lunedì 22 dicembre 2008
Come si cancella in punta di piedi il principio di gratuità del processo del lavoro e previdenziale
Articolo di Domenico Carpagnano
Vista l’assenza assoluta di un qualche intervento critico (o di consenso) al riguardo, deve ritenersi che non ci sia alcuno che si sia accorto che, tra le 3370 leggi, “elencate nell’Allegato A” - che, ai sensi dell’art. 24 della l. n. 133/2008, saranno da considerare abrogate “a far data dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto” –sia stata anche (sotto la voce n. 1639) la n. 319 del 2.4.1958 (recante norme in tema di “esonero da ogni spesa e tassa per i giudizi di lavoro”) e cioè quella legge che, in ossequio ad un principio di civiltà giuridica, si è preoccupata di far sì che la situazione di debolezza economica del lavoratore (o del soggetto avente diritto ad una prestazione previdenziale o assistenziale) non funzioni da impedimento all’esercizio dei suoi diritti.
In sostanza, includendo la legge in un chilometrico elenco di disposizioni da abrogare (perché assolutamente inutili e dannose), il legislatore del 2008, con l’art. 24 della citata l. n. 133 - dimenticando (rectius: facendo finta di non ricordare: il che è ancora più grave) che, ai sensi dell’art. 3 Cost., 2° comma, è preciso “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, che, ai sensi dell’art. 24 Cost., “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” e “sono assicurati ai non abbienti, ..., i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione” e che, ai sensi dell’art. 111 Cost., “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo ...” e, soprattutto, “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità ...” - ha pensato bene di chiudere la porta delle Sezioni Lavoro degli Uffici Giudiziari (o, quantomeno, di ridimensionarle), per poter gridare, a gran voce, che, se i lavoratori non presentato più i ricorsi, è perché sono puntualmente soddisfatti nelle loro ragioni creditorie dai datori di lavoro e dagli istituti assicuratori.
Per porre rimedio a questa “chicca”, il Governo - non perché si sia ricreduto sull’inopportunità della scelta, ma solo perché ha acquisito consapevolezza di quanto sarebbe accaduto nel Paese, nel momento in cui l’inganno fosse venuto alla luce - ha incluso nel d.d.l. 1441-quater-A (approvato il 28.10.2008 dalla Camera dei Deputati ed oggi in discussione al Senato sotto il n. 1167), una norma (l’art. 67-bis), che, pur prevedendo la soppressione della “voce n. 1639 dell’Allegato A annesso al decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”, ha solo apparentemente ripristinato la situazione ex ante, visto che, al 2° comma, ha avuto cura di precisare che “all’articolo 13, comma 4, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, sono premesse le seguenti parole: "Per i processi di cui al titolo IV del libro II del codice di procedura civile e"”: il che, traducendo, equivale a dire che, ove mai questa disposizione dovesse essere definitivamente approvata anche dal Senato, chi volesse - per le controversie in materia di lavoro e di previdenza - rivolgersi al giudice, sarà tenuto a pagare, indipendentemente dal valore della causa, un contributo unificato in misura fissa pari a € 103,30 e cioè, quantomeno per le cause di minor valore, una somma addirittura superiore a quella che è tenuto a pagare ogni altro cittadino che voglia promuovere una causa civile di importo corrispondente.