giovedì 5 giugno 2008
MILLE ANNI DI PAUPERISMO NELL’EUROPA OCCIDENTALE
Anche questa settimana, come di consueto, pubblichiamo un altro degli interessanti contributi dottrinali del Prof. Sergio Sabetta - Collaboratore della Redazione di LavoroPrevidenza e Coordinatore della Sezione Management di questa rivista telematica.
Il problema della povertà moderna e del rapporto con le conseguenze sociali che ne derivano merita un rapido excursus storico al fine di meglio comprendere gli aspetti culturali che stanno alla base.
Come tutti i fenomeni emergenziali non si è in grado di controllare pienamente questo fenomeno, in quanto non semplicemente un “ micro - fenomeno emergente” essendo associato a un sistema complesso quale quello sociale e della mente umana che evolve nel tempo dotato di imprevedibilità e origine dal basso. Il pauperismo è un fenomeno associato alla globalità di un sistema complesso che impone vincoli alle parti, non è altro quindi, in definitiva, che il risultato dell’azione vincolante di un organizzazione sistemica, pertanto riducibile ma non del tutto eliminabile ( Morin ).
La società medioevale esalta la scelta di povertà come virtù, talché la povertà, non solo in spirito, è una delle regole fondamentali degli ordini monastici al fine di avvicinarsi a Cristo sofferente. La santificazione della povertà non esclude che nei fatti la povertà, non scelta ma subita, sia vista come un castigo inviato da Dio per punire dei loro peccati chi la subisce.
Tuttavia se fino all’inizio del XIII secolo viene vista positivamente essendo il fenomeno prettamente rurale, da questo periodo in poi perde il carattere di occasione di sollecito divino verso gli umili per acquisire progressivamente una dimensione in prevalenza umana.
Si afferma tra il XIIII e il XVI secolo una distinzione fra poveri “buoni” e poveri “cattivi”, ossia gli oziosi, verso i quali sono prese severe misure quali ad esempio la fustigazione alla prima contravvenzione alla legge come previsto da un’ordinanza del 1351 di Don Pedro I di Castiglia.
I sovvertimenti determinati nel XIV e XV secolo dalla formazione degli stati nazionali e le conseguenti lunghe vaste guerre, basti pensare alla guerra dei 100 anni tra Francia e Inghilterra e alla riconquista spagnola, la peste nera e l’urbanizzazione per il crescere dei commerci causano un moltiplicarsi dei miserabili e il loro addensarsi nelle città, in questa instabilità politica ed economica con il progressivo spostamento degli assi dal Mediterraneo all’Atlantico e al Nord, si inserisce l’influenza dell’Umanesimo e la Riforma, con le conseguenti guerre di religione, in cui cresce l’importanza data al lavoro quale proiezione in terra di Dio artefice e la manifestazione della grazia divina nel successo economico.
Nel XVI secolo si afferma il concetto che un’onesta mediocrità sia necessaria alla crescita individuale e alla conservazione politica, si che i beni di fortuna acquistano valenza positiva se accompagnati da una bontà di cuore, ne consegue una critica all’idealizzazione francescana della povertà favorita in questo dalle innumerevoli e interminabili dispute tra gli ordini mendicanti.
Se dunque gli eccessi di povertà sono dannosi quanto gli eccessi di ricchezza, mortificando l’uomo e impedendone la crescita delle capacità, è breve il passo a vedere nei poveri, non occasionati da impedimenti fisici, un pericolo sociale in quanto oziosi e contrari alla legge divina del lavoro.
Vengono pertanto a modificarsi le tipologie di intervento che da occasionali per iniziativa di benefattori singoli o alle porte dei conventi, quale mezzo per guadagnarsi la salvezza eterna, diventano istituzionali ad opera di appositi enti creati, regolamentati e controllati dai governi delle singole comunità cittadine.
A questo si affianca un progressivo intervento repressivo anch’esso non più sporadico ma strutturato, basti pensare alla milizia a cavallo ( maréchausséé ) istituita da Francesco I per vigilare sulle strade del regno con funzioni di polizia e giustizia sui reati commessi dai vagabondi oltre che sul vagabondaggio stesso, infatti è individuato già dai contemporanei uno stretto collegamento fra vagabondi e banditismo, come parallelamente nelle città fra i vari reati e la povertà.
Ma la povertà presenta anche un risvolto sanitario favorendo il diffondersi del contagio, per le mancanze alimentari, la promiscuità e per il girovagare, nasce quindi la necessità di ospizi ed ospedali o di eventuali altre tipologie di ricoveri coatti.
A questo punto la povertà appare come una minaccia alla salute fisica e spirituale, oltre che alla proprietà e al potere, per le improvvise sommosse a cui dà luogo nei momenti di carestia e rincari dei prezzi.
L’intervento dei governanti cittadini per i timori sopra esposti, portò all’ingerenza delle autorità laiche se non al passaggio dell’amministrazione dei redditi per l’assistenza dall’ambito ecclesiastico in mano laica, affiancate dall’azione di supporto, anche se parziale per categorie, delle confraternite.
Nel tentativo di governare il fenomeno si cerca di impedire in vari modi una libera circolazione dei vagabondi al fine di limitarne e governarne il numero, senza che tuttavia questo porti a scontri tra le comunità cattoliche e protestanti interessate entrambe a limitare il fenomeno.
A partire dagli anni venti del XVI secolo le varie comunità cittadine organizzano uffici dei poveri per razionalizzare gli aiuti, centralizzandoli, e proibire la mendicità reprimendola dopo averne effettuato il censimento. In questa opera di repressione vengono costituiti dagli Uffici dei poveri delle sorte di milizie private con il compito di fermare i vagabondi per espellerli dalla città o se cittadini accompagnarli negli appositi istituti, infine vengono introdotte finalizzate tasse dei poveri per alimentare lo sforzo, quanto descritto accade in periodi successivi per tutta l’Europa in particolare centrale.
Un caso emblematico dei problemi in termini pauperistici al fine dell’ordine sociale che poteva crearsi con la Riforma, la si può leggere nelle vicende dell’Inghilterra tra il XVI e il XVII secolo in cui le riforme religiose di Enrico VIII, con la soppressione dei monasteri e l’incameramento da parte della Corona e dei membri della Corte dei beni ecclesiastici, distrusse il vecchio sistema assistenziale senza tuttavia sostituirlo con altri tipi di intervento, circostanza che aggravò ulteriormente il pauperismo già in atto fino all’emanazione della “Legge dei poveri” elisabettiana, basata sulla figura dei Provveditori ai poveri sotto controllo dei giudici di pace con il compito specifico, oltre alla pura assistenza, all’invio al lavoro obbligatorio dei poveri validi e l’alfabetizzazione al lavoro dei minori, il tutto finanziato da tasse imposte alle parrocchie o distretti.
Nel XVII secolo e seguente l’aspetto repressivo aumenta con la deportazione nei possedimenti oltremare da parte della Francia e dell’Inghilterra, basti pensare prima alle Colonie americane e successivamente all’Australia. Nel resto dell’Europa il ricorso alla reclusione in ospedali, case di correzione e opifici cresce anche per i principi del mercantilismo al fine di aumentare il lavoro e quindi la ricchezza della nazione, impedendo al contempo il degrado morale di una vita senza regole e quindi al di fuori delle leggi laiche e religiose.
Queste istituzioni si trasformano in vere e proprie prigioni, con il fine ultimo di allontanare il povero e il mendicante dalla società in quanto antisociale e ricettacolo di vizi, necessario quindi di una rieducazione che tuttavia progressivamente prende piede sull’aspetto puramente poliziesco.
Se l’ozio è il padre dei vizi, il lavoro ne costituisce l’antidoto con cui l’uomo doma le passioni, si abitua alla fatica e riconoscendo il proprio compito nel mondo rende grazie a Dio, circostanza a cui i poveri si oppongono con il rifiuto del lavoro. Nella società seicentesca in cui si fondano le scienze esatte e si rafforzano gli stati nazionali con le loro basi economiche vi è il desiderio di tutto regolare al fine di preparare una società migliore fondata sulla Virtù di cui il povero ne è un limite e contrasto, questo tuttavia non elimina le antiche forme assistenziali ecclesiastiche, specialmente nella penisola iberica e nel sud dell’Italia, quali tracce del pensiero medioevale.
Le nuove idee repressive sul pauperismo non escludono comunque l’assistenza pubblica accanto a quella privata, ma l’evidente fallimento del sistema porta durante il XVIII secolo ad una sua progressiva revisione con una maggiore incisività sui termini educativi elementari e tecnici, nonché sull’ospedalità in termini di cura ai poveri malati, cambiamento già manifestatosi sporadicamente alla fine del XVII secolo.
Abbiamo parlato di fallimento del sistema, se solo si pensi che in Inghilterra circa il 25% della popolazione era in stato di povertà nel XVIII secolo.
La situazione cominciò a modificarsi con la rivoluzione industriale, sebbene non vi sia concordanza sui suoi effetti immediati in termini di ricchezza distribuita sulla popolazione tra fine ‘700 e primi ‘800.
Le consuetudini vennero meno a partire dalla seconda metà del ‘700 e solo un intervento legislativo sociale dalla seconda metà del XIX secolo permise di creare ai lavoratori e alle classi più povere un nuovo status sociale.
All’inizio il culto del lavoro porta ad una visione negativa del pauperismo quale causa di debolezza nazionale, con l’accentuarsi del carattere punitivo delle case di lavoro e l’esclusione automatica dei poveri da ciò che era puramente necessario al vivere materiale, si crea pertanto la dottrina dei bassi salari quale mezzo per spingere al lavoro persone altrimenti portate all’ozio.
Queste due concezioni durano fino alla fine del XVIII secolo, quando cominciò a farsi strada una nuova teoria che vede nei salari più alti un’occasione per l’espansione dei consumi e quindi l’assorbimento di una sovrapproduzione che si sta manifestando, oltre che un incentivo al lavoro.
Si delineano tutta una serie di movimenti riformisti che vanno dalla salute pubblica, alla cura scolastica dei minori, ai servizi municipali i quali si intrecciano con gli sviluppi scientifici , economici, filosofici e politici fino a delineare una nuova immagine del povero quale prodotto della società così come organizzata.
Tuttavia mentre questo nuovo indirizzo, che avrebbe cominciato a fornire i propri frutti a partire dalla metà del XIX secolo, inizia a maturare vi è un incremento della povertà con il rischio del crollo del sistema assistenziale, a partire dall’Inghilterra, in tutti i paesi in via di industrializzazione, la risposta immediata dettata dall’allarme sociale è un nuovo massiccio ricorso alle case di lavoro, di cui tuttavia ne è presto manifesto il fallimento per le condizioni di vita, si ricorre pertanto nuovamente alla tecnica dei sussidi esterni oltre alla cessione dei poveri in locazione alle nuove manifatture che stanno sorgendo.
L’incremento della criminalità, che si ha in Inghilterra a partire dal 1770 e attribuita prevalentemente a fattori legati all’industrializzazione in atto, è in realtà anche causata dal rapido incremento della popolazione e dalla chiusura delle Colonie americane al trasferimento dei condannati prevalentemente poveri a causa della proclamazione di indipendenza, queste circostanze diffusero un senso di insicurezza fra le classi agiate.
All’individualismo prima mercantilista e poi industriale si contrappone e diffonde a partire dall’Inghilterra il socialismo, quale indirizzo collettivista che comunque esclude la necessità di una dittatura del proletariato (socialismo utopista). Occorre pertanto definire un nuovo concetto di giustizia sociale, visto quale ordinamento in grado di perseguire la pace eliminando le tensioni frutto di eccessive diseguaglianze non temperate da meccanismi di assistenza.
Se nel sistema mercantilistico si è creato un vasto mercato finanziario globale basato sul commercio di merci naturali o prodotte in termini artigianali, con l’industrializzazione si passa alla produzione tecnologicamente sempre crescente di merci, l’esaurirsi dei mercati comporta la necessità di superare le ricorrenti crisi con l’espansione del sistema sia in termini territoriali che su nuovi settori economici.
Nell’analisi marxiana ( socialismo scientifico ) la forza lavoro diventa una qualsiasi merce acquistata e venduta dal capitale e vi è una netta distinzione con il lavoro, quale attività umana creatrice, il sistema regge solo in quanto in continua espansione ma potenzialmente in conflitto con il suo ambiente naturale.
Si passa da una valutazione teologico - moralista o più semplicemente empirica ad un’analisi scientifica del problema del pauperismo, l’economista Brentano inizia ad affrontare il problema del lavoro e giudica quale migliore soluzione la promozione dei sindacati liberi.
Si fonda nel 1872 in Eisenach ( Germania ) la “Società di politica sociale” alla quale aderiscono sia liberali che conservatori, iniziando ad esaminare la possibilità di interventi governativi mirati per la soluzione dei problemi sociali.
Se in un primo momento i cattolici avevano visto il problema sociale essenzialmente come una crisi spirituale, dagli anni ’60 del XIX secolo matura l’opinione della necessità di riforme mirate alla protezione delle condizioni di lavoro, lo stesso accade per la destra più illuminata, timorosa delle agitazioni sociali che con la creazione del partito socialista acquistano valenza politica e di cui la Comune di Parigi del 1870 ne è una minaccia.
Negli ultimi decenni del secolo inizia un movimento di leggi sociali dirette alla tutela dalle malattie, dagli infortuni, dall’invalidità e dalla vecchiaia, oltre ad impostare una rete di istruzione pubblica obbligatoria per classi popolari, basti pensare oltre che agli interventi in Inghilterra alla legislazione sociale di Bismarck.
Nel XX secolo la povertà diventa oggetto di studio nell’economia del benessere ( Pigou ), fino ad essere sviluppata nell’analisi dei problemi della giustizia distributiva, ricondotta tuttavia al concetto di ineguaglianza e all’individuazione di un livello di reddito chiamato linea di povertà. Se a partire dagli anni trenta a seguito della Grande Depressione emergono le teorie keynesiane sull’equilibrio della sotto – occupazione e pertanto matura l’intervento pubblico quale stimolo alla domanda, basti pensare al New Deal, è nell’ultimo quarto di secolo, con A. Sen, che si adotta un diverso quadro teorico di riferimento costituito dai bisogni, dai diversi modi di appagarli, dai panieri di beni e dai servizi richiesti per appagarli.
Si ottiene una distinzione fra “povertà assoluta” quale indigenza e “povertà relativa”, intesa come disuguaglianza economica, nasce un approccio multidimensionale che unendo aspetti economici, sociologici e psicologici riesce ad indagare aspetti non soltanto materiali di privazione, ossia le “nuove povertà” quali manifestazioni di emarginazione socioculturale.
Contemporaneamente rinasce il dibattito fra liberalismo estremo e interventismo pubblico in cui, grazie alla globalizzazione esplosa con la fine della Guerra Fredda, si esaltano le forze di mercato e i liberi scambi per recuperare successivamente la necessità dell’intervento pubblico al fine di fornire i servizi pubblici di base, quali infrastrutture, istruzione, sanità e innovazione tecnologica i quali difficilmente sarebbero sviluppati dall’intervento privato senza la massa critica necessaria e con esposizione verso le fasce più deboli e quindi economicamente non interessanti nei termini necessari. Si riscopre l’antico principio che un aumento della ricchezza complessiva non significa necessariamente benefici per tutti.
Bibliografia
• E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, 1969;
• R. M. Hartwell, La rivoluzione industriale inglese, bari, 1973;
• N. Abbagnano, Storia della filosofia , Torino, 1974;
• H. Holborn, Storia della Germania moderna ( 1840 – 1945 ), Milano, 1973;
• L. Pierre, Storia economica e sociale del mondo, Bari, 1980;
• R. Doehaerd, Economia e società dell’Alto Medioevo, Bari, 1983;
• B. M. G. Reardon, Il pensiero religioso della Riforma, Bari, 1986;
• E. J. Hobsbawm, Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Bari, 1986;
• A. C. Pigou, Economia del benessere, 1920,
• A. Sen, Povertà e carestia, 1981,
• J. D. Sachs, Cancellare la miseria, in “Le Scienze”, 60/69, 447, novembre 2005;
• J. K. Galbraith, Storia della economia, Milano, 1988;
• E. Morin, Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Milano, 1983;
• T. Tinti, Il concetto di emergenza tra dualismo e materialismo, in “ComplexLab.com”.