non vi è possibilità di individuazione del contenuto concreto dell’obbligo, se non attraverso l’analisi delle modalità di aggressione al bene tutelato.
Ed è quello che fa la Suprema Corte, la quale – al fine di dare un oggetto definito all’illecito contrattuale – parte dalla “lesione del bene protetto” e dalle sue “conseguenze dannose”, la cui sussistenza – dice – “deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro” .
Non essendoci legislazione “tipica” che attui in via generale e preventiva una valutazione di corrispondenza potenziale tra comportamento e lesione dell’interesse tutelato (protezione del bene), questa stessa valutazione è lasciata in concreto al Giudice in via singolare e successiva.
E la Suprema Corte tenta poi di enucleare i criteri attraverso cui potersi dimostrare detta idoneità offensiva della condotta, circoscrivendo l’ambito dell’inadempimento.
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RICONDUCIBILITÀ DELL’INADEMPIMENTO DELLA PRESTAZIONE ALLA “IDONEITÀ OFFENSIVA” DELLA CONDOTTA.
La sentenza precisa, innanzitutto, che un mero comportamento contra jus non è di per sé stesso integrativo della fattispecie lesiva dell’obbligo di sicurezza. Viceversa un comportamento lecito potrebbe assumere caratteristiche tali da farne uno degli elementi integrativi della fattispecie.
E qui sta il busillis .
Quale criterio dovrà seguire il Giudice per stabilire l’idoneità offensiva di un comportamento?
E’ interessante il ragionamento della Suprema Corte, là dove afferma che non rileva ai fini dell’indagine sull’esistenza concreta di una ipotesi di “mobbing” l’accertamento definitivo dell’illegittimità del trasferimento subito dal dipendente per mancata comunicazione dei motivi giustificanti, in quanto “nulla è stato dedotto dal ricorrente in ordine agli elementi probatori acquisiti in quel procedimento… che avrebbero potuto dimostrare il carattere persecutorio – nei termini sopra indicati – dell’azione del datore di lavoro”.
Ciò significa che una condotta contra jus non necessariamente è riconducibile ad una ipotesi di “mobbing” (la mancata comunicazione dei motivi del trasferimento potrebbe essere una mera dimenticanza del datore oppure anche una effettiva inesistenza di valide giustificazioni comportanti l’illegittimità del trasferimento, ma senza possedere automaticamente anche l’idoneità mobbizzante nei confronti del lavoratore, per esempio se costituisce episodio circoscritto).
Ma come risalire viceversa alla offensività della condotta?
La Suprema Corte tenta una risposta: “l’idoneità offensiva della condotta… può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”.
Certo, un elemento fortemente indicativo è il ripetersi della condotta sfavorevole al lavoratore (“sistematicità e durata dell’azione nel tempo”).
Ma dall’analisi della decisione della Suprema Corte, pare necessaria altresì una “oggettività intrinseca” della condotta, che deve attuarsi con modalità, forme, caratteristiche offensive e, meglio, connotarsi per il proprio carattere persecutorio, discriminatorio, emulativo, pretestuoso…
E difatti, con riguardo al caso concreto, non si è ravvisato “mobbing” nella mera “sommatoria” di condotte, alcune delle quali illecite, tutte comunque sfavorevoli al lavoratore.
Si è invece ricercato, per ciascuna di esse, il “carattere vessatorio” delle stesse (si è già detto come sul trasferimento illegittimo non sia stato rinvenuto alcun “carattere persecutorio”; le visite mediche di idoneità fisica, ravvicinate nel tempo, non sono state ritenute di per sé rilevanti, in assenza di “precise circostanze idonee a dimostrare – anche sotto questo profilo – il carattere vessatorio dell’iniziativa del datore di lavoro”; analogo rilievo è stato avanzato con riferimento alla mancata abilitazione all’accesso del dipendente ai terminali, ricondotto – nel giudizio di merito – a suoi problemi di continuità nella funzione di inserimento dati; per quanto riguarda la sanzione disciplinare poi annullata, la Corte non ravvisa “alcuna contraddizione tra la illegittimità del provvedimento e la negazione della possibilità di iscrivere tale episodio in un disegno persecutorio, sulla base di un apprezzamento delle concrete circostanze di fatto”).
Su questo può rilevarsi che è sicuramente da apprezzare il tentativo di discernere – appunto – i comportamenti offensivi per il loro carattere “oggettivamente” vessatorio, tali da farli ritenere potenzialmente idonei ad essere ricondotti ad (ed inseriti in) un medesimo disegno persecutorio; tali da essere quindi potenzialmente idonei a ledere l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; distinguendoli da quelli – invece – inoffensivi ed anche illeciti ma inidonei ad offendere la persona.
Sotto altro aspetto andrebbe però precisato meglio il riparto dell’onus probandi in relazione alla intrinseca connotazione offensiva della condotta, attraverso i singoli comportamenti e provvedimenti in cui detta lesione si sostanzia (come si vedrà meglio in seguito, a commento della successiva sentenza).
In particolare, ed in prima analisi, si ritiene che non possa essere addossata al lavoratore la prova dell’elemento soggettivo del comportamento datoriale e – nella fattispecie – del “disegno persecutorio” e specialmente del “dolo finalistico” del datore di lavoro; e quindi della sua precisa volontà ad excludendum .
In sostanza, si ritiene che l’idoneità offensiva della condotta – richiesta dalla Suprema Corte – non possa e non debba rinvenirsi all’interno dell’elemento soggettivo dell’agente , quanto essere insita nella stessa condotta oggettiva posta in essere, la quale – per sue proprie connotazioni – assuma aspetti lesivi della personalità morale.
Affinché la condotta datoriale sia illecita non occorre – si ritiene – che il lavoratore provi l’esistenza di una effettiva persecuzione o vessazione nei suoi confronti, bensì che il datore di lavoro abbia tenuto – o non abbia impedito – comportamenti nei suoi confronti, oggettivamente dotati di forza lesiva ed aggressiva della sua sfera morale; ossia “la prova degli elementi essenziali della fattispecie (esclusa la dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale) deve essere fornita dal lavoratore” , e non è poco; spetterà al debitore provare la causa non imputabile e quindi di aver agito con la diligenza richiesta in relazione agli strumenti a disposizione ed in sostanza o negare i comportamenti tenuti o non impediti, oppure “giustificarli”, negando loro il carattere di discriminazione, pretestuosità, emulazione.
Nella fattispecie affrontata dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, pare di poter dire che le mancanze probatorie da essa rilevate si riferiscano effettivamente a connotazioni della condotta, mancante – appunto – di elementi sufficienti a caratterizzarle come offensive.
Anche se – ad onor del vero – in alcune parti la sentenza sembra scivolare nella richiesta di prova della esistenza della persecuzione e/o vessatorietà nei confronti del lavoratore, e finire per addossare a quest’ultimo detta prova (mentre, si ritiene che il datore di lavoro avesse l’onere di provare – per stare ai fatti citati in sentenza – la “necessità” di visite mediche di idoneità fisica così ravvicinate nel tempo – fatto già di per sé “anomalo” e quindi potenzialmente offensivo – dovute, ad esempio, a specifici episodi accaduti, comportanti un dubbio di idoneità; oppure che il dipendente avesse problemi con l’uso del terminale; oppure ancora che il trasferimento, pur in mancanza di motivazioni comunicate, fosse però legato ad esigenze effettive e reali; e che la sanzione annullata non fosse comunque pretestuosa ma avesse comunque dei riscontri oggettivi, seppure dimostratisi erronei… Ma probabilmente così è stato, non conoscendosi qui gli atti del processo).
Ciò che preme qui sottolineare – e che pare aver messo in evidenza la sentenza in commento – è la necessità di una connotazione “offensiva” e “vessatoria” della condotta, al di là ed oltre la sua stessa illiceità.
Si propone quindi una precisa distinzione tra “atto illecito” ed “atto vessatorio”.
Il primo contra jus.
Il secondo (indipendentemente dalla sua antigiuridicità, e quindi anche lecito, ma) pretestuoso, discriminante, emulativo.
Si ritiene che la scelta dei suddetti termini – pur nella loro stringatezza e schematicità – da parte della Suprema Corte non sia stata casuale.
In sostanza, per esemplificare, si ritiene che atto vessatorio sia quello che, indagato concretamente, sia sostanzialmente privo di giustificazione, immotivato, contraddittorio rispetto ad altri atti e/o comportamenti datoriali ed ad altre finalità perseguite, determinante disuguaglianza tra situazioni analoghe, comunque illogico e/o irrazionale, oppure assunto solo ed esclusivamente in funzione di arrecare danno…
Non sfugge la corrispondenza dell’indagine in concreto proposta con gli schemi d’indagine propri dell’eccesso di potere nel vaglio del provvedimento amministrativo (a garanzia del buon andamento delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 97 della Costituzione).
Ed invero, si potrebbe recuperare in ambito civilistico, ai nostri fini, il “criterio dell’abuso di potere o di sviamento di potere”, trattandosi pur sempre dell’esercizio di un potere datoriale – appunto – abusivo e/o sviato, ossia ultroneo e/o comunque non corrispondente alle finalità per le quali il potere è disposto.
Con riferimento a categorie civilistiche, invece, paiono utilizzabili gli artt. 1175 e 1375 c.c., caratterizzandosi, il comportamento contrattuale inadempiente in oggetto, per un esercizio di poteri e facoltà datoriali connotate da scorrettezza e mala fede (collegandosi così il contenuto della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. e della responsabilità in genere ex art. 1218 c.c. , con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c. )
In conclusione, si può dire che mentre atto illecito è quello che anche astrattamente risulta contra jus; invece, per atto abusivo o vessatorio può intendersi quello che, pur esercitato nell’ambito di un diritto, un potere, una facoltà, una libertà, un interesse legittimo, ad un vaglio in concreto risulta non adeguato e non conforme oppure ultroneo rispetto alla finalità ed alla funzione per cui quelle situazioni giuridiche soggettive e potestà sono astrattamente attribuite ai soggetti agenti.
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SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE N. 12445 DEL 25 MAGGIO 2006
L’imputabilità della responsabilità; cosa si intenda per impossibilità della prestazione per causa non imputabile; la prova di quest’ultima; e, in generale, chi debba provare cosa; questi sono tra i temi più dibattuti, non solo nella presente fattispecie di “mobbing”, ma nella applicazione dello stesso art. 2087 c.c.
Si è sopra detto che, nella fattispecie in oggetto, si ritiene occorra innanzitutto dar conto dell’inadempimento, mediante la prospettazione di una condotta datoriale lesiva della personalità morale del lavoratore, dal punto di vista materiale ed oggettivo, in quanto potenzialmente idonea a realizzare quell’“ambiente nocivo” in grado di determinare l’evento lesivo alla salute (e dunque “a rischio sicurezza”). In tal caso, si ritiene possa ritenersi configurato l’illecito contrattuale e la sussistenza dell’ipotesi risarcitoria contrattuale (salva la prova della non imputabilità).
Si è anche detto che non si ritiene necessaria, ai fini dell’inadempimento, dar conto dell’effettiva volontà vessatoria e/o persecutoria del datore di lavoro. Essa rientra nella configurabilità della fattispecie illecita, ma “in via presuntiva”, ossia dal punto di vista dell’elemento soggettivo (colpa o dolo del debitore), che per il combinato disposto dell’art. 2087 c.c. con l’art. 1218 c.c. risulta, per così dire, “assorbito” dal fatto stesso dell’inadempimento ; e rileva solo “in negativo”, ossia quale elemento in grado di escludere la responsabilità datoriale, in relazione all’individuazione di una causa non imputabile e quindi al fatto di aver agito con la diligenza richiesta e di aver adempiuto esattamente, ottemperando all’obbligo di sicurezza ed adottando tutte le misure di sicurezza necessarie (e per quanto qui concerne, o negando di aver tenuto o non impedito i comportamenti prospettati ed inadempienti, oppure “giustificandoli”, ossia negando loro – appunto – il carattere “offensivo” di discriminazione, pretestuosità, emulazione, dimostrando così l’insussistenza di qualsiasi volontà vessatoria).
La ricostruzione qui proposta appare compatibile con quanto enucleato dalla giurisprudenza della Suprema Corte in tema.
Una prima pronuncia, già richiamata, Cassazione, Sezione Lavoro, 8 gennaio 2000 n. 143 , dopo aver definito il “mobbing” come “l’aggredire la sfera psichica altrui” e dopo aver ricondotta la condotta inadempiente all’obbligo ex art. 2087 c.c. , ed a quei comportamenti “che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psicofisica dei prestatori d’opera subordinati”, afferma: “qualora da un siffatto comportamento derivi un pregiudizio per il lavoratore, implicante la lesione del bene primario della salute o integrante quel tipo di nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l’esistenza di un nesso causale fra il suddetto comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio che ne deriva”.
Ed aggiunge: “La prova degli elementi essenziali della fattispecie indicata (esclusa ovviamente la dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore” .
Si noti che la problematica non è affatto sconosciuta alla giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 2087 c.c.
Cassazione, Sezione Lavoro, 24 febbraio 2006 n. 4184, dopo aver premesso che sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo del neminem laedere espresso dall’art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale), afferma: “qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.), cosicché grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere ottemperato all’obbligo di protezione in argomento, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa” (richiama Cassazione, 21 dicembre1998 n. 12763).
La recente pronuncia prosegue l’orientamento secondo il quale l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
“Ne consegue che incombe sul lavoratore, che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro”.
“Solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” (Cassazione, 2 settembre 2003, n. 12789; Cassazione, 6 luglio 2002, n. 9856; Cassazione, 18 febbraio 2000, n. 1886; Cassazione, 3 aprile 1999, n. 3234, e altre).
Si potrebbe quindi sintetizzare in questo modo:
a) l’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di predisporre e adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, tra le quali rilevano anche quelle “innominate”, ossia non preventivamente individuate da disposizioni specifiche, nelle quali ultime possono ricondursi quelle a protezione delle aggressioni alla sfera psichica del lavoratore, dotate di idoneità offensiva e lesive della sua personalità morale;
b) nella individuazione della fattispecie illecita e del connesso inadempimento datoriale rileva la condotta offensiva nella sua materialità oggettiva, siccome valutata potenzialmente idonea alla lesione; e non l’elemento soggettivo della colpa e/o dolo del debitore, in quanto, per il combinato disposto dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare l’evento lesivo;
c) spetta al lavoratore la prova “degli elementi essenziali della fattispecie”, consistenti nel danno subito, nell’ambiente di lavoro nocivo (indipendentemente dal fatto che detta nocività sia addebitabile a colpa o dolo del datore di lavoro, il che rileva sotto l’aspetto dell’imputabilità, essendo sufficiente l’esistenza di detta nocività, non impedita dal datore di lavoro), nonché nel loro rapporto di causalità;
c1) per quanto riguarda la presente fattispecie, si è già visto come la sentenza della Cassazione 4774/2006 abbia individuato l’esistenza di un ambiente nocivo, in presenza di una condotta anche lecita (rientrante in facoltà, potestà, diritti) ma connotata da forme e modalità attuative lesive della persona, anche in relazione alla reiterazione di più atti sfavorevoli al lavoratore, assunti anche in violazione di disposizioni normative e/o contrattuali ;
d) interessante è l’analisi dell’onus spettante al datore di lavoro, consistente nel “provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile”, per cui a volte si parla di “prova di aver ottemperato all’obbligo di protezione”, altre volte di “prova di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento” e che ha registrato in giurisprudenza un diverso grado di attuazione, a seconda della necessità di adozione di ogni misura “astrattamente” idonea ad evitare l’evento, oppure di misure “specifiche” di sicurezza normalmente adottate in concreto;
d1) per quanto riguarda la presente fattispecie, si ritiene che l’onus datoriale comprenda sia la “negazione” della condotta tenuta o non impedita, mediante la giustificazione degli atti assunti, di tal che se ne provi o la legittimità o l’insussistenza della apparente valenza discriminatoria, pretestuosa, emulativa; sia l’apprestamento di ogni iniziativa adeguata a “prevenire” l’evento lesivo .
e) interessante è anche l’analisi del rapporto di imputabilità al datore di lavoro di condotte concretamente poste in essere da terzi e della “adeguatezza” di misure adottate nei loro confronti.
Su questi ultimi due punti è intervenuta la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 12445 del 25 maggio 2006, qui in commento.
Essa interviene ad “armonizzare” la disciplina dell’art. 2087 c.c., adattandola alla nuova fattispecie di “mobbing”.
Dunque riprende gli orientamenti giurisprudenziali sull’art. 2087 c.c. ed aggiunge infine un quid novi di non poca importanza.
In sostanza, essa ribadisce la riconducibilità della fattispecie di “mobbing” alla responsabilità contrattuale di cui all’art. 2087 c.c.
Richiama la presunzione legale di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c. a carico del datore di lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza, in parziale deroga al principio generale ex art. 2697 c.c. che impone a “chi vuol far valere un diritto in giudizio” l’onere di provare i “fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Non potendosi però ricondurre la fattispecie ad una ipotesi di responsabilità oggettiva, “il lavoratore danneggiato resta gravato dell’onere di provare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall’onere probatorio a carico del lavoratore – in deroga, appunto, allo stesso principio generale – la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento)”.
Spiega efficacemente: “la prova sull’imputazione materiale e su quella psicologica del danno – anziché essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore) danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento – risulta ripartita, in ipotesi di responsabilità contrattuale appunto, tra lo stesso lavoratore (ed, in genere, creditore) e, rispettivamente, il datore di lavoro (ed, in genere, il debitore)”.
La sentenza distingue poi il contenuto dei suddetti oneri probatori anche a seconda che le misure di sicurezza siano espressamente e specificatamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (art. 2087 c.c.) che impone l’obbligo di sicurezza (è evidente che per quanto qui riguarda la presente fattispecie rientra nella seconda ipotesi).
“Nel primo caso – di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, nominate – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – cioè il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: negazione cioè dell’obbligo o comunque dell’inadempimento – in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione)…”
“Nel secondo caso – di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, innominate – fermo restando l’onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita i relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile – nella predisposizione di quelle misure di sicurezza – e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni… tra l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare l’adozione di ogni misura idonea ad evitare l’infortunio dedotto in giudizio… oppure soltanto l’adozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe”.
Ciò che si può rilevare è che, nell’adattare le conclusioni giurisprudenziali concernenti la disciplina di cui all’art. 2087 c.c. alla nuova disciplina meta-giuridica del “mobbing”, si avverte come uno “scollamento”, dovuto al fatto – ovviamente – della mancanza, in questo secondo caso, di qualsivoglia standard di sicurezza adeguabile alla fattispecie, sia per la mancanza di previsioni specifiche in materia, sia per la mancanza di esperienza e di conoscenze sperimentali che possano offrire un utile riferimento al Giudice in ordine al sindacato di “adeguatezza” sulle eventuali misure apprestate.
Ciò è tanto è vero che, sinora almeno, nelle sentenze, anche di merito, la prova del lavoratore e quella liberatoria si sostanziano, entrambe, di regola, nella dimostrazione o meno dell’esistenza di una condotta vessatoria.
Venendo ora alla parte “novativa” della sentenza in commento, va rilevato come, applicando i principi affermati, essa giunga ad una conclusione che si inserisce proprio nel “vuoto” di “criteri” utilizzabili, in sede di individuazione delle misure di sicurezza, a cui si accennava sopra.
In prima istanza, si precisa che “il datore di lavoro è responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che – secondo la giurisprudenza di questa Corte… - si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevedibilità”.
La precisazione è essenziale nella fattispecie in oggetto, ove il comportamento materiale posto in essere spesso non è direttamente imputabile al datore di lavoro, ma a suoi sottoposti e/o dipendenti.
Sul punto, esiste già un obiter dictum da parte della Suprema Corte, nella sentenza del 23 marzo 2005, n. 6326.
A fronte di una accertata situazione non solo di demansionamento ma di “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi determinanti “una situazione lavorativa quanto mai difficile, in quanto i rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati particolarmente tesi, ed il lavoratore era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitisi nel tempo e di cui era certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero” (episodi “sostanzialmente confermati nel corso dell’istruttoria espletata”), la sentenza ritiene inconsistenti i rilievi del datore di lavoro, volti a sostenere l’estraneità agli episodi accennati “in quanto imputabili ai collaboratori”.
Essa rileva infatti che “per la molteplicità degli episodi, a conoscenza di un funzionario anche di un certo rilievo – che non si era adoperato perché tali comportamenti vessatori cessassero – non solo i responsabili aziendali non potevano non essere a conoscenza di tali fatti, ma essi erano pienamente coinvolti dai comportamenti scorretti dei loro collaboratori”.
Dall’affermazione si desume che a nulla rileva che le condotte materiali siano poste in essere da colleghi della vittima, in quanto quel che rileva è unicamente che il datore di lavoro sapesse ovvero potesse sapere (in relazione a quel comportamento diligente e privo di colpa il cui onere spetta al debitore) quanto stava accadendo.
Tornando alla sentenza 12445/2006 in commento, l’inadempimento all’obbligo, attuato, oltre che mediante l’omissione di adozione di misure, anche mediante l’omissione di controllo e vigilanza sull’applicabilità di quelle misure (principio affermato in relazione al comportamento del dipendente, ma estensibile a tutto l’ambito di riferimento dell’attività datoriale, e dunque anche a chi, lungi dall’adoperarsi per evitare un danno ad un collega, agisca invece in suo danno), ben si attaglia alla fattispecie in oggetto .
L’omissione di controllo richiamata è idonea – si ritiene – a risolvere in modo ancor più drastico la già citata frequente eccezione relativa alla non conoscibilità da parte del datore di lavoro di condotte vessatorie da parte di uno o alcuni lavoratori nei confronti di un altro, più o meno subordinato; non conoscibilità, che non pare dunque sufficiente ad escludere la responsabilità datoriale, nella prospettiva delineata dell’omissione di controllo, almeno sin quando non venga addotta assieme alla prova – ad esempio – dell’apprestamento di idonei e stabili sistemi di rilevazione delle situazioni ambientali lavorative “critiche” .
Ciò premesso, la sentenza della Corte n. 12445/2006 conclude affermando che, al fine di esimersi da responsabilità, non basta al datore di lavoro dimostrare generiche iniziative “repressive”, dovendo egli agire invece “in via preventiva” per evitare l’evento lesivo.
“Né lo stesso datore di lavoro assolve l’onere della prova liberatoria – che, per quanto si è detto, è posto a suo carico – in quanto, lungi dall’allegare (e, tantomeno, dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, si limita alla deduzione di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei probiviri, del responsabile dei fatti mobbizzanti), volta alla repressione – non già alla prevenzione – degli stessi fatti mobbizzanti, che – come è stato accertato, con autorità di giudicato – hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”.
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POSTILLE SU ALCUNI ASPETTI SPECIFICI IN TEMA DI “MOBBING” AFFRONTATI DALLA SUPREMA CORTE: RISARCIBILITÀ ED AMBITO DEL DANNO NON PATRIMONIALE
Per concludere questa disamina, pare opportuno affrontare alcuni altri aspetti affrontati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di “mobbing”.
A) Si è sopra detto che dalla condotta lesiva della personalità morale del lavoratore deriva in via primaria un danno di carattere psichico o morale.
E’ evidente che – a seconda delle modalità vessatorie – può derivare un danno alla salute dalle conseguenze anche permanenti, un danno professionale, un danno all’immagine ed alla vita di relazione, il cd. danno esistenziale…
Detti eventi-conseguenza, che riguardano la persona in sé e per sé considerata e all’interno delle formazioni sociali in cui essa si sviluppa, prescindono da ripercussioni di carattere strettamente patrimoniale (come quando al danno professionale si accompagni una perdita retributiva; oppure al danno all’immagine si accompagnino le dimissioni da un incarico sociale…) ; conseguenze queste ultime che – nella maggior parte dei casi – non si verificano, per quanto riguarda la fattispecie illecita in esame.
A questo punto, risulta importante – allora – verificare la risarcibilità di danni non patrimoniali (considerati nell’art. 2059 c.c.), in presenza di responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.).
Occorre preliminarmente verificare anche l’ambito di tutela del “danno non patrimoniale”, attesa la sua risarcibilità, per il combinato disposto dell’art. 2059 c.c. con l’art. 185 c.p., soltanto nel caso in cui esso derivi da un fatto illecito costituente reato, tanto che – proprio per tale ragione si è tradizionalmente limitata l’interpretazione della norma come riferibile solo al cd. “danno morale soggettivo” o sofferenza “interna” intesa come stato d’animo della vittima (al fine di rendere possibile il riconoscimento e la liquidazione di altri danno non patrimoniali “per altre vie”, come è avvenuto per il danno biologico, considerato danno evento, o per il danno professionale, anch’esso danno rinvenibile in re ipsa nella stessa dequalificazione).
Sulla base di detto orientamento tradizionale, peraltro, la giurisprudenza si è sempre orientata nel negare che fosse risarcibile tale danno (non patrimoniale) allorquando la responsabilità fosse affermata sulla base di una presunzione di legge o del riconoscimento di una responsabilità solo contrattuale, per la quale opera il richiamato regime probatorio di cui all’art. 1218 c.c.
Orbene, si ritiene che, oggi, la questione possa essere risolta unitariamente e nel senso di riconoscere la risarcibilità di “ogni” tipo di danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona costituzionalmente garantito, anche a seguito di illecito contrattuale, nella specie ex art. 2087 c.c. per fattispecie di “mobbing”.
Non si ritiene questa la sede per una disamina approfondita della materia (che richiederebbe ben altro spazio), riportandosi qui le conclusioni della giurisprudenza.
Per quanto riguarda l’ambito di tutela del danno non patrimoniale, si segnala la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, del 26 settembre – 10 gennaio 2007 (Presidente: Senese; Relatore: De Matteis), che fa opportunamente il punto della situazione.
Essa richiama “l’innovativo orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale ha rilevato, a partire dal 2003, che il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della Legge Fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”.
La sentenza richiama le sentenze della Suprema Corte n. 8827 ed 8828 del 31 maggio 2003.
Detta evoluzione del pensiero giuridico è stata prontamente recepita dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale con la sentenza 11 luglio 2003 n. 233 .
Sotto il secondo aspetto (risarcibilità dei danni non patrimoniali in ipotesi di illecito contrattuale ed in particolare alla responsabilità presuntiva ex art. 2087 c.c.), deve segnalarsi la sentenza della Corte di Cassazione del 24 febbraio 2006 n. 4184 (Presidente: Sciarelli; Relatore: Picone).
Essa parte dall’interpretazione più recente della Corte, con riferimento alla riconducibilità, per così dire “di ritorno”, di tutte le voci non patrimoniali nell’alveo dell’art. 2059 c.c.; nonché dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sull’art. 2059 c.c. che “deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito all’astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge” .
Quindi conclude: “In presenza di una fattispecie contrattuale che, come appunto il contratto di lavoro, obblighi uno dei contraenti (il datore di lavoro) a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica dell’altro, non può esistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, siccome la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.” .
SEGUE: LA PROVA DEL DANNO NON PATRIMONIALE
B) Sulla necessità di provare il danno non patrimoniale (con riguardo alle singole ipotesi di danno professionale e perdita di chance, danno biologico e quello cd. esistenziale) sofferto dalla vittima di un illecito datoriale (con specifico riguardo ad un caso di demansionamento), seppure anche mediante prova per presunzioni, si è espressa la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, nella sentenza 6572 del 14 marzo 2006 (Presidente: Carbone; Estensore: La Terza).
La sentenza, che ha avallato l’orientamento più rigoroso che si era formato sul punto , pare avere una applicazione un poco più elastica e sfumata, con riferimento proprio alle presunzioni.
Così, Corte di Cassazione, sentenza n. 14729 del 26 giugno 2006, ha deciso: “In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito… può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto”.
SEGUE: DEMANSIONAMENTO IN SITUAZIONE DI GLOBALE COMPORTAMENTO ILLECITO
C) Infine, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 6326 del 23 marzo 2005, si è pronunciata in merito ad una fattispecie di “mobbing” negando che la successiva qualificazione in tal senso dell’illecito dedotto con la domanda iniziale (demansionamento attuato in una situazione di globale comportamento illecito del datore di lavoro) possa comportare domanda nuova.
“Qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sin dall’atto introduttivo la lesione della propria integrità psico-fisica in relazione, non solo al demansionamento, ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come mobbing del suddetto comportamento, non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del mobbing e della sua riconduzione (anche secondo la sentenza 359 del 2003 della Corte Costituzionale) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore”.
Avv. Stefano Spinelli
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NOTE A PIE´ DI PAGINA.
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Addirittura dall’etologia… Lo svedese Heinemann mutuò per primo il termine dall’etologia per applicarlo alle relazioni umane, in relazione a quel fenomeno di comportamenti violenti tra bambini a scuola – purtroppo in questi giorni sulle prime pagine dei giornali – che si preferisce chiamare col termine “bullismo”.
Il termine come oggi è conosciuto proviene dalla psicologia del lavoro. Al Leymann si deve la prima definizione organica della nozione di mobbing applicata ai comportamenti vessatori in ambito lavorativo.
In Italia, la diffusione del termine è dovuta ad Harald Ege, che ha proposto anche una “Valutazione peritale del danno da mobbing”, Giuffrè, 2002.
Se mi è permessa una analogia tratta da altra disciplina, direi che la situazione è equiparabile alle “più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso” di cui al reato continuato, in cui le singole violazioni costituiscono parte integrante di un unico programma, deliberato fin dall’inizio nelle sue linee essenziali, per conseguire un determinato fine.
Molti dei disegni e progetti di legge presentati in tema di “mobbing” sanzionano i “comportamenti persecutori che assumono le caratteristiche della violenza psicologica”, per tali intendendosi quelli “che mirano a danneggiare il lavoratore” “in modo offensivo e vessatorio” e “svolti con carattere sistematico e duraturo”.
La prima pronuncia, ove si fa esplicitamente riferimento al fenomeno “mobbing”, è la sentenza del Tribunale di Torino del 16.11.1999 (est. Dott. Ciocchetti). La prima ricostruzione in termini giuridici della fattispecie tratta dalla psicologia del lavoro, peraltro ottenuta con l’ausilio di un Consulente Tecnico nominato sul punto, la si riscontra nella sentenza del Tribunale di Forlì del 15.03.2001 (est. Dott. Sorgi). Sul tema si vedano, tra le altre: Tribunale Pisa, 03.10.2001 (est. Dott. Nisticò); Corte di Appello di Salerno, 17.04.2002 (est. Vignes); Tribunale Venezia 15.01.2003 (est. Ferretti); Tribunale di Pinerolo 06.02.2003 (est. Reynaud); Tribunale Ravenna 04.02.2003 (est. Riverso); Tribunale Tempo Pausania 10.07.2003 (est. Ponassi); nonché Tribunale Milano, 31.07.2003; Tribunale Trieste, 10.12.2003 (est. Dott. Carlesso); Tribunale Bari, 20.02.2004 (est. Dott. Rubino); Tribunale Milano, 29.06.2004 (est. Atanasio); Corte d’Appello di Torino, 25.10.2004 (est. Dott. Fierro); Corte di Appello di Firenze, 29.10.2004; Tribunale di Forlì, 28.01.2005 (est. Dott. Sorgi); Tribunale Agrigento, 01.02.2005 (est. Dott. Gatto); Tribunale La Spezia, 01.07.2005…
E’ stata recentemente proposta una ulteriore lettura della fattispecie illecita produttiva di danno risarcibile, denominata “straining”.
Quest’ultimo si differenzia dal “mobbing” per la mancanza – tra i criteri oggettivi di riconoscimento della fattispecie – della “frequenza idonea delle azioni mobbizzanti”; cosicché verrebbe in rilievo anche “un solo grave episodio vessatorio con effetti durevoli e costanti nel tempo” (come nel caso di un demansionamento con isolamento ed inattività): Tribunale Bergamo, 21.04.2005 (est. Dott.ssa Bertoncini).
Anche Corte di Cassazione, Sezione VI penale, con la sentenza 21.09.2006 n. 31413, ha avuto modo di formulare una definizione di “mobbing”: “In primo luogo, la Corte di merito si è limitata a rilevare che la singolare vicenda oggetto del processo ‘si innestava nell’ambito’ del fenomeno sociale generalmente noto come mobbing (più specificatamente: bossing), fenomeno non ancora previsto in modo specifico né nella nostra legislazione né nella contrattazione collettiva, ma, tuttavia, già esaminato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità e consistente in ‘atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con carattere sistematico e duraturo’. Proprio questa giurisprudenza – ha sottolineato la Corte di Appello – implicava chiaramente ‘la possibilità del travalicamento dei confini meramente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing con la integrazione di ipotesi di reato’. In realtà la giurisprudenza ha già acquisito che può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato”.
Sulla riconduzione della fattispecie “mobbing” alla responsabilità contrattuale si veda già Cassazione, Sezioni Unite, del 04.05.2004 n. 8438, nonché – più recente – Cassazione, Sezioni Unite del 12.06.2006 n. 13537; entrambe, in tema di individuazione della giurisdizione in ipotesi di “mobbing”.
Mentre la responsabilità extracontrattuale è una obbligazione che si costituisce ex novo, la responsabilità contrattuale nasce all’interno di un rapporto obbligatorio già costituito, nel quale inserisce un obbligo di risarcimento del danno in luogo del, o accanto al, dovere primario di prestazione. L. MENGONI, Responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enciclopedia del Diritto, XXXIX, 1988.
Come meglio si vedrà, una singola violazione di regola contrattuale potrebbe non essere sufficiente ad integrare la fattispecie di “mobbing”; mentre quest’ultima potrebbe rinvenirsi anche in assenza di violazione di obblighi contrattuali.
Ciò che conta – così dice la Cassazione – è la connotazione “offensiva” (“l’idoneità offensiva della condotta”) dei comportamenti tenuti.
Per quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale, richiamata in via analogica, è stata criticata la teoria che riconduce l’atto illecito alla violazione di regole tipiche, secondo la quale l’art. 2043 c.c. sarebbe norma secondaria, meramente sanzionatoria degli atti dannosi compiuti in violazione di doveri risultanti da altre norme di legge. Detta norma è stata qualificata “primaria”, in quanto pone essa stessa un dovere giuridico amplissimo: quello di astenersi da ogni comportamento che possa recar danno ad altri, salvo che il comportamento stesso sia giustificato (P. SCHLESINGER, La ingiustizia del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, p. 338. Si è poi sostenuto che il problema dell’illecito civile consiste principalmente nella valutazione comparativa di due interessi contrapposti: l’interesse altrui minacciato da un certo tipo di condotta e l’interesse che l’agente con quella condotta tende a realizzare. Compito del Giudice sarebbe pertanto quello di sceverare, sulla base del complesso dei criteri rinvenibili nell’ordinamento giuridico, la soluzione in concreto del conflitto degli interessi in gioco (sulla base, ad esempio, dell’accertamento di una condotta creatrice di un rischio ingiustificato anche se non diretta a nuocere). Si veda in materia P. TRIMARCHI, Illecito (diritto privato), in Enciclopedia del diritto, XX, 1970.
In ipotesi, così interpretato, l’art. 2087 c.c. lascerebbe aperta la possibilità di una responsabilità contrattuale, che potrebbe configurarsi anche in assenza di violazioni contrattuali specifiche.
In giurisprudenza, l’obbligo ex art. 2087 c.c. è stato inquadrato nell’ambito del generale dovere di collaborazione posto a carico del datore di lavoro (Cass., 5 aprile 1993 n. 4085). Pertanto detta norma è stata definita “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico, estensibile pertanto anche a quelle ulteriori cautele che appaiono utili ad impedire il verificarsi dell’evento non voluto ad anche a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione”.
Un trasferimento del dipendente, assunto senza motivazioni (per restare al caso esaminato dalla Suprema Corte), è sicuramente un comportamento illecito e non conforme agli obblighi contrattuali.
Potrebbe anche comportare conseguenze patrimoniali o non patrimoniali e lesione all’integrità psico-fisica.
Se ne può chiedere tutela giudiziale, sia in relazione all’annullabilità del trasferimento, sia in relazione al risarcimento dei danni se provati.
Ma non ci si trova di fronte ad una fattispecie di “mobbing”.
Perché ciò avvenga occorre che la condotta si manifesti con modalità aggressive della personalità morale del lavoratore.
Se il medesimo trasferimento avviene con forme offensive, per esempio senza alcuna comunicazione e magari al rientro da un periodo di assenza del lavoratore, in un ambiente “isolato” dai colleghi, senza l’apprestamento degli strumenti necessari al lavoro, con modalità “punitive”, come uno dei comportamenti adottati dal datore di lavoro e sfavorevoli al lavoratore, in quanto lesivi della sua dignità (se è seguito da contestazioni disciplinari infondate o pretestuose, oppure se è accompagnato dall’ordine rivolto ai colleghi di non intrattenere più rapporti con il dipendente trasferito), etc… allora la condotta può manifestarsi come inadempiente dell’obbligo ex art. 2087 c.c., in quanto lesiva della personalità morale del prestatore di lavoro (interesse protetto).
Di regola, sinora, la cernita delle condotte inadempienti all’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. viene operata in relazione alla mancata posa in essere di tutte quelle misure preventive, ricavabili dall’ordinamento e dalla tecnica, a protezione del bene tutelato (con particolare riferimento all’integrità fisica del lavoratore). Così, la lesione dell’integrità fisica rappresenta la conseguenza della condotta inadempiente, peraltro eventuale (potendo sussistere violazione di singole regole comportamentali di protezione, senza che si verifichi in concreto la paventata lesione non voluta). Difatti, l’individuazione della condotta vietata (e delle misure di sicurezza richieste) avviene attraverso una valutazione preventiva dei rischi specifici rispetto al bene salute. Anche in relazione alle misure di sicurezza cosiddette “innominate” (e quindi non preventivamente enucleate) la valutazione in concreto operata dal Giudice è legata alla loro idoneità, secondo l’id quod plerumque accidit (anche in ragione delle conoscenze tecniche acquisite) a determinare come conseguenza la lesione all’integrità fisica, di talché anche dette misure rientrano nel comportamento diligente e quindi esigibile dal datore di lavoro – debitore.
Il criterio di individuazione della condotta è legato in ogni caso alla sua potenzialità lesiva (rischio specifico).
Viceversa, una violazione dell’obbligo generale di sicurezza attuato mediante “mobbing” – la cui individuazione è ricondotta, come visto, alle modalità e caratteristiche “offensive” della condotta – non pare concepirsi senza sussistenza comunque anche della lesione dell’interesse protetto dalla norma, di cui al secondo binomio citato (lesione della personalità morale, accertata in sede di valutazione della violazione dell’obbligo, esistente solo in presenza di aggressione alla personalità).
In sostanza, è lo stesso carattere offensivo – e quindi lesivo della personalità morale del lavoratore – della condotta che riconduce l’ipotesi ad uno di quei comportamenti “a rischio” rispetto al bene salute (in tal caso, specialmente di quella “psichica”, ma non solo), e che configura l’inadempimento rispetto ad una di quelle misure di sicurezza cosiddette “innominate” (non predeterminate), la cui individuazione è rimessa – come si è detto – alla valutazione concreta del Giudice in ragione della loro potenzialità lesiva e della loro idoneità a determinare come conseguenza la lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore (intesa qui come evento-conseguenza non voluta).
La valutazione preventiva di rischio specifico e l’idoneità a ledere (secondo l’id quod plerumque accidit) è qui sostituita dalla offensività lesiva della personalità morale (e potenzialmente lesiva dell’integrità psico-fisica).
Non si vuole quindi, con questo, sostenere la risarcibilità diretta di un danno-evento.
Si vuole semplicemente sottolineare che, nella fattispecie in oggetto, la condotta vietata viene a coincidere con la lesione di uno degli interessi protetti dalla norma: in sostanza, si ha inadempimento e quindi violazione dell’obbligo contrattuale, quando la condotta “produce” la lesione non voluta.
Ora, vero è che quando la condotta attinge l’interesse protetto, si realizza quello che, utilizzando una formula conosciuta, può definirsi come danno evento.
Ma – è stato efficacemente precisato – “la lesione dell’interesse, il danno-evento, non è ancora danno da risarcire. Danno da risarcire, invece, è la perdita, patrimoniale o non patrimoniale, che la lesione dell’interesse determina: è la conseguenza di questa” (M. DI MARZIO, Danno esistenziale, ancora contrasti nonostante il “conforto” costituzionale, in D&G, 2005, p. 46 ss.).
Nella fattispecie, pur in presenza di condotta vessatoria ed offensiva, potrebbe non rinvenirsi alcun danno all’integrità psicofisica (cd. biologico) (in presenza, per esempio, di una personalità particolarmente “forte”).
Si ritiene invece che ogni ipotesi di mobbing – in quanto offensiva della personalità morale – contenga in nuce una conseguenza dannosa di carattere “morale” (così come tradizionalmente conosciuta di dolore psichico, interno alla persona, soggettivo), risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.
Secondo l’art. 1218 c.c. il debitore risponde dell’adempimento fino al limite dell’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, secondo la formulazione elaborata dalla pandettistica (F. MOMMSEN).
L’individuazione di questo limite è stato via via ricondotto al concetto naturalistico ed oggettivo di impossibilità (riferibile sempre al risultato della prestazione e non al comportamento strumentale del debitore); alla non imputabilità dell’evento che rende la prestazione impossibile (per cui contenuto dell’obbligo del debitore non è la prestazione, quanto un certo grado di diligenza nell’adempierla: teoria del “dovere di sforzo”); ai mezzi occorrenti per conseguire il risultato (per cui contenuto dell’obbligo è il risultato perseguibile con gli strumenti che fanno parte del contenuto del contratto, secondo una valutazione integrativa di buona fede, e non genericamente con tutti quelli possibili e sproporzionati); alla mancanza di colpa intesa come diligenza del buon padre di famiglia (l’art. 1218 c.c. non precisa il criterio di imputazione se non integrato con l’art. 1176 c.c.).
L. MENGONI, Responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enciclopedia del Diritto, XXXIX, 1988.
In tal senso si è sopra detto che la sussistenza della lesione del bene costituisce al tempo stesso anche la individuazione dell’obbligo, che si sostanzia in quella condotta connotata da idoneità offensiva e quindi lesiva della personalità morale del lavoratore (bene protetto).
Si perdoni il paragone con quello studente che invece di tradurre ‘in diebus illis’ cercò di tradurre ‘in die busillis’… arenandosi sull’ablativo ‘busillis’ (ovviamente inesistente)… Si vuole solo qui indicare il punto dolente della questione e – si ritiene – di più difficile soluzione, relativo alla configurabilità della fattispecie giuridica “mobbing”.
L’ipotesi pare prospettata nella sentenza del tribunale di Milano del 20 maggio 2000: “il fatto che il “mobbing” sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi l’esistenza e ne dimostri la potenzialità lesiva. (Nella specie, il Tribunale riformando la decisione di primo grado ha stabilito che l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di un’organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano esclude che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi. Solo tale carattere potrebbe rendere risarcibile un danno che – secondo esperienza comune – è davvero imprevedibile (art. 1225 c.c.) sia con riferimento all’oggettività dei fatti ritenuti lesivi, sia alle reattività del soggetto cui sono rivolti)”.
Innanzitutto, una precisa volontà in tal senso potrebbe non esserci (ed attuarsi “mobbing” solo per invidia o ripicca). Poi, se si dovesse ricondurre al lavoratore la prova del “medesimo disegno criminoso” che dovrebbe correlare gli uni comportamenti agli altri, ci troveremmo di fronte ad una sorta di vera e propria probatio diabolica, oggettivamente atta a “sopprimere” la nuova fattispecie sul nascere.
Una tale prova non si ritiene affatto richiesta dal nostro ordinamento giuridico, né con riferimento all’ipotesi di responsabilità contrattuale (che si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c., per cui, in caso di inadempimento – nella specie, omissione dell’adozione delle misure atte a tutelare il lavoratore – spetta al debitore provare la causa non imputabile;né con riferimento alla responsabilità extracontrattuale (per la quale è sufficiente la prova della colpa).
Il dolo viene in rilievo, in ambito di responsabilità contrattuale, ex art. 1225 c.c., solo al fine di estendere il risarcimento anche ai danni imprevedibili.
Ma, anche in tal caso, “per la configurabilità del dolo del debitore nell’inadempimento… è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione intenzionalmente” (Cass., 25.03.1987 n. 2899; Cass., 30.10.1984 n. 5566).
Pertanto se il datore è a conoscenza di episodi lesivi e dotati di idoneità offensiva (o – il che è lo stesso – non è incolpevolmente nelle condizioni di non conoscerli), e nulla fa per impedirli, determinando l’insorgere dell’inadempimento ex art. 1087 c.c., si ritiene verificata l’ipotesi di legge.
L’obiter dictum è contenuto in Cassazione, 8 gennaio 2000 n. 143, la quale ha per la prima volta parlato di “mobbing” qualificato come “l’aggredire la sfera psichica altrui”, ed ha proposto l’interpretazione “aperta”, e legata alla lesione della personalità morale, dell’obbligo ex art. 2087 c.c.: quest’ultimo “non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma… implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità psico-fisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l’oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori. Pertanto, qualora da un siffatto comportamento derivi un pregiudizio per il lavoratore, implicante la lesione del bene primario della salute o integrante quel tipo di nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l’esistenza di un nesso causale tra il suddetto comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio che ne deriva”.
Nel concreto, la Corte ha ritenuto che la mancata prova da parte del lavoratore degli elementi essenziali del fatto e del nesso causale giustificasse il sui licenziamento per giusta causa quale epilogo sanzionatorio intrapreso dal datore di lavoro destinatario di accuse relative ad una sua presunta condotta mobbizzante, appunto, non provata.
Il debitore risponde dell’inadempimento sino al limite dell’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile.
L’imputabilità a colpa del debitore dell’impossibilità di adempiere – per la dottrina tradizionale – è il contrario delle diligenza del buon padre di famiglia ed è esclusa per una causa in-imputabile sinonimo di causa in-colpevole, in breve, dal solo caso fortuito. La causa non imputabile è costituita da “quei fattori che, da un canto non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di poter adempiere, e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo”, Cass. 8 novembre 2002 n. 15712.
Di regola, infatti, può dirsi che la responsabilità contrattuale si fonda sul mero fatto dell’inadempimento, e quindi – in astratto – la cd. “colpa contrattuale” si risolve nel (e coincide con) l’inadempimento stesso.
Anche se poi – in concreto – la verifica del comportamento del debitore non conforme alle modalità dell’esatto adempimento implica una “condotta colpevole” che si ritiene rilevi, ai sensi dell’art. 1218 c.c., al fine dell’esimente dell’in-imputabilità.
La prima nella quale compare il termine “mobbing”.
“Detto obbligo – di cui all’art. 2087c.c. – non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma – come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari – implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità psicofisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l’oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori”.
E prosegue: “Di tal che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà, sempre presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta ed agli effetti asseritamene derivati, impedisce al giudice l’accoglimento della domanda”.
Questo aspetto, ovviamente, è oggetto dello specifico vaglio giudiziale “di merito”, che si ritiene debba essere valutato in stretta connessione con il danno prospettato e con la idoneità causativa “specifica” del primo rispetto al secondo (anche mediante eventualmente apposita CTU).
Deve rilevarsi che, sinora, le controversie giudiziali si sono sviluppate in prevalenza sulla sussistenza e/o insussistenza della condotta vessatoria, lasciando in secondo piano il dibattito in ordine all’individuazione delle misure datoriali di prevenzione adeguate (che invece sarebbe interessante affrontare).
Peraltro, il principio è stato affermato anche in relazione ad aggressioni conseguenti ad attività criminosa di terzi: “Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate, l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti impone l’adozione – ed il mantenimento – non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi… giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 c.c. e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro” (Cass. 22 marzo 2002 n. 4129).
In alcuni CCNL (penso al comparto Sanità) comincia a figurare l’obiettivo di costituire appositi Uffici di rilevazione di situazioni di “mobbing”.
Vero è che, nel momento in cui si liquida in via equitativa un danno non patrimoniale o un danno biologico si tiene normalmente conto – al fine di pervenire ad una “misura” appunto equa – anche della possibile maggiore o minore incidenza dell’evento, sulla “perdita” subita dalla persona considerata sotto tutti gli aspetti (le attività svolte dal soggetto, l’età, la sua personalità, la qualità dell’interesse colpito…) e quindi anche sotto quello funzionale alla sua capacità patrimoniale. Ma si tratta di una considerazione dell’aspetto patrimoniale assunta in via generale ed astratta secondo quello che può desumersi dall’id quod plerumque accidit in relazione ad aspetti particolari desumibili dall’analisi complessiva della persona lesa.
La Corte Costituzionale ha proposto “un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, alla integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Costituzione); sia infine il danno (spesso definito in dottrina e in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.
Con riguardo al fatto che alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato, si vedano anche Cassazione 7282 del 2003 e Cassazione n. 15044 del 2005.
La sentenza 4184 del 2006 in commento ha esteso il principio all’illecito ex art. 2087 c.c.
Sul punto, interviene anche la già citata Cassazione n. 238 del 2007.
Per un commento critico della sentenza si veda in questa Rivista, n. 7 del 2006, C. SORGI, Una lettura costituzionalmente disorientata dal danno non patrimoniale.