lunedì 8 settembre 2008
Obbligo di “repechage” e limiti della causa petendi
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. lav., sentenza 17 dicembre 2007, n. 7949 – Giud. Alfano - Turco Francesca (avv. R. Ferrara) contro Centro Agro Aversano S.r.l. di FKT (avv. L. Ranieri)
annotata dal dott. Daniele Colucci - Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Foggia Sez. Lav.
Il “repechage” (ed il connesso onere probatorio), con il quale si esprime l´obbligazione posta a carico del datore di lavoro di adibire il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo in altre mansioni reperibili in azienda, di analogo livello professionale, sussiste nei limiti in cui il lavoratore deduca nell’atto introduttivo del giudizio la relativa possibilità di diversa collocazione lavorativa. (dr. Colucci)
TESTO DELLA SENTENZA.
* Segue nota di Daniele Colucci
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ritualmente notificato alla controparte Turco Francesca, premesso di aver lavorato alle dipendenze del Centro Agro Aversano S.r.l. di FKT a decorrere dal 8.4.1991 “con mansioni di massokinesiterapista presso i centri di Aversa e Trentola Ducenta”, deduceva: che in data 27.6.2006 “riceveva lettera AR con la quale le veniva richiesta la produzione di un attestato per lo svolgimento delle mansioni suddette”; che, a detta richiesta essa istante rispondeva rilevando la pretestuosità della stessa; che, successivamente riceveva lettera raccomandata del 7.9.2006 che così recitava “facendo seguito alla nostra del 27.7.06 e alla sua del 5.08.2006, nostro malgrado siamo costretti a interrompere il rapporto di lavoro con decorrenza immediata dal 11.9.2006, in dipendenza da parte Sua di requisiti soggettivi, presupposto indispensabile all’espletamento della mansione di massokinesiterapista da Lei svolta presso il nostro centro …”; di aver impugnato tale licenziamento con lettera a/r del 14.9.2006; che tale licenziamento è nullo, illegittimo ed inefficace in quanto: intimato in violazione delle garanzie previste dall’art. 7 della L. 300/70 stante la natura disciplinare dello stesso; comminato in violazione dell’art. 2106 che sancisce il principio di proporzionalità tra la condotta colposa e la sanzione irrogata; perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo.
Sulla base di tali premesse, rappresentando di aver esperito con esito infruttuoso il prescritto tentativo obbligatorio di conciliazione, adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere al fine di sentir dichiarare la nullità, invalidità, illegittimità ed inefficacia dell’impugnato licenziamento, nonché condannare la società convenuta a reintegrarla nel posto di lavoro in precedenza occupato con tutte le conseguenze anche risarcitorie di cui all’art. 18 L. 300/70 ovvero dichiararsi la continuità giuridica del rapporto intercorso tra le parti con condanna della convenuta al pagamento di tutte le mensilità di retribuzioni maturate e maturande dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettivo ripristino, vinte le spese del giudizio, con attribuzione.
Si costituiva il Centro Agro Aversano S.r.l. di FKT, che, sulla base di plurime ed articolate argomentazioni sia in fatto che in diritto, contestando la fondatezza della domanda, chiedeva il rigetto del ricorso con vittoria delle spese di lite.
Acquisita la documentazione prodotta, ritenuta superflua ogni attività istruttoria, all’udienza del 6.12.2007 la causa veniva decisa come da separato dispositivo pubblicamente letto in udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è infondata.
Ritiene parte ricorrente che il licenziamento in esame ha natura ontologicamente disciplinare con la conseguente applicabilità delle regole stabilite dall’art. 7 della L. n. 300 del 1970 concernenti la contestazione dell’addebito, l’esercizio del diritto di difesa, il rispetto del termine dilatorio di cinque giorni.
La qualificazione attorea non è condivisibile.
Devesi innanzitutto rilevare che, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, il licenziamento ha natura disciplinare allorché il motivo posto alla base dello stesso attiene ad una condotta di natura dolosa o colposa o, comunque, manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione tra le misure disciplinari nella specifica regolamentazione del rapporto.
Nel caso in esame, come chiaramente evincibile dalla comunicazione del recesso, la società convenuta non ha fatto riferimento ad un’inadempienza della dipendente in ordine all’espletamento delle sue mansioni o ad un comportamento, di qualunque genere, tenuto dalla stessa nell’ambito del rapporto e contrario ai doveri fondamentali del lavoratore, o costituente violazione dell’etica comune, cioè delle norme del vivere civile radicate nella collettività.
Nella lettera di licenziamento, infatti, si legge che il rapporto di lavoro è stato fatto cessare a causa della mancanza in capo alla ricorrente dei requisiti soggettivi indispensabili all’espletamento della mansione di massokinesiterapista.
La fattispecie va, pertanto, inquadrata nell’ambito del giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge n. 604/66.
Ciò posto, si osserva che la Suprema Corte ha avuto modo ripetutamente di affermare che in tema di licenziamento, sulla base di una corretta interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il giustificato motivo oggettivo deve identificarsi nelle vicende e/o negli eventi che, per l’incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro. Rientrano nel suddetto ambito sia i licenziamenti intimati in relazione all’insorgenza di specifiche esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro, sia i licenziamenti che traggono origine da comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro, purché non costituiscano una forma di inadempimento. Tali ultimi licenziamenti rappresentano il contenuto della fattispecie dei licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro, nelle quali è da ricomprendere la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, disciplinata dal combinato disposto degli artt. 1464 cod. civ. e 1 della legge n. 604 del 1966, secondo cui la legittimità del licenziamento presuppone la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, sia delle ragioni tecnico-produttive che rendevano impossibile attendere la rimozione del temporaneo impedimento alle normali funzioni del lavoratore, sia delle analoghe ragioni ostative ad un impiego del medesimo, con mansioni almeno equivalenti, in luoghi diversi (così Cass., sez. Lav., sentenza n. 7904 del 11/08/1998).
Venendo al caso in esame, si è determinato un caso di sopravvenuta impossibilità definitiva ad adempiere che legittima il creditore alla risoluzione del rapporto contrattuale non avendo più interesse a conseguire una prestazione inutilizzabile.
Ed invero, quando l’istante è stata assunta presso il Centro resistente per svolgere le mansioni di massokinesiterapista, la legislazione allora vigente non annoverava disposizioni cogenti rispetto all’individuazione dello specifico titolo professionale che era necessario per esercitare la mansione.
Successivamente il D.M. n. 741/94, che ha istituito la figura del fisioterapista, ha previsto che ad essa fosse collegato il possesso di un apposito titolo universitario necessario per l’abilitazione alla professione.
Detto D.M. rinviava poi, ad un successivo emanando decreto per l’individuazione dei criteri di “equipollenza” mediante i quali potessero essere considerati “abilitanti” i diplomi conseguiti prima del 1994.
Con il D.M.del 27.7.2000 fu riconosciuta l’equipollenza di diplomi e di attestati al diplomi universitario di fisioterapista, ai fini dell’esercizio professionale. Per ciò che riguardava i massofisioterapisti, l’equipollenza fu riconosciuta a coloro che avevano effettuato un “corso triennale di formazione specifica (legge 19 maggio 1971, n. 403)”.
Nello stesso senso, peraltro, si è recentemente pronunciato il Consiglio di Stato nella sentenza n. 5225/2007 con la quale ha accolto l’appello del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca avverso la sentenza del TAR Lazio n. 7750/2003 che aveva accolto la domanda della Federazione Nazionale dei Collegi dei Massofisioterapisti relativa alla pretesa illegittimità del D.M. 27.7.2000 nella parte in cui riconosce l’equipollenza del diploma di massofisioterapista solo se conseguito al termine di un corso di durata triennale.
In tale sentenza il Consiglio di Stato ha così statuito (diversamente da quanto dedotto da parte ricorrente nelle note illustrative):
“… non essendo intervenuto un provvedimento di individuazione della figura del massofisioterapista come una di quelle da riordinare, né essendo intervenuti provvedimenti di riordinamento del relativo corso di formazione o di esplicita soppressione, la relativa professione è in sostanza rimasta configurata nei termini del vecchio ordinamento, con conseguente conservazione dei corsi di formazione. Ciò comporta in radice che i titoli rilasciati all’esito dei corsi in questione non potevano in realtà fruire del riconoscimento automatico di cui al comma 1 dell’art. 4 ed essere cioè considerati di per sé equivalenti al diploma universitario di fisioterapista, a differenza del titolo di fisioterapista acquisito nel vecchio ordinamento sulla base di percorsi didattici i cui contenuti erano stati invece precisamente normati”.
A seguito dei suindicati mutamenti legislativi, il Centro resistente, con missiva in atti del 27.7.2006, invitava l’istante a produrre “copia dei titoli specifici per l’attività di massokinesiterapia” e, non avendo la ricorrente prodotto alcunché, risolveva il rapporto di lavoro con la stessa.
Orbene, detto licenziamento è legittimo.
Esso, infatti, rientra nell’ipotesi di cui all’art. 3 L. 604/66 atteso che l’istante, per fatto sopravvenuto, si è trovato privo del requisito soggettivo professionale necessario per lo svolgimento della sua mansione e, quindi, nell’impossibilità di eseguire la propria prestazione.
Sul punto, peraltro, si osserva che la Suprema Corte, con riferimento all’ipotesi di sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa ha ritenuto che detta impossibilità, anche se dovuta ad un evento estraneo al rapporto di lavoro e non imputabile al dipendente autorizza il datore di lavoro a recedere dal rapporto stesso, ai sensi dell’art. 1464 cod. civ., in mancanza di un suo interesse apprezzabile alle future prestazioni lavorative, la sussistenza o meno del quale deve essere, peraltro, verificata, dato il coordinamento di detta norma con l’art. 1 legge 15 luglio 1966, n. 604, con riguardo alle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 10616/1997; n. 2267/1999; n. 1591/2004).
In particolare, con la sentenza da ultimo citata la Suprema Corte ha precisato che la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa dovuta ad un evento estraneo al rapporto di lavoro e non imputabile al dipendente “deve essere accertata, con valutazione “ex ante”, in riferimento alla prevedibilità o meno del protrarsi della causa dell’impossibilità di esecuzione della prestazione e del tempo occorrente per il suo venir meno, nonché dei pregiudizi derivanti all’organizzazione del datore di lavoro”. L’impossibilità parziale della prestazione, infatti, non giustifica il recesso solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, si può prevedere (dunque necessariamente a livello di prognosi) la ripresa della attualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell’assenza.
Tornando al caso in esame, parte ricorrente non ha dedotto, né ha provato, di aver frequentato i corsi triennali di formazione specifica di cui al D.M. 27.7.2000.
E’, pertanto, evidente che l’impossibilità della prestazione non è temporanea, ossia destinata ad esaurirsi in breve tempo, bensì definitiva in quanto correlata al mancato possesso nel ricorrente del titolo professionale richiesto dalle nuove prescrizioni normative; il che rende oggettivamente impossibile la prestazione dell’istante e, quindi, la ripresa dell’attualità del rapporto.
Detta impossibilità, pertanto, giustifica il recesso dell’imprenditore dal rapporto lavorativo non essendo consentita la presenza nell’organico della società di soggetti non forniti delle richieste qualificazioni professionali.
Rimane, dunque, soltanto di accertare se il datore di lavoro abbia fornito la prova del repechage ossia dell’impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
Ed infatti, qualora il lavoratore non possa più svolgere le mansioni cui è addetto, e l’impedimento non sia a lui imputabile per dolo o colpa, è legittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa in relazione alle mansioni suddette restando a carico del recedente l’onere di fornire la prova di non aver potuto adibire il lavoratore ad altro posto nell’azienda.
Va evidenziato, però, che l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro implica correlativamente, per il ricorrente un onere di deduzione ed allegazione tra gli elementi posti a fondamento della propria domanda sicché, ove il lavoratore non prospetti in ricorso tale possibilità, neppure può sorgere l’onere per il datore di lavoro di offrire la prova della concreta insussistenza di tale possibilità di diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato (v. Cass. n. 11283/92; Cass. n. 10559/98; Trib. Milano 15/3/97).
Nel caso di specie, come chiaramente desumibile dall’impostazione dell’atto introduttivo del giudizio, parte ricorrente non ha indicato alcuna posizione ove poteva essere utilmente collocata.
Di contro, la società convenuta ha dimostrato che non aveva alcuna possibilità di utilizzare aliunde l’istante e ciò in quanto l’organico del Centro deve ritenersi predeterminato dagli atti dell’ASL CE 2 presso la quale il Centro medesimo è in accreditamento provvisorio quale struttura riabilitativa di tipo “A” ai sensi della Delibera Regionale Campania n. 377/1998 in atti.
Ed invero, in tale provvedimento che ha determinato le linee guida ed il nomenclatore tariffario in riferimento all’assistenza sanitaria riabilitativa (in attesa dell’entrata in vigore – a tutt’oggi non attuata – del nuovo sistema normativo teso all’accreditamento definito) è stato previsto che “per regolamentare, sia pure provvisoriamente, la quantità e la qualità delle prestazioni erogabili da ogni struttura, vengono stabiliti per le rispettive branche i carichi di lavoro massimi erogabili – in forma modulare – da ogni struttura sulla base della tipologia organizzativa e dei coefficienti di personale operante al 31.12.1997 ed idoneamente documentati”; è stato altresì definito che le “strutture di riabilitazione potranno intrattenere rapporti libero professionali esulanti il rapporto di dipendenza al 28% del personale globalmente destinato all’assistenza diretta con esclusione del personale medico e tecnico laureato che non ha compiti di direzione per il quale è possibile intrattenere rapporti libero professionali”.
In definitiva, è l’ASL che stabilisce anno per anno per ogni centro la quantità e la qualità delle prestazioni sanitarie erogabili come anche la tipologia professionale che deve essere presente nelle strutture, quanto ai medici, ai paramedici alla percentuale di personale dipendente e a quello invece che può essere regolato con un rapporto professionale autonomo. Tutto ciò con l’evidente intento di operare una razionalizzazione delle strutture, del loro utilizzo, avendo riguardo alle capacità, quantitative e qualitative, ed alle esigenze del territorio.
Essendo la struttura riabilitativa, poi, sottoposta a controlli e ad ispezioni, non v’è dubbio che il personale da assumere deve rispondere ai requisiti professionali richiesti per ogni tipo di prestazione sanitaria eseguibile presso il Centro, dalle disposizioni di legge e regolamenti vigenti. Diversamente, il Centro si esporrebbe al rischio della mancata erogazione dei rimborsi che l’ASL è tenuta ad operare per le prestazioni rese e documentate.
La società convenuta, inoltre, ha documentato che nell’anno 2003, l’ASL CE 2, con determinazione n. 38/2003 in atti, ha ridotto di circa il 50% la “capacità operativa annuale” assegnata al Centro convenuto, con conseguente taglio del personale della cui prestazione professionale viene disposto il rimborso (passando dal tetto di 162.663 prestazioni annuali previsto con comunicazione n. 741 del 15.11.1999, a quello di 1.790 prestazioni settimanali, che considerate 46 settimane lavorative all’anno, sono pari a circa 89.000 prestazioni all’anno).
Alla luce dei rilievi e delle argomentazioni sin qui esposte, pertanto, la domanda deve essere rigettata.
La natura delle parti e la tipologia della controversia fa ritenere sussistenti giusti motivi per la compensazione integrale delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Giudice del lavoro, dott.ssa Francesca Alfano, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza disattesa, così provvede:
a) rigetta la domanda;
b) compensa le spese di lite.
Nota a Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. lav., sentenza 17 dicembre 2007, n. 7949
di Daniele Colucci*
La sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ripropone, tra l’altro, il tema del c.d. obbligo di “repechage”, che delinea il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (1) come “extrema ratio”, subordinato all’impossibilità per il datore di lavoro di attribuire al lavoratore una posizione lavorativa di pari livello professionale (o, se del caso, e con il consenso del lavoratore, anche di un livello inferiore, qualora ciò costituisca l’unica alternativa possibile al recesso (2)) in ambito aziendale.
Afferma il Tribunale che intanto il datore di lavoro è tenuto alla prova di aver infruttuosamente ricercato collocazioni alternative, in quanto il lavoratore ricorrente nell’atto introduttivo deduca questa possibilità e ciò di per sé costituisce principio pacifico e condivisibile, discendendo dall’obbligo del giudice di esaminare le doglianze azionate nei limiti della causa petendi prospettatagli nel ricorso, ex art. 414 c.p.c., a pena di decadenza.
Ciò che, invece, la pronuncia non precisa (e che evidentemente nella fattispecie concreta non aveva motivo di precisare) attiene al tenore della deduzione, se cioè essa possa limitarsi a porre il profilo, così semplicemente radicando l’onere datoriale di dimostrare l’impossibilità di qualsiasi diversa utilizzazione lavorativa, o se invece debba anche indicare quali concrete collocazioni alternative il datore avrebbe dovuto valutare e attuare.
* Giudice del Lavoro – Tribunale di Foggia
Anche la giurisprudenza della S.C., pur offrendo una risposta costantemente positiva, si limita, sul punto, ad offrire spesso solamente indicazioni di carattere generale, omettendo la puntualizzazione dell’articolarsi dell’onere probatorio, con riferimento alla dialettica che si sviluppa tra le parti del giudizio.
A tal riguardo si intrecciano la valenza della regola generale (art. 5 della l. n. 604/66) che pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, rientrando anche la possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore nell’ambito di quelle ragioni di organizzazione aziendale e di funzionalità dell’attività produttiva che determinano l’ineluttabilità della misura espulsiva, con l’esigenza di completezza ed esaustività della domanda, senza la quale il ricorso è da ritenersi nullo o, comunque, infondato, nella relativa parte, per carente allegazione.
E’ pacifico, infatti, il principio per il quale, in caso di riorganizzazione o ristrutturazione aziendale, ferma la necessità della prova del relativo processo, è legittima ogni ragione, in senso economico, che lo abbia determinato, non escluse le esigenze di mercato o il perseguimento di un incremento dei profitti attraverso modifiche organizzative, mentre al giudice è demandato di controllare che all´origine della decisione aziendale vi sia una ragione economica seria e non pretestuosa, senza che possa distinguersi tra quelle determinate da fattori esterni all´impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell´impresa o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto (3).
In tale ambito l’obbligo di “repechage” viene normalmente ricondotto ai limiti della ragionevolezza , tenuto conto delle contrapposte deduzioni delle parti e delle circostanze di fatto e di luogo reali proprie della singola vicenda esaminata, dovendo il giudice del merito valutare sul piano concreto la incompatibilità della professionalità del lavoratore licenziato con il nuovo assetto organizzativo aziendale e dovendo, a tal fine, lo stesso lavoratore fornire elementi utili ad individuare l´esistenza di realtà idonee ad una sua possibile diversa collocazione, fermo il principio generale che pone a carico del datore di lavoro l´onere probatorio relativo all´impossibilità di impiego in altra posizione lavorativa. Nette, in tal senso, sono recenti pronunce di legittimità (4) per le quali l´onere della dimostrazione della impossibilità dì adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, pur gravando interamente sul datore di lavoro e non potendo essere posto a carico del lavoratore, implica comunque per quest’ultimo, a corollario del principio di ragionevolezza, un onere di deduzione e allegazione della possibilità di essere adibito ad altre mansioni, sicché ove il lavoratore ometta di prospettare nel ricorso tale possibilità, non sorge per il datore di lavoro alcun onere di fornire la relativa prova sopraindicata.
La soluzione del caso concreto, però, risulterà normalmente meno semplice di quanto potrebbe sembrare e va necessariamente rapportata alla concreta fattispecie dedotta in giudizio. Infatti, se una censura generica può apparire incompatibile con limitate dimensioni aziendali, ove il lavoratore ha la possibilità di conoscere la struttura imprenditoriale nella quale è stato inserito, per grandi realtà economiche il criterio della “vicinanza della prova” consentirà al lavoratore o di meramente lamentarsi della mancata ricerca di attribuzioni diverse nell’ambito dell’organigramma aziendale o, semmai, di indicare solamente gli altri settori produttivi o le diverse sedi aziendali in ordine ai quali onerare il datore di lavoro della prova.
Si pensi, a tal riguardo, all’impostazione adottata da Cass., Sez. Un., 10 gennaio 2006, n. 141 (5) in ordine alla prova del requisito dimensionale ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 della l. n. 300/70, in cui la S.C., accanto ad una doverosa distinzione, secondo i canoni generali, ai fini della ripartizione probatoria, tra fatti costitutivi e fatti impeditivi del diritto azionato, non ha mancato di sottolineare che l´individuazione dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue anche la finalità di non rendere troppo difficile l´esercizio del diritto del lavoratore il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell´impresa.
Si tocca, allora, un punto nevralgico della distribuzione dell’onere probatorio, valevole anche e soprattutto per l’obbligo di “repechage”secondo uno schema per il quale alcuna delle parti, che devono stare in giudizio con lealtà e probità (art. 88 c.p.c.), può vedersi soggetta ad una “probatio diabolica”.
La questione, peraltro, si sviluppa ulteriormente alla luce del generale principio che preclude al giudice, a tutela della libertà di iniziativa economica, ex art. 41 della Costituzione, di sostituirsi al datore di lavoro nelle scelte di merito della gestione economica dell’azienda (6), per cui può apparire difficile, in concreto, stabilire il confine tra il legittimo (e dovuto) riposizionamento del lavoratore e l’arbitraria invasione del campo riservato alle discrezionali determinazioni dell’imprenditore.
Si pensi, ad esempio, a posti liberi, di livello professionale consono al licenziando, nella pianta organica aziendale, laddove da un lato si potrebbe ritenere, al verificarsi dell’evento in discorso, l’obbligo di copertura da parte datoriale, incidendosi su un assetto organizzativo delineato dallo stesso imprenditore, dall’altro, però, non potendosi ignorare che proprio perché la pianta organica aziendale è emanazione della libertà di iniziativa economica, la medesima non solo può essere modificata in ogni momento, ma non determina l’obbligo aziendale della sua corrispondenza con la forza lavoro occupata in azienda, elemento variamente determinato da scelte economiche e organizzative contingenti e, comunque, non vincolabili.
Si pone, dunque, il problema dei limiti dell’ampiezza dell’onere probatorio datoriale. Infatti, va rimarcato che se, da un lato, il giudice non ha il potere di sostituirsi all’imprenditore nell’esercizio della sua discrezionalità gestoria, dall’altro ha il dovere di verificare che scelte organizzative effettivamente vi siano state. In altri termini, l’elemento di chiusura della dialettica processuale è racchiuso nel necessario accertamento, e quindi nei connessi oneri da un lato di deduzione nel ricorso, a nostro parere nei limiti delle conoscenze o della conoscibilità del lavoratore, dall’altro degli elementi di prova offerti nella memoria di costituzione del convenuto datore, dell’effettività dell’assetto gestorio determinato dall’imprenditore (v. precedente nota (6)), essendo rimesso al giudice il solo controllo di legittimità, alla luce dei principi di buona fede e correttezza che presidiano il rapporto di lavoro.
Un ultimo profilo cui appare interessante fare accenno è costituito dal concreto atteggiarsi, nei limiti esposti, dell’onere datoriale, cioè dell’individuazione della soglia oltre la quale il datore avrà raggiunto la prova liberatoria. Si tratta di un profilo sul quale la giurisprudenza e la dottrina hanno sovente sorvolato; una pronuncia di legittimità (7) ha direttamente posto, al riguardo, la sempre controversa tematica della modulazione della prova negativa (negativa non sunt probanda, per una risalente impostazione), qual è quella in discorso. In tale sentenza il principio di ragionevolezza si estrinseca, nell’ambito della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, nell´onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell´ambito dell´organizzazione aziendale che, concernendo appunto un fatto negativo, deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi. La chiusura del principio di ragionevolezza, in tale contesto, implica che tale onere possa considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, specialmente, riteniamo di aggiungere, nell’ambito di grandi realtà imprenditoriali.
In conclusione, può formularsi, a nostro giudizio, un triplice ordine di ipotesi:
1) Il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, agendo in giudizio, non si lamenta affatto del mancato “repechage”; in tal caso non sorge per la controparte alcun onere processuale, mentre il giudice sarà esonerato dall’esaminare il relativo profilo;
2) Il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo da un’azienda medio-piccola dovrà dolersi, se vorrà radicare l’onere datoriale, del mancato “repechage”; in tale fattispecie la sua deduzione dovrà essere sufficientemente specifica, con l’indicazione delle posizioni lavorative nelle quali riterrà l’utilità della sua prestazione lavorativa e ciò varrà a delimitare l’oggetto dell’onere della prova datoriale, che dovrà correlatamente estrinsecarsi in modo specifico;
3) Il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo da una realtà datoriale di notevoli dimensioni, reagendo in giudizio contro il recesso, dovrà, se riterrà, lamentarsi del mancato “repechage”; in tale ipotesi, tuttavia, la sua deduzione non potrà, a meno che non emergano in concreto elementi diversi, andare oltre la generica indicazione della complessità della realtà aziendale, con la ripartizione dei suoi diversi settori produttivi e l’eventuale complessa articolazione sul territorio, mentre l’onere datoriale di controparte andrà ritenuto inevitabilmente e corrispondentemente assolto anche con la sola offerta di indici di carattere generale e presuntivo.
(1) In dottrina, si veda. P. ICHINO, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, p. 481 e ss.
(2) Sul demansionamento come unico strumento per evitare il licenziamento, cfr., ex plurimis, Cass., Sez. Lav., 7 febbraio 2005, n. 2375.
(3) Cfr. Cass., Sez. Lav., 1 giugno 2005, n. 11678.
(4) Cfr. Cass., Sez. Lav., 27 ottobre 2006, n. 23152; ancor più recentemente, Cass., Sez., 4 dicembre 2007, n. 25270, in Guida lav., 2008, n. 8, p. 34, con nota di TOFFOLETTO, che riprende un’impostazione già contenuta in Cass., Sez. Lav., 20 gennaio.2003, n. 777.
(5) In Foro it., 2006, I, 704.
(6) Principio costantemente affermato in giurisprudenza, in relazione a casi diversi. Da ultimo, con specifico riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si veda Cass., Sez. Lav., 2 ottobre 2006, n. 21282, nella quale le ragioni obiettive del recesso vengono ricondotte anche all´ipotesi del riassetto organizzativo dell´azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall´imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un´effettiva necessità di riduzione dei costi; tale valutazione, purché effettiva e non pretestuosa, non tollera il sindacato del giudice.
(7) Cass. Sez. Lav., 12 giugno 2002, n. 8396, in Giur. Piemontese, 2002, p. 303.