giovedì 24 aprile 2008
L’EQUITÀ NELLE DIFFERENZE RETRIBUTIVE
Anche questa settimana, come di consueto, pubblichiamo un altro degli interessanti contributi dottrinali del Prof. Sergio Sabetta - Collaboratore della Redazione di LavoroPrevidenza e Coordinatore della Sezione Management di questa rivista telematica.
Secondo la teoria neoclassica i differenziali retributivi si basano sulle capacità professionali innate o acquisite e sull’impegno fisico, non potendo esservi differenze retributive per il medesimo lavoro svolto. Eventuali differenze sono del tutto temporanee e necessarie per una mobilità interaziendale e intersettoriale, si che verranno riassorbite una alla volta conclusi i processi di aggiustamento.
La scuola istituzionalista considera al contrario tali imperfezioni del tutto permanenti per l’intervento di fattori sociali, politici, istituzionali ed economici, non di pura domanda ed offerta, che vengono ad influenzare in profondità il mercato del lavoro, anche la diversa ricchezza delle varie unità produttive influiscono sul salario, tutti questi elementi possono agire singolarmente o sommandosi fra loro.
L’importanza delle politiche retributive nel motivare e trattenere i lavoratori è di tutta evidenza empirica e si è quindi intervenuti non solo sui livelli ma anche sulle strutture con una articolazione dell’offerta retributiva sia in termini variabili legati alle performance, che con fringe benefit, servizi collaterali, qualità dell’ambiente lavorativo e investimenti formativi.
Si pone il problema dell’equità, considerato che il comportamento lavorativo è anche conseguenza del proprio confronto positivo o negativo con gli altri. Dobbiamo considerare che oltre al fattore motivante, legato alla parte variabile della retribuzione, vi è un fattore igienico di sicurezza, legato alla parte fissa della retribuzione, questo ancor più per i livelli intermedi e bassi, si che una soddisfazione sulla sicurezza non è solo demotivante ma anche destrutturate.
L’equità è fortemente legata ala coscienza del sé, ossia alla stima che abbiamo di noi stessi e che pretendiamo che gli altri abbiano di noi, è pertanto parte dei rapporti sociali del contesto in cui viviamo, in altre parole dobbiamo pensare l’equità non in termini assoluti ma relativi, fra termini non distanti ma prossimi.
Si possono quindi creare distorsioni percettive da parte dei lavoratori, nonché generare frustrazioni e sensazioni di iniquità non adottando corretti meccanismi di comunicazione sul perché delle differenze retributive, si da compromettere nel tempo il contratto psicologico tra il lavoratore e l’organizzatore.
L’equità nell’appagare la coscienza del sé crea un rapporto di fiducia nell’organizzazione stimolando l’impegno, riducendo la diffidenza e i costi di un controllo interno informale reciproco ma aumentando al contrario le possibilità di comportamenti reciprocatori.
Se differenziare la retribuzione in rapporto alle capacità del singolo può essere giusto da un punto di vista teorico, possono sorgere notevoli difficoltà pratiche nell’attuazione di tale principio nel tentativo di evitare sensazioni di iniquità, questo ancor più in assenza di un vasto e profondo piano di comunicazione che possa rendere trasparente le logiche e le valutazioni che stanno alla base degli incentivi.
La trasparenza dovrà pertanto riguardare sia le modalità distributive che quelle procedurali, questo ancor più in presenza di forti dislivelli retributivi fra qualifiche pari o contermini, infatti differenziare comporta una complicazione delle valutazioni, creando le premesse per errori ed anche possibili arbitri, tutte circostanze che inducono diffidenza e conseguenti continui confronti che possono sfociare in stress e sensazioni di iniquità, compromettendo la relazione lavorativa stessa.
Deve pertanto crearsi una giustizia retributiva parte di una più ampia giustizia organizzativa, composta da una equità distributiva, sulle modalità di distribuzione e comunicazione delle retribuzioni, e da una equità procedurale, sulla formazione e variazione nel tempo dei livelli retributivi.
E’ quindi fondamentale non legare gli incentivi esclusivamente alle singole prestazioni, ma ancorare una parte alle performance di team al fine di evitare una eccessiva conflittualità interpersonale che conduca tensioni interne le quali blocchino la crescita di valore nella produzione, necessita pertanto miscelare le due componenti evitando eccessi, questo soprattutto dove vi è una difficoltà di calcolo delle performance individuali.
Dobbiamo considerare la giustizia sulla base di una funzionalità negativa quale capacità di evitare i conflitti, ossia come tecnica della coesistenza umana consensuale.
Vi è nella specie umana un radicato senso di equità mediato da eredità culturali da cui dipende il benessere derivante da una efficace interazione sociale per la quale è fondamentale mantenere status e reputazione, circostanze che possono indurre a rifiutare psicologicamente se non di fatto compensi eccessivamente bassi in relazione agli altri, avendo un senso di sfruttamento se si supera la soglia dei bisogni elementari.
Due criteri sono alla base di un giudizio aggettivo per un qualsiasi ordinamento quello della reciprocità come eguaglianza, ossia la possibilità di ricevere quanto gli altri al realizzarsi delle stesse condizioni, e quello dell’autocorreggibilità, ossia se riesce efficacemente a correggersi in caso di inefficacia organizzativa, tutti elementi che devono sussistere anche in un valido sistema retributivo.
Bibliografia
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