martedì 22 giugno 2004
Brevi riflessioni in tema di pari opportunità
della dott.ssa Chiara Lensi
Da sempre, il lavoro delle donne si è mosso tra due distinti sistemi di tutela.
Da un lato è assoggettato ad una tutela differenziata, che mira a proteggerlo perché le donne sono considerate soggetti in possesso di una capacità di lavoro ridotta e, perciò, individui più deboli nel mercato del lavoro; dall altro è, invece, ricondotto ad un sistema di tutela paritaria, oggi dominante.
La tutela differenziata residua, cioè, soltanto in alcuni delicati momenti della vita di una donna, in cui una diversità di trattamento non è riconducibile ad una discriminazione (si pensi alla tutela delle lavoratrici madri; L. 1204/71; L. 53/00; D.lgsl. 151/2001; D.lgsl. 115/2003); viceversa, il sistema di tutela paritaria è oggi considerato assolutamente prevalente, almeno sulla carta.
La nostra legislazione mira, infatti, a riequilibrare la posizione della lavoratrice nel rapporto di lavoro, affermandone parità di trattamento, di diritti e di retribuzione.
Ovviamente si è trattato di un percorso estremamente lungo e difficile, rispetto al quale - e senza sembrare troppo ottimisti - possiamo dire di essere oggi alla fase conclusiva.
L affermazione del principio di pari opportunità all interno del nostro ordinamento si è articolata in varie fasi:
1) L. 903/77: Parità di trattamento uomo/donna
Tale parità viene cercata attraverso vari interventi: la tutela paritaria non può riferirsi alla sola retribuzione, ma deve estendersi a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, nonché ai trattamenti previdenziali.
Risulta fondamentale ridurre il costo del lavoro femminile (ad esempio, estendendo anche al lavoratore padre alcuni diritti riconosciuti alle sole lavoratrici madri).
2) L. 125/1991: pari opportunità tra uomini e donne nel mondo del lavoro
La legge 903/77 si era limitata a vietare alcuni comportamenti di sfavore e, come tale, non prevedeva la realizzazione di misure o azioni in grado di rimuovere ostacoli concreti alla parità tra sessi, in materia di lavoro.
Ecco perché dalla semplice parità di trattamento si arriva al concetto di pari opportunità, da raggiungersi attraverso azioni positive.
Sono azioni positive tutti quei programmi volti a consentire alle donne di godere effettivamente di pari opportunità - e non solo di parità di trattamento - rispetto agli uomini nel mondo del lavoro, anche autonomo.
Il concetto di azione positiva non è definito direttamente dalla legge, bensì indirettamente attraverso le sue finalità. Si tratta di misure preferenziali attraverso le quali si persegue l uguaglianza sostanziale e che, pertanto, legittimano anche l adozione di misure diseguali.
Esse hanno due presupposti: la presenza di ostacoli che si frappongono al raggiungimento delle pari opportunità e la temporaneità di tali misure.
Tra le novità più importanti della legge, vi è la previsione della figura del/della consigliere/consigliera di parità, al/alla quale è, appunto, attribuito il compito di promuovere azioni positive.
Viene, inoltre, introdotto un concetto onnicomprensivo di discriminazione che non si riferisce alle sole discriminazioni dirette, ma che riguarda anche le discriminazioni indirette.
La discriminazione diretta è quella basata direttamente sul sesso (ad esempio, ogni licenziamento basato sullo stato di gravidanza di una lavoratrice è discriminatorio, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro con cui la dipendente sia stata assunta, non essendovi alcun obbligo per la lavoratrice di comunicare il proprio stato di gravidanza al datore di lavoro. In tal senso, si veda sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2001 nel procedimento C - 109/00; sentenza della Corte di giustizia del 4 0ttobre 2001 C - 438/99).
La discriminazione indiretta deriva, invece, da un criterio obiettivo, ma che nei fatti genera discriminazione.
Essa ha luogo allorché gli uomini e le donne sono trattati in modo diverso, perché una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri nella pratica pongono in una condizione di svantaggio una quota significativamente più elevata di persone di un determinato sesso.
In tal senso, la Corte di giustizia ha affermato un importante principio: ogni discriminazione di lavoratori part time rispetto ai lavoratori non part time è discriminazione indiretta di genere. La Corte arriva a questo ragionamento sulla base del dato statistico che dimostra che sono le donne a lavorare di più con contratto part time. Si esce, cioè, dalla differenza uomo/donna per arrivare a quella lavoro tipico/lavoro atipico.
Con la direttiva n. 73/00 viene data una definizione nuova di discriminazione indiretta: essa ricorre quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano approvati e necessari.
Tra le altre novità della legge, meritano altresì di essere menzionati: l art. 4, in tema di onere della prova (se la lavoratrice fornisce elementi idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di una discriminazione per sesso, anche formati da dati statistici, l onere della prova è a carico del datore convenuto); l art. 9 (le aziende con più di 100 dipendenti devono redigere un rapporto, almeno biennale, sulla situazione occupazionale maschile e femminile da trasmettere al consigliere regionale di parità).
3) D.lgsl. 196/00: disciplina dell attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive
Tale decreto rafforza notevolmente il ruolo della consigliera di parità, disciplinandone aspetti legati al ruolo, ai compiti, alle funzioni ed alle dotazioni strumentali.
In seguito alle modifiche che tale decreto apporta alla L. 125/91, la consigliera di parità viene vista come una figura istituzionale, con compiti di controllo del rispetto della normativa antidiscriminatoria e di promozione della parità.
Essa ha una specifica competenza in materia di lavoro femminile, di normativa sulle pari opportunità e di mercato del lavoro.
Essa è, altresì, un pubblico ufficiale che ha l obbligo di segnalare all Autorità Giudiziaria i reati di cui viene a conoscenza.
Essa può agire in giudizio a tutela dei lavoratori discriminati in ragione del sesso.
Analizziamo, infine, la più recente giurisprudenza comunitaria in materia di pari opportunità.
§ Sentenza cause riunite 4/02 e 5/02 del 23 ottobre 2003
Una cittadina tedesca lavorava per un certo tempo come impiegata comunale addetta all assistenza sociale. In seguito otteneva un impiego di ruolo come pubblico dipendente, prestava servizio a tempo pieno, ma dal 1992 iniziava a lavorare ad orario ridotto e nel 1999 chiedeva il collocamento a riposo anticipato. la domanda veniva accolta e le veniva assegnata una pensione del 65,8%.
Questa decisione veniva contestata sia sotto il profilo del criterio di calcolo quanto sotto l aspetto discriminatorio, in quanto i pubblici dipendenti che prestano servizio ad orario ridotto sono in prevalenza donne e questo trattamento le discriminerebbe rispetto ai dipendenti maschi.
In situazione analoga è venuta a trovarsi un insegnante tedesca collocata a riposo per invalidità con una pensione pari al 51,18% dell ultima retribuzione.
In sede contenziosa si è deciso di adire la Corte che ha così risolto il quesito: una pensione di vecchiaia versata secondo la normativa vigente in Germania rientra nella sfera d applicazione dell art. 119 CE (gli artt. 117 - 120 CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 - 143 CE) e dell art. 141, nn. 1 e 2, CE. Queste disposizioni ostano ad una disciplina quale quella vigente in Germania, che può comportare una riduzione dell importo della pensione dei pubblici dipendenti che hanno prestato servizio ad orario ridotto durante una parte almeno della loro carriera quando questa categoria di dipendenti annovera prevalentemente donne, a meno che tale legislazione sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
Spetta al giudice nazionale, solo competente a valutare i fatti ed interpretare il diritto nazionale, stabilire se ed entro quali limiti una disposizione di legge la quale si applichi indipendentemente dal sesso del lavoratore ma colpisca di fatto una percentuale notevolmente più elevata di donne che di uomini sia giustificata da motivi obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
L obiettivo di limitare la spesa pubblica non può essere considerato valida giustificazione di una disparità di trattamento fondata sul sesso.
Una disparità di trattamento tra uomini e donne può essere giustificata, eventualmente, da ragioni diverse da quelle invocate all atto dell adozione del provvedimento che ha istituito una siffatta disparità.
Una normativa nazionale quale quella in questione, che porti a ridurre l importo della pensione di vecchiaia di un lavoratore in modo sproporzionato riguardo ai suoi periodi di attività ad orario ridotto non può essere considerata obiettivamente giustificata dal fatto che la pensione costituisce in tale ipotesi un corrispettivo di una prestazione di lavoro meno significativa, oppure perché essa ha lo scopo di evitare che i pubblici dipendenti occupati ad orario ridotto siano avvantaggiati rispetto a quelli occupati a tempo pieno.
Il Protocollo n. 2 sull art. 119 del Trattato e il Protocollo sull art. 141 CE debbono essere interpretati nel senso che essi escludono, rispettivamente, l applicazione dell art. 119 CE e dell art. 141, nn. 1 e 2, CE a prestazioni previste da un regime previdenziale professionale dovute a titolo di periodi lavorativi anteriori al 17 maggio 1990, fatta salva l eccezione prevista per i lavoratori o per i loro aventi causa che abbiano, prima di tale data, intentato un azione in giudizio o proposto un reclamo equivalente a norma del diritto nazionale vigente.
§ Sentenza 17/01 del 7 gennaio 2004
La ricorrente nella causa principale, cittadina inglese, convive con un transessuale che, essendo stato registrato alla nascita come persona di sesso femminile, continua ad essere considerato tale all anagrafe nonostante si sia sottoposto a regolare operazione per un cambiamento di sesso.
Non è quindi stato possibile contrarre regolare matrimonio con l attuale convivente e una simbolica celebrazione di matrimonio compiuta presso la chiesa anglicana non viene riconosciuta dagli uffici britannici dello stato civile. L ente pensionistico ha quindi informato gli interessati che, in caso di decesso, non sarebbe stata versata al superstite alcuna pensione di reversibilità.
Questa presa di posizione veniva contestata dinanzi al giudice in quanto viziata da una discriminazione fondata sul sesso, contrastante con i principi del diritto comunitario.
La Corte di giustizia, chiamata a pronunciarsi in merito, dichiarava che l art. 141 CE osta, in linea di principio, ad una legislazione che, in violazione della legislazione europea per la salvaguardia dei diritti dell uomo e delle libertà fondamentali, impedisce ad una coppia quale quella coinvolta nella causa principale, di soddisfare la condizione del matrimonio, necessario affinché uno di essi possa godere di un elemento di retribuzione dell altro. Spetta al giudice nazionale verificare se, nella singola fattispecie, la persona interessata possa invocare l art. 141 CE per far riconoscere al convivente il diritto alla pensione di reversibilità.
§ Sentenza 303/02 del 4 marzo 2004
Ad un cittadino austriaco veniva rifiutata la pensione di vecchiaia anticipata in quanto non aveva ancora raggiunto l età di 61 anni e sei mesi prescritta dalla legge. L interessato, richiamandosi al fine sociale dell istituto della pensione di vecchiaia, invocava la disparità di trattamento tra i sessi, giacché per le donne era stata stabilita un età inferiore. Il giudice chiedeva alla Corte di giustizia se in un caso del genere potesse applicarsi la deroga di cui all art. 7, n. 1, lett. wa) della Direttiva 79/7/CEE, data la differenza di età pensionabile stabilita dalla legge nazionale per i due sessi.
La Corte dichiarava che detta Direttiva si applica nei casi come quello in esame, dato che la disparità di età stabilita dalla legge può reputarsi una conseguenza che può derivare dalla previsione, nella normativa nazionale, di un età diversa a seconda del sesso per la concessione delle pensioni di vecchiaia.
§ Sentenza 324/01 del 18 marzo 2004
Ad una dipendente di una società spagnola veniva negato di poter fruire del periodo di ferie annuali, che cadeva nel periodo in cui si trovava in congedo di maternità, facendolo slittare nelle settimane susseguenti, prorogando cioè ad personam il congedo stesso. L interessata impugnava la decisione del datore di lavoro e il giudice adito chiedeva alla corte se la normativa comunitaria prevalesse sulle rigorose disposizioni di contratti collettivi nazionali che fissavano date inderogabili per le ferie di tutto il personale di un azienda.
La Corte dichiarava che le disposizioni della Direttiva 93/104/CEE e della Direttiva 92/85/CEE vanno interpretate nel senso che una lavoratrice deve poter godere delle sue ferie annuali in un periodo diverso da quello del suo congedo di maternità, anche in caso di coincidenza tra il periodo di congedo di maternità e quello stabilito a titolo generale, da un accordo collettivo, per le ferie annuali della totalità del personale.
L art. 11, n. 2, lett. a) della Direttiva 92/85 deve essere interpretato nel senso che esso riguarda altresì il diritto di una lavoratrice, in circostanze simili a quelle della causa principale, a ferie annuali per un periodo più lungo, previsto dalla normativa nazionale, rispetto al minimo previsto dalla Direttiva 93/104.
§ Sentenza 147/02 del 30 marzo 2004
Una lavoratrice inglese fruiva di un congedo di maternità e percepiva le indennità previste dal regolamento nazionale e dal contratto collettivo di lavoro vigente per i dipendenti di quella determinata impresa. Poco prima dell inizio del congedo la dipendente otteneva un aumento di stipendio, che tuttavia, ai sensi della legge nazionale, rimaneva ininfluente per il calcolo delle indennità di maternità in quanto non rientrava nel periodo di riferimento di cui si doveva tener conto. L interessata adiva il giudice, che consultava la Corte per stabilire la compatibilità della legge nazionale con le norme comunitarie a tutela dei lavoratori.
La Corte dichiarava che l art. 119 del Trattato CE deve essere interpretato nel senso che impone - laddove la retribuzione percepita dalla lavoratrice durante il suo congedo di maternità sia determinata almeno in parte in base allo stipendio corrispostole prima dell inizio di tale congedo - che ogni aumento di stipendio intervenuto tra l inizio del periodo retribuito con lo stipendio di riferimento e la fine del congedo medesimo venga incluso tra gli elementi dello stipendio computati ai fini del calcolo dell importo di detta retribuzione. Tale obbligatoria inclusione non si limita al solo caso in cui l aumento si applichi retroattivamente al periodo retribuito con lo stipendio di riferimento.
In assenza di normativa comunitaria in materia, spetta alle autorità nazionali competenti stabilire le modalità secondo le quali, nel rispetto del complesso delle norme di diritto comunitario e, segnatamente, della Direttiva 92/85/CEE, debba essere incluso tra gli elementi dello stipendio computati ai fini del calcolo dell importo della retribuzione dovuta alla lavoratrice durante il suo congedo di maternità ogni aumento di stipendio intervenuto prima di tale congedo o durante il congedo medesimo.