sabato 29 maggio 2004
Part-time: se manca la forma scritta il rapporto di lavoro non diviene full-time
sezione lavoro
Cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 13 aprile 2004, n. 7012
(Presidente De Luca – Relatore Maiorano)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 4 – 16 giugno 1999 il Tribunale di Pisa accoglieva la domanda di M.V. proposta nei confronti della Fondazione Stella Maris e dichiarava, che il rapporto di lavoro intercorrente fra le parti era a tempo pieno ed indeterminato a decorrere dal 10 giugno 1996, con condanna della Fondazione al pagamento delle differenze retributive pari a £ 16.800.000. Il rapporto originariamente era sorto nel 190 a tempo pieno ed indeterminato ed era stato poi trasformato, a domanda, a tempo parziale per due volte con durata annuale e poi ancora a tempo parziale e poi a tempo pieno in data 10 giugno 96 limitatamente alla durata di un anno, per tornare a tempo parziale allo scadere del termine. Quest’ultima trasformazione, non era legittima e quindi la domanda doveva essere accolta.
La Corte d’appello di Firenze, investita in grado di appello su ricorso alla Fondazione, con sentenza del 7 – 21 novembre 00, riformava la decisione e rigettava l’originaria domanda, sul rilievo che pacifico in causa, oltre che documentato dalle produzioni delle parti, era che il rapporto di lavoro della M. era ormai definitivamente un rapporto a tempo parziale in virtù di una precedente trasformazione consensuale attuata con il contratto 9 gennaio 1995 (all. 7 fasc. appellata) firmato da entrambe le parti e regolarmente convalidato dall’ufficio provinciale del lavoro in data 12 gennaio 1995, allorché intervenne la trasformazione in rapporto a tempo pieno, ma a termine. Con lettera del 12 gennaio 1995 (all. 7° fasc. appellata) la M. sottoponeva il suo consenso, già irrevocabilmente prestato, alla duplice condizione della definitiva acquisizione della qualifica di educatrice professionale ed alla definitiva assegnazione al “Uoi” e la Fondazione accettava entrambe le richieste con lettera del 16 gennaio 1995; anche riconoscendo valore contrattuale alle condizioni poste dalla lavoratrice fuori dal testo del contratto, le stesse si erano già verificate; irrilevante quindi era la circostanza che nella medesima lettera del 12 gennaio 1995 la M. esprimesse la propria volontà di tornare full-time non appena se ne fosse verificata l’opportunità, trattandosi della esternazione di una semplice aspirazione, cui la dichiarante non subordinava l’efficacia dell’accordo e pertanto del tutto priva di qualsiasi valore negoziale.
Inapplicabile al caso di specie era l’articolo 5, comma 10, legge 863/84, secondo cui «su accordo delle parti (espresso nelle forme di legge) è ammessa… la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale», perché nella specie si trattava della ipotesi inversa, ove il rapporto a tempo pieno si inseriva come una parentesi temporale nell’ambito di un rapporto definitivamente a tempo parziale, l’estensione di detta norma al caso opposto non era consentita dal dato letterale della stessa, né dalla sua ratio, che era quella di fornire una garanzia più accentuata che assicurasse la tutela della volontà negoziale non semplicemente attraverso l’atto scritto, ma attraverso l’assistenza successiva dell’organo pubblico; tale ratio perdeva la sua ragion d’essere in presenza di un atto che si traduceva nell’arricchimento del regime orario del rapporto, senza alcun possibile danno per la posizione economica del soggetto più debole del contratto di lavoro; per questa fase migliorativa del rapporto, anche se limitata sul piano temporale, la legge non prevedeva nulla. Il successivo passaggio al rapporto di lavoro part-time, alla scadenza del termine non si atteggiava come una nuova trasformazione del rapporto, ma come un ritorno dello stesso al regime consensualmente e liberamente voluto dalle stesse parti e divenuto ormai il regime normale del rapporto. «La mancata sottoposizione dell’atto 7 giugno 1996 (di accettazione della proposta della lavoratrice 27 marzo 1996) alla convalida dell’organo pubblico«era quindi irrilevante ai fini della piena validità dell’accordo intervenuto fra le parti di trasformazione temporanea del rapporto a tempo piano».
L’appello quindi doveva essere accolto con conseguente rigetto della originaria domanda.
Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione la M., fondato su due motivi. Resiste la fondazione Stella Maris con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memorie illustrative.
Motivi della decisione
Lamentando, col primo motivo, violazione e falsa applicazione degli articolo 1326 Cc e 5, comma 10, legge 863/84, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (articolo 360 n. 3 e 5 Cpc) deduce la ricorrente che errato è l’assunto di fondo su cui di base la sentenza impugnata, secondo cui sarebbe inapplicabile al caso di specie il disposto dell’articolo 5 legge 863/84, perché regola l’ipotesi inversa della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, mentre qui ci sarebbe stato un rapporto a tempo pieno che si sarebbe inserito come una parentesi temporale in un rapporto definitivamente a tempo parziale. La tesi è errata perché la ratio della norma è quella di verificare la genuinità di una manifestazione di volontà che comporta per il lavoratore una cospicua riduzione dei mezzi di sostentamento e di risorse previdenziali.
Il punto di partenza ignorato dal giudice d’appello è l’espressione della volontà delle parti al momento della trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno; la lavoratrice ha manifestato l’intenzione di passare definitivamente a tempo pieno, mentre il datore di lavoro ha parzialmente accettato quella proposta ma solo per un periodo determinato. Non esiste quindi «quella concordanza che la legge del 1984 richiede per consentire proprio il passaggio da tempo pieno a tempo parziale. Di qui l’indispensabilità della convalida della volontà della lavoratrice» da parte dell’organo pubblico. Né è sostenibile la tesi che la norma non sia applicabile al caso contrario del passaggio del rapporto a tempo parziale a quello a tempo pieno; nell’impegno assunto dalla Fondazione sono «contenute due distinte obbligazioni. Con la prima si conveniva il passaggio a tempo pieno, mentre con la seconda tale passaggio veniva esplicitamente prefigurato come a tempo determinato», quest’ultima obbligazione ha una sua specifica autonomia, «posto che incide su un assetto di interessi qualitativamente diverso e del massimo rilievo»; la ricorrente dopo avere richiesto, per ragioni di salute, la trasformazione temporanea del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, fin dal 1995 ha insistito per un ritorno al tempo pieno e indeterminato e questo non può essere ignorato dal datore di lavoro. La distinta obbligazione diretta al ritorno del rapporto a part-time realizza proprio la fattispecie legislativa di cui all’articolo 5 legge 863/84.
Sotto altro profilo, il giudice d’appello ha male interpretato la volontà delle parti: a fornite della proposta della lavoratrice di tornare al tempo pieno e indeterminato, c’è stata una controproposta di contratto a tempo pieno a termine, che deve essere sottoposta a convalida davanti all’ufficio pubblico; se la legge prevede un sostegno pubblico per la trasformazione del rapporto da tempo pieno in part-time, a maggior ragione «suppone che il sostegno della volontà debba sussistere in presenza di un contrasto esplicitamente manifestato».
Lamentando, col secondo motivo, violazione degli articolo 2909 Cc, 112 Cpc e 5, comma 10 legge 863/84, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (articolo 360 n. 3 e 5 Cpc) deduce la ricorrente che avverso l’affermazione del primo giudice che si è «costituito fra le parti un rapporto a tempo pieno indeterminato» non è stato proposto gravame e quindi a sentenza sul punto è passata in cosa giudicata. In ogni caso è errato l’assunto che anche l’eventuale dimostrazione della violazione dell’obbligo di cui all’articolo 5, 10 comma, della legge 863/84 non avrebbe potuto condurre alla conseguenza dell’instaurazione di un rapporto a tempo pieno ed indeterminato; la mancata attivazione della procedura di convalida della volontà del lavoratore comporta la nullità per violazione di clausole disposta dall’ordinamento a tutela del lavoratore, nullità che colpisce la clausola oppositiva del termine, per cui residua la permanenza fra le parti di un rapporto a tempo pieno ed indeterminato.
Il ricorso è infondato.
In ordine al primo motivo di ricorso si osserva innanzitutto che dalla violazione dell’obbligo previsto dall’articolo 5, 10 comma, legge 863/84 non deriva la trasformazione del rapporto da part-time a full-time; la Corte in proposito ha già avuto modo di affermare che «la stipulazione di un contratto a tempo parziale con l’inosservanza dei requisiti di forma previsti dall’articolo 5 del Dl 726/84, convertito con modificazioni nella legge 863/84, non comporta l’automatica sostituzione della disciplina relativa a tale tipo di rapporto con quella prevista per i rapporti a tempo pieno – sia perché manca una disposizione in tal senso analoga a quella dettata in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, sia perché la normativa sul rapporto a tempo parziale mira a soddisfare le esigenze delle parti contrapposte ed intende particolarmente garantire il rispetto della volontà di entrambe – e deve invece farsi applicazione della regola di cui all’articolo 1419, primo comma, Cc» (Cassazione 6713/95). Non sussiste quindi la violazione di legge lamentata.
Quando poi al preteso vizio di motivazione si osserva che non è stata proposta alcune censura contro la affermazione del giudice d’appello, secondo cui dopo due contratti di lavoro part-time con durata annuale si sia poi concluso regolarmente fra le parti un rapporto part-time a tempo indeterminato, in ordine al quale si siano poi verificate, con la incondizionata accettazione dell’altra parte, entrambe le condizioni poste dalla lavoratrice per la conclusione di tale contratto; questo quindi è un dato acquisito non più contestabile.
Logica e coerente è l’affermazione successiva che il contratto di lavoro a tempo pieno, ma determinato, si sia inserito come una parentesi nell’ambito di un rapporto part-time già consolidato. La configurazione di questo accordo come due distinti contratti, uno per il definitivo passaggio dal part-time al full-time e l’altro per l’apposizione del termine (con successivo passaggio dopo la scadenza dello stesso al rapporto part-time, per il quale sarebbe stato necessario il successivo apporto ed assistenza dell’organo pubblico) appare come una costruzione, forse suggestiva, ma certamente priva di agganci testuali, che non vengano minimamente posti in evidenza dalla ricorrente; in base al principio di diritto sopra enunciato, la mancata convalida per il ritorno del rapporto al regime part-time non comporta la trasformazione del rapporto medesimo in full-time. Anche se l’aspirazione della lavoratrice sia stata quella di tornare ad un rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, non c’è alcun obbligo, legale o convenzionale, dell’altra parte di accettare tale soluzione e pienamente legittima è la determinazione del datore di lavoro di accettare l’offerta, ma a tempo determinato; ed in questo senso è stato raggiunto un accordo fra le parti, che appare unitario in mancanza di elementi per dimostrare che l’intenzione delle parti stesse fosse diversa, come prospettato dalla ricorrente. Il primo motivo di ricorso va quindi disatteso.
In ordine al secondo, basta rilevare che avvero la pronuncia del primo giudice che fra le parti si sia «costituito un rapporto a tempo pieno indeterminato» il datore di lavoro ha proposto appello, chiedendo di riformare la sentenza «e per l’effetto respingere il ricorso della sig.na Viviana M.» come si legge nelle conclusioni riportate in sentenza. Va quindi disatteso l’assunto che sul punto si sia formata la cosa giudicata. Per il resto la Corte territoriale si è limitata a richiamare i principi già elaborati da questa Corte con la sentenza 14692/99, secondo cui anche l’eventuale nullità di contratto part-time per difetto di forma scritta non comporta l’automatica conversione in contratto a tempo pieno; si tratta non di un capo autonomo ma di una mera argomentazione giuridica per disattendere la tesi affermata dal Tribunale non suscettibile di passere cosa giudicata. Anche il secondo motivo va disatteso ed il ricorso rigettato.
Sussistono giusti motivi per la integrale compensazione fra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma il 15 gennaio 2004.
Depositata in cancelleria il 13 aprile 2004.