sabato 15 maggio 2004
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale in Italia dell Avv. Rocchina Staiano
1. Premessa.
Il tema della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro ha occupato ed occupa l’attenzione del legislatore italiano1 ed europeo2.
In Italia, tale materia, nel corso degli ultimi due secoli, ha subito un radicale e decisivo cambiamento: in origine, con la L. n.80/18983 è prevalsa la logica della “riparazione del danno”, che comportava il ristoro economico per il lavoratore che aveva subito l’infortunio; poi si fece strada il concetto di “prevenzione”4; infine, con il D. Lgs. 626/19945 si è accolta, recependo la direttiva comunitaria n.391/896, il modello incentrato sulla nozione di “sicurezza partecipata”, in cui viene riconosciuto ai lavoratori, oltre il diritto ad essere informati sui mezzi per fronteggiare i rischi sul lavoro, anche quello di ricevere una adeguata formazione in materia di salute e sicurezza.
Come si evince dal rapporto INAIL del giugno 20007, secondo il quale si sono verificati, in Italia, nel 1999, 1300 casi mortali da infortunio rispetto ai 1412 del 1996 (in particolare, nelle costruzioni, vi sono stati 272 morti nel 1999 a fronte dei 300 del 1996), con il D. Lgs. 626/1994 si è fatto qualcosa, ma non abbastanza. Infatti, grazie a quest’ultimo decreto si è cominciata a diffondere nelle aziende e negli imprenditori una “cultura” della prevenzione. I profili più innovativi e peculiari che si colgono in tale normativa sono:
- la programmazione e la procedimentalizzazione dell’obbligo di sicurezza;
- la formazione, l’informazione e la consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti;
- l’introduzione di nuove norme concernenti la movimentazione manuale dei carichi8, l’uso dei videoterminali9, la protezione da agenti cancerogeni10 e da agenti biologici11;
- l’aumento dei soggetti obbligati sia a tutelare la salute dei lavoratori e sia a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro (ad es.: datore di lavoro, dirigenti, preposti, costruttori, installatori, venditori, ecc…);
- l’individuazione di nuove figure, aventi compiti e ruoli specifici, che sono: il medico competente12; il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP)13 e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)14 o il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale (RLST)15.
Alla luce di tali considerazioni, lo scopo di questo lavoro è quello di analizzare i compiti e le funzioni dell’RLST.
2. La nomina e la formazione dell’RLST.
Si è già avuto modo di rilevare che, tra le novità introdotte dal D. Lgs. 626/1994 vi è l’istituzione di un “apposito e specifico” rappresentante per la sicurezza, denominato rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST).
L’RLST ha le stesse funzioni e doveri dell’RLS, ma si distingue da quest’ultimo per due motivi: a) il criterio di nomina e b) la formazione.
a) Per quanto riguarda la nomina dell’RLST, questo può essere istituito solo nelle imprese con meno di 15 dipendenti23. In tali imprese, il rappresentante, a norma dell’art.18, 2° comma, del D. Lgs.626/1994, può essere:
- eletto direttamente dai lavoratori;
- individuato per più aziende nell’ambito territoriale o di comparto produttivo;
- designato o eletto dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali, così come definite dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Tale previsione, soprattutto nella parte in cui contempla la possibilità che esso “possa essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale o nel comparto produttivo”, ha dato vita, sin dall’entrata in vigore del D. Lgs.626/1994, a numerosi interrogativi.
Innanzitutto, l’individuazione dell’RLST genera difficoltà, in quanto questa persona è conosciuta nella singola azienda e non nelle altre24.
In secondo luogo, a causa delle numerose attribuzioni assegnate dall’art.19 del D. Lgs. 626/1994 a questa figura, che presuppone un’adeguata conoscenza dell’impresa, non si comprende come l’RLST possa avere un “chiaro e preciso quadro” delle strutture produttive, in cui svolge la rappresentanza. In questo modo, l’RLST, da un lato, non può ostacolare le scelte decisionali del datore di lavoro in materia di sicurezza e, dall’altro, è limitato nel rapporto interpersonale con i lavoratori.
Infine, siccome l’RLST deve occuparsi di “una rete di imprese”, ci si chiede quale datore di lavoro, capo della singola azienda, ha il dovere di dare a questa persona-rappresentante un’adeguata formazione per poter svolgere le sue funzioni25. A tali domande, non è dato purtroppo al momento fornire risposte certe e definitive, in quanto l’RLST è ancora una figura “emergente” nell’ambito della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
b) Per ciò che, invece, concerne la formazione dell’RLST, esso ha diritto ad un percorso formativo particolare, in quanto a questo può essere affidata la rappresentanza di un consistente numero di piccole e/o piccolissime imprese.
Gli obiettivi di questa particolare formazione sono che l’RLST deve essere in grado:
- di conoscere i principi costituzionali, civilistici e la legislazione generale e speciale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;
- di identificare i rischi specifici nella propria area di competenza;
- di informare i lavoratori su problematiche particolari servendosi di iniziative promozionali territoriali;
- di avere una “buona” tecnica di comunicazione.
3. Il ruolo dell’RLST: compiti e funzioni.
L’RLST, come è noto, ha gli stessi diritti e doveri dell’RLS. Il D. Lgs. 626/1994, in particolare l’art.19, accentra nella figura dell’RLS/RLST una serie di attribuzioni che coprono un ampio spettro di attività, quali:
- l’accesso libero ai luoghi di lavoro;
- la consultazione preventiva e tempestiva ai fini della valutazione dei rischi e della prevenzione nell’azienda o unità produttiva;
- la consultazione per la scelta agli addetti al servizio di prevenzione, all’attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso e alla evacuazione dei lavoratori;
- la consultazione in merito alla formazione dei lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori, di salvataggio, di pronto soccorso e di gestione dell’emergenza;
- la ricezione delle informazioni e della documentazione relative alla valutazione dei rischi e delle connesse misure di prevenzione;
- la formulazione di osservazioni durante le ispezioni e verifiche dell’autorità di vigilanza;
- la formulazione di proposte sull’attività di prevenzione;
- il ricorso all’autorità competente qualora ritenga che siano inadeguate le misure di prevenzione e protezione adottate dal datore di lavoro al fine di garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.
Da tale elencazione si può desumere facilmente quali siano le aree di attività dell’RLST27:
1) analisi/valutazione dei rischi;
2) verifica costante delle misure di prevenzione e di sicurezza;
3) animazione di sicurezza;
4) informazione dei lavoratore;
nonché l’acquisizione di conoscenze specifiche che devono riferirsi a:
1) normative sulle materie di sicurezza ed igiene del lavoro;
2) rischi presenti sul posto di lavoro e riferiti all’ambito di rappresentanza;
3) danni legati a quei rischi;
4) limiti di esposizione a fattori inquinanti;
5) analisi degli infortuni;
6) analisi delle situazioni critiche (anomalie di processo);
7) modalità di prevenzione;
8) strumenti informativi presenti sul luogo di lavoro: registro infortuni, schede di sicurezza, documento di valutazione, ecc…;
9) valutazione di programma di informazione.
4. La presenza dell’RLST in Italia.
Nonostante siano trascorsi oltre 8 anni dall’entrata in vigore del D. Lgs. 626/1994, la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST) è poco diffusa. Ciò è ribadito anche da un recente studio dell’INAIL del 200128, svolto con la consultazione di imprenditori e sindacalisti di tutta Italia, sulla conoscenza dell’esistenza dell’RLST.
Volendo andare più in profondità, è possibile descrivere, sia pure sommariamente, i risultati dell’indagine in alcune Regioni italiane, ad esempio: “in Lombardia, gli imprenditori non conoscono la figura del RLST; invece, i sindacalisti mostrano di avere conoscenza della figura in esame, dal momento che l’RLST in tale Regione è prevista anche da accordi provinciali; in Campania, per gli imprenditori la figura dell’RLST non esiste, mentre, per i sindacalisti, la mancata nomina degli RLST rappresenta un elemento di grave ritardo attribuibile alla difficoltà di avviare rapporti costruttivi con le micro imprese; nel Lazio, gli imprenditori affermano che non conoscono gli RLST, invece, i sindacalisti sostengono che la presenza dell’RLST è importante ai fini della sicurezza, ma è necessario un maggior coinvolgimento delle associazioni datoriali”29. Da tale indagine emerge che per la maggioranza degli imprenditori gli RLST “non esistono”; invece, per i sindacalisti è ormai tempo che tale rappresentante cominci ad operare.
Tuttavia, l’RLST trova fondamento per il settore artigiano nell’accordo nazionale per l’artigianato del 22 novembre 1995, siglato definitivamente il 3 settembre 199630 e, poi, per il comparto commercio ed edilizia, in diversi accordi territoriali.
Pubblicato su diritto.it/articoli/previdenza/previdenza.html del 04/07/2003
L’EVOLUZIONE DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE IN ITALIA
di Rocchina Staiano
1. Premessa.
Il sistema giuridico della previdenza sociale condiziona non solo le generazioni attuali, ma anche quelle future; infatti, interessa le prime, dal momento che è lo strumento dal quale dipende la loro sicurezza economica ed, invece, le seconde, perché troveranno le “regole del gioco” già precostituite e modificabili, soltanto a mezzo di gravi tensioni.
In Italia, in quest’ultimi anni, la continua diminuzione del tasso di natalità e l’allungamento della vita, hanno messo in discussione sempre più il ruolo prevalente del sistema pubblico . Infatti, i dati disponibili, più in particolare uno studio della Ragioneria Centrale dello Stato , hanno evidenziato la tendenza ad una forte crescita della spesa pubblica per pensioni in rapporto al Prodotto Interno Lordo (PIL).
Il quadro previdenziale prospettato appare decisamente poco roseo. Si imponeva, dunque, un intervento legislativo e il Parlamento ha emanato fra l’ottobre del 1992 e l’agosto del 1995 un insieme di provvedimenti legislativi, che hanno sia modificato l’assetto strutturale pensionistico pubblico e sia regolato per la prima volta la previdenza complementare. Si comincia con la L. 23 ottobre 1992 n. 421, che contiene la delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale. Nell’art.3, relativo alla previdenza, il Governo viene delegato ad “emanare uno o più decreti legislativi finalizzati alla riforma del sistema pensionistico pubblico ed alla regolamentazione delle forme di previdenza complementare”. Il primo decreto legislativo, emanato dal Governo in attuazione della suddetta legge delega, è il D. Lgs. 30 dicembre 1992 n. 503, che consente di attuare una graduale riduzione delle prestazioni pensionistiche e l’omogeneizzazione delle forme previdenziali pubbliche. Poi, con il secondo decreto legislativo, vale a dire con il D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124, il Governo ha disciplinato, per la prima volta in Italia, le forme pensionistiche complementari. Infine, a distanza di circa due anni dall’entrata in vigore del D. Lgs. 124/1993, è stata approvata la tanto attesa legge di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare: L. 8 agosto 1995 n.335.
Quindi, dopo anni di progetti, di discussioni e di varie parziali riforme, l’Italia si avvia verso un sistema previdenziale che trasformerà gradualmente la previdenza pubblica da sistema “a prestazione definitiva” in struttura “a contribuzione definitiva” e che verrà integrato da forme pensionistiche complementari.
2. Breve analisi dei provvedimenti legislativi sulla previdenza prima del D. Lgs. 124/1993.
Anteriormente al D. Lgs. 124/1993 che, per la prima volta in Italia, ha fissato le regole per la costituzione dei fondi pensione complementari, vi era una sola norma riguardante la materia, cioè l’art.2117 c.c. , che disciplinava i fondi speciali per la previdenza e l’assistenza, preoccupandosi di tutelare i fondi costituiti internamente alla gestione delle aziende.
Le prime basi normative della previdenza complementare erano contenute nella L. 23 ottobre 1992 n.421 , che delegava il Governo a razionalizzare e revisionare le norme sulla sanità pubblica, impiego, previdenza e finanza territoriale. Gli obiettivi di fondo di tale legge erano: riequilibrare finanziariamente la previdenza pubblica, stabilizzando il rapporto fra spesa pubblica e prodotto interno lordo; omogeneizzare le norme dei trattamenti pensionistici pubblici; favorire lo sviluppo di forme previdenziali complementari.
In attuazione della citata legge delega, hanno fatto seguito il D. Lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 ed il D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124, di cui parleremo nel paragrafo seguente. Il D. Lgs. 503/1992, per ciò che concerne la previdenza, ha revisionato e modificato gli istituti del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici. In particolare, ha elevato progressivamente l’età pensionabile a 65 anni per i maschi e 60 anni per le femmine; aumentato gradualmente da 15 a 20 anni il requisito minimo di durata dell’assicurazione e della contribuzione per ottenere il diritto alla pensione di vecchiaia ed, infine, ristretto i vincoli riguardanti i requisiti reddittuali per l’integrazione al trattamento minimo delle pensioni. Inoltre, ha previsto restrizioni sulla disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo e modifiche al sistema di perequazione automatica delle pensioni.
Da ciò discende che i suddetti provvedimenti legislativi hanno riformato solo marginalmente il regime pensionistico di coloro che sono già in pensione e di quelli che sono prossimi “ad andare in pensione”; mentre per i lavoratori più giovani il cambiamento è radicale e certamente poco vantaggioso.
2.1. Il D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124: la previdenza complementare.
Con l’emanazione del D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124 , pur restando invariati molti elementi del sistema previdenziale obbligatorio, si inserisce come novità la disciplina delle forme pensionistiche complementari. Infatti, l’art.1 del decreto legislativo citato, riprendendo un’espressione già utilizzata dalla legge delega, considera i trattamenti pensionistici erogati dai fondi come trattamenti complementari del sistema obbligatorio pubblico.
A questo punto non ci resta che prendere in considerazione i vari aspetti del decreto in esame. Tra questi vi è sicuramente quello riguardante i beneficiari, i quali possono essere sia “i lavoratori dipendenti, … privati e pubblici”, sia “i lavoratori autonomi … e i liberi professionisti, … organizzati per aree professionali e per territorio”; poi, quello relativo alla possibilità di istituire fondi pensione aperti; o, ancora, quello concernente gli organi di amministrazione e di controllo, che devono essere composti in modo paritetico da rappresentanti dei lavoratori e del datore di lavoro .
Dal punto di vista della costituzione dei fondi pensione, essi possono essere costituiti: 1) come soggetti giuridici di natura associativa non riconosciuta; 2) come soggetti dotati di personalità giuridica; 3) come fondi interni mediante l’accantonamento di “un patrimonio di destinazione … nell’ambito del patrimonio della singola società o dell’ente pubblico anche economico” .
Quanto al finanziamento, i fondi pensione sono finanziati dal c.d. contributo complessivo (quello del lavoratore e del datore di lavoro), stabilito “… in percentuale della retribuzione assunta a base della determinazione del TFR” ; invece, per i lavoratori “di prima occupazione” successiva al 28 aprile 1993 è prevista l’integrale destinazione ai fondi pensione dell’accantonamento annuale del TFR.
E’ prevista, inoltre, la vigilanza sui fondi pensione, che dovrà essere esercitata da una apposita commissione istituita presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
Sul versante fiscale, ai fondi pensione si applica la disciplina fiscale dei fondi comuni di investimento mobiliare.
Infine, non va dimenticato che i fondi, non potendo assumere impegni di tipo assicurativo, gestiscono le loro risorse mediante convenzioni con soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività di intermediazione mobiliare; con imprese assicurative che effettuano operazioni sulla durata della vita umana e di capitalizzazione; con enti gestori di forme di previdenza obbligatoria oppure mediante la sottoscrizione o l’acquisizione di azioni o quote di società immobiliari.
Dunque, l’introduzione della previdenza complementare, da un lato, influenzerà positivamente il sistema economico ed in particolare il mercato finanziario, perché vedrà aumentare la consistenza dei servizi di intermediazione; dall’altro, inciderà notevolmente su tutte le forme pensionistiche aziendali e sui fondi già costituiti.
2.2. L. 8 agosto 1995 n. 335: riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare.
Tra la prima regolamentazione della previdenza complementare e la sua riforma, avvenuta con la L. 8 agosto 1995 n. 335 , sono state presentate da vari organismi proposte di revisione .
Solo la L. 8 agosto 1995 n. 335, oltre ad aver riformato il sistema pensionistico obbligatorio trasformandolo da sistema di tipo retributivo in quello contributivo, ha modificato molte regole che disciplinavano la previdenza complementare sotto il regime del D. Lgs. 124/1993., dimostrando, in questo modo, che è possibile la coesistenza non più di fatto, ma di diritto, fra i due livelli pensionistici.
L’emanazione di norme sulle forme pensionistiche complementari nel contesto della riforma della previdenza pubblica non può far immaginare che si era voluto creare un sistema di “vasi comunicanti” fra la previdenza pubblica e quella complementare, in quanto, nonostante i due tipi di previdenza erano rivolti sempre alla protezione della persona umana, la previdenza complementare doveva essere utilizzata per risolvere i problemi irreversibili del sistema previdenziale italiano. Infatti, la legge sulla previdenza complementare era necessaria, dal momento che non sarebbe stato possibile ridurre le prestazioni del sistema pensionistico pubblico senza dare la possibilità ai lavoratori di compensarle con una pensione aggiuntiva. Di fatto, la previdenza complementare andrà ad integrare la pensione pubblica, che risulterà essere inferiore a quella erogata attualmente, quando la riforma andrà a regime. Però, mentre i fondi pensione verranno gestiti in base al sistema finanziario della capitalizzazione individuale, secondo il quale la pensione riconosciuta a ciascun assicurato al momento del collocamento in quiescenza dipende dal capitale accumulato con i contributi versati ed il rendimento realizzato; invece, per i fondi gestiti dall’INPS i capitali individuali si accumuleranno soltanto contabilmente, poiché, di fatto, i contributi versati dai lavoratori all’INPS non verranno accantonati, bensì serviranno “a pagare le rate di pensione ai pensionati”.
Pubblicato su diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 25/07/2003
ACCORDI SINDACALI E RSU NEL P.I.
di Rocchina Staiano
1. Premessa.
Il tema della rappresentanza sindacale dei lavoratori del settore del P.I. è sempre stato oggetto di discussione all’interno del movimento sindacale italiano fin dalle sue origini.
Negli ultimi anni, a causa della crisi della centralità del sindacalismo confederale, delle vicende referendarie dell’11 giugno 1995 e del processo costitutivo delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, il dibattito tra le forze politiche e sindacali su quest’argomento si è riaperto, in quanto si è sentita la necessità di dare a questo problema, cioè della rappresentanza sindacale, una definitiva sistemazione. Tutto ciò si è concretizzato. Infatti, il nodo della rappresentanza sindacale è stata risolta con interventi legislativi1 e con accordi sindacali. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, lo scopo di questo lavoro è quello di tracciare un panorama sintetico sull’evoluzione delle rappresentanze sindacali, partendo dall’origine, vale a dire dai CARS, fino all’accordo dell’aprile 1994 (RSU).
2. Dai CARS all’accordo del 23 luglio 1993: RSU.
A partire dalla metà degli anni ‘80 Cgil, Cisl e Uil hanno riavviato il confronto interno nel tentativo di individuare nuovi modelli che potessero superare la crisi della rappresentatività ipotizzando nuove forme di rappresentanza in azienda.
Si è pervenuto, così, in data 26 maggio 1989, ad un’ipotesi di accordo tra Cgil, Cisl e Uil per la costituzione dei Consigli Aziendali delle Rappresentanze Sindacali (CARS)2. Tale ipotesi di accordo prevedeva che il Consiglio Aziendale fosse eletto con quota paritetica, cioè 50%, tra gli iscritti alle Federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil e tutti i lavoratori, salvo il correttivo, per le unità con più di 70 dipendenti in cui i Consigli hanno un numero dispari di componenti, costituito dalla attribuzione della unità non divisibile alla quota eletta da tutti i lavoratori e della elevazione al 55% della quota eletta da tutti i lavoratori nelle unità produttive con oltre 5.000 dipendenti3. Inoltre, per la quota eletta da tutti i lavoratori, le liste potevano essere presentate dalle Federazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil e da “gruppi di lavoratori” non aderenti, che ottengono la sottoscrizione alla propria lista di almeno il 205 dei lavoratori (per votazioni riferite alle singole aree) ovvero il 10% (per votazioni riferite all’intera unità produttiva). In questo modo, si può osservare che si stabiliva una ripartizione fifty/fifty tra le quote di rappresentanza di organizzazione e le quote elettive4.
Le critiche a quest’ipotesi di accordo sono state tali che il progetto non è stato più seguito e per questo motivo le tre Confederazioni hanno definito con l’intesa-quadro 1° marzo 19915 un nuovo modello organizzativo, le RSU (rappresentanze sindacali unitarie). Essa si componeva di due parti: nella prima le tre Confederazioni stabiliva un insieme di regole unitarie cui devono uniformare i loro comportamenti sindacali e nella seconda definiva le modalità di costituzione delle RSU. Con riferimento a questo secondo aspetto, l’intesa stabiliva che le RSU venissero costituite nei luoghi di lavoro e potessero partecipare tutti i lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato. Le liste potevano essere presentate non solo dagli organismi sindacali aderenti alle tre Confederazioni, ma anche da altri soggetti sindacali, purchè quest’ultimi raccogliessero almeno il 5% delle firme degli aventi diritto al voto. Invece, sulle ripartizione dei seggi, a differenza dell’ipotesi di accordo sui CARS, l’intesa del 1° marzo 1991 prevedeva che il 67% fosse assegnato alle diverse liste concorrenti in misura proporzionale ai risultati conseguiti, mentre il restante 33% venisse ripartito in maniera eguale tra le tre Confederazioni indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuti da ciascuna di esse.
Anche questa intesa non è stata attuata dalle tre Confederazioni a causa della mancata realizzazione degli accordi attuativi di categoria dovuta, molto spesso, allo scarso clima unitario esistente in molte categorie tra le varie Federazioni6.
Successivamente, il modello RSU è stato rilanciato nell’ambito dell’accordo 3-23 luglio 19937, sottoscritto dal Governo, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e del sostegno al sistema produttivo. Nell’accordo di luglio si legge testualmente che “la composizione delle rappresentanze deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti”. A mio avviso sembra che l’accordo di luglio 1993 si differenza dall’intesa-quadro 1° marzo 1991 e dall’ipotesi di accordo sui CARS del 1989, in quanto questi ultimi accordi facevano riferimento alle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, vale a dire Cgil, Cisl e Uil. Invece, l’accordo di luglio abbandona il concetto di maggiore rappresentatività presunta e fa riferimento per la quota non elettiva (1/3) alle organizzazioni stipulanti il CCNL. Ciò significa che non viene più premiato il sindacato definibile come maggiormente rappresentativo sulla base di indici presuntivi e solidaristici; ma il sindacato che ha stipulato il CCNL.
3. L’accordo di aprile 1994: RSU e P.I.
Le previsioni contenute nell’accordo triangolare del 3-23 luglio 1993 hanno avuto, poi, una concreta attuazione, nel settore privato, con l’accordo interconfederale del 20 dicembre 1994, siglato da Confindustria, Intersind, Cgil, Cisl e Uil e con successiva adesione di Cisal e Cisnal; e, relativamente, al settore del P.I., con il Protocollo di intesa del 20 aprile 1994, sottoscritto tra l’ARAN e Cgil, Cisl e Uil. Ad esso sono seguiti quelli sottoscritti dai maggiori sindacati autonomi di contenuto assai simile8 ed ulteriori Protocolli ad ambito più ristretto, sottoscritti dalle tre Confederazioni nel comparto dei Ministeri9 ed in quello delle Regioni ed Autonomie locali10.
Nel protocollo del 1994 si prevede che le RSU possono essere costituite nelle unità produttive con più di 15 dipendenti. Tale formula rievoca l’art.19 dello Statuto dei lavoratori, sia per quanto concerne il riferimento al concetto di unità produttiva, e sia per i limiti dimensionali indicati per la costituzione delle rappresentanze aziendali. Viceversa nella nuova disciplina, a differenza dello Statuto, il potere di iniziativa è riconosciuto ad una pluralità di soggetti: 1) alle “associazioni sindacali firmatarie dell’accordo del 3-23 luglio 1993”; 2) a quelle firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva; 3) alle associazioni sindacali che abbiano espresso adesione formale al contenuto dell’accordo, sempre che siano formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo ed inoltre la lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto. Per quanto riguarda il meccanismo elettorale, il Protocollo del 20 aprile 1994 ripropone la composizione mista delle RSU, già proposta dall’accordo del 3-23 luglio 1993, restaurando quindi la formula fatta propria dall’accordo sui Cars. Infatti, in base all’art.2, prima parte, le RSU sono costituite: per 2/3 dei seggi, mediante elezione a suffragio universale ed a scrutinio segreto tra liste concorrenti, mentre 1/3 viene assegnato alle liste presentate dalle associazioni sindacali firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva, ed alla sua copertura si procede mediante elezione, o designazione in proporzione ai voti ottenuti. In questo modo, a mio avviso, viene preferita la regola che 1/3 della RSU sia attribuita a rappresentanti eletti o designati dai sindacati stipulanti il CCNL applicato nelle unità produttive e non quella della maggiore rappresentatività.
Questo modello di investitura fa sì che la RSU si configura, da un lato, come organo di rappresentanza dei lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato e, dall’altro, come organo di comune ed esclusivo di rappresentanza dei sindacati nell’azienda.
Da ciò si evince, a mio avviso, che tale formula vuole sostituire quella della maggiore rappresentatività, privilegiando quella imperniata sul richiamato dato contrattuale.
Pubblicato su diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 14/10/2003
Gli interventi promossi dall’Unione Europea sul mobbing
di
Rocchina Staiano
SOMMARIO: -1. Cos’è il mobbing? -2. Alcuni dati sul fenomeno mobbing nei Paesi Europei. -3. Unione Europea e mobbing: la nuova Carta Sociale Europea e la Risoluzione del 2001.
1. Cos’è il mobbing?
Il mobbing, nel mondo del lavoro, non è un fenomeno nuovo, ma solo la sua denominazione è recente. Sino ad una decina di anni fa il significato del termine mobbing era sconosciuto; i primi studi vennero fatte da H. Leymann agli inizi degli anni ’80, il quale considerò il mobbing come “azioni che hanno la funzione di manipolare la persona in senso non amichevole” . Tali azioni si possono distinguere in cinque gruppi di comportamenti, che Leymann definì LIPT. Un primo gruppo di azioni riguarda la comunicazione con la persona da mobbizzare (gli si rifiuta il contatto con gesti, con sguardi scostanti o con allusioni indirette, con lui/lei si urla, si rimprovera, si critica continuamente il suo lavoro o la vita privata, ecc…); un secondo gruppo (riguarda) le relazioni sociali (non gli si parla più, non gli si rivolge la parola, si proibisce ai colleghi di parlare con lui, ci si comporta come se lui non esistesse, ecc…); un terzo gruppo (riguarda) l’immagine sociale (lo si ridicolizza, si sparla alle sue spalle, si spargono voci infondate su di lui, si prende in giro un suo handicap fisico, gli si fanno offerte sessuali, verbali e non, ecc…); un quarto gruppo (riguarda) la qualità della situazione professionale e privata (gli si danno più compiti da svolgere, gli si danno lavori senza senso, gli si danno lavori umilianti, ecc…) ed, infine, un quinto gruppo (riguarda) la salute (lo si costringe a fare lavori che nuocciono alla sua salute, lo si minaccia di violenza fisica, gli si causano danni per svantaggiarlo, ecc…). Poi, la conoscenza del fenomeno mobbing si diffuse in tutta Europa.
Per mobbing intendiamo qualsiasi forma di terrorismo psicologico, esercitato nell’ambiente di lavoro in modo ripetuto, da chi, nella maggior parte dei casi, detiene il potere decisionale capace di incidere nella sfera giuridica altrui. Quindi, il mobbing, si caratterizza attraverso vari comportamenti che presi isolatamente esistono da sempre (ad esempio: l’attivazione di una forte politica di repressione al punto che il dipendente è affiancato dai sorveglianti che devono controllare i minuti di pausa per il ristoro o i bisogni fisiologici; il confinamento in un edificio dello stabilimento in disuso e privo di sicurezza; le molestie sessuali; le continue minacce di licenziamento in caso di rifiuto a lavorare nei giorni festivi; i subdoli ricatti di non trasformare il contratto di formazione e lavoro in contratto a tempo indeterminato se il lavoratore non avesse acconsentito a svolgere le “mansioni più disparate”; le immotivate censure sul lavoro prodotto dal dipendente; i maltrattamenti verbali del superiore gerarchico davanti ai colleghi di lavoro; ecc…) , ma la loro ripetizione quotidiana li fa diventare mobbing e ciò colpisce gravemente la persona, la quale ha delle ripercussioni importanti sulla sua salute, fisica o psicologica. Infatti, secondo studi di sociologi e psicologi, il mobbing può provocare in un primo momento sintomi di stress: nervosismo, irritabilità, ansietà, perdita del sonno, ecc… Dopo qualche mese, questi sintomi si trasformano in problemi psichici fino a portare al suicidio.
Dunque, il mobbing è un fenomeno di non secondaria importanza e non deve essere, a mio avviso, sottovalutato.
2. Alcuni dati sul fenomeno mobbing nei Paesi Europei.
Il Rapporto ILO del 1998 sulle violenze nei luoghi di lavoro ha stabilito che in Europa l’8,1% dei lavoratori è vittima di violenze psicologiche di ogni tipo in ambito lavorativo; il che, tradotto in percentuale, equivale a ben 12 milioni di persone. In particolare, le persone vittime di mobbing in Gran Bretagna sono il 16,3%; in Svezia il 10,2%; in Francia il 9,9%; in Irlanda il 9,4%; in Germania il 7,3%; in Spagna il 5,5%; in Belgio il 4,8%; in Grecia il 4,7%; in Italia il 4,2%; ecc… Dal 1998 ad oggi, il trend di crescita del fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro non è cambiato; infatti, il terzo rapporto europeo sulle condizioni di lavoro , compiuto su 21.500 lavoratori appartenenti ai 15 Stati membri dell’Unione Europea, nella primavera del 2000, stima che il 2% (3 milioni) dei lavoratori sono stati molestati sessualmente e il 6% (9 milioni) sono stati oggetto di violenza fisica nei luoghi di lavoro negli ultimi 12 mesi.
Interessante risulta, a mio avviso, mettere a confronto le caratteristiche del mobbing in alcuni Paesi Europei , vale a dire in Italia, in Germania, in Francia e in Danimarca.
In Italia, una ricerca effettuata dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, nel giugno 2000, riferisce che il 71% delle denunce riguarderebbe i dipendenti del pubblico impiego. Nel 62% dei casi, si tratterebbe di persone con più di 50 anni; l’81% sarebbe, poi, composto da quadri e impiegati. Da un’altra analisi risulterebbe che ad esercitare il mobbing sarebbero per il 57,3% i superiori e per il 30,3% i colleghi.
Secondo una statistica del 1999, in Germania, il 65% dei casi di mobbing provengono dall’impiego medio (segretaria, venditore/commesso, impiegato commerciale, ecc…); il 30% da impieghi di livello più alto ed il 5% da settori più bassi (operaio, personale delle pulizie, ecc…). La tipologia più diffusa è quella dal “basso verso l’alto” per il 75% e, poi, segue per il 30% quella tra pari.
In Francia, invece, vengono colpiti tutti i settori, anche se i campi più interessati al fenomeno sono il terziario, la Sanità e la Scuola. A seguito dell’inchiesta fatta da M.F. Hirigoyen, il mobbing viene esercitato sul lavoratore dai superiori o da colleghi.
Infine, dai risultati di studi danesi risulta che gli operai e gli impiegati di livello medio-basso vengono vessati dai loro superiori e, allo stesso tempo, dai colleghi.
3. Unione Europea e mobbing: la nuova Carta Sociale Europea e la Risoluzione del 2001.
A causa della diffusione sempre più crescente del fenomeno, i Paesi dell’Unione Europea hanno iniziato ad affrontarlo, negli ultimi anni, con due importanti iniziative.
Innanzitutto, il 3 marzo 1996, nove Stati membri del Consiglio d’Europa hanno firmato a Strasburgo la nuova versione della Carta Sociale Europea . L’obiettivo della Carta Sociale revisitata è quello di riprendere i diritti già figuranti nella precedente Carta (come il diritto a condizioni di lavoro equo , il diritto alla sicurezza e all’igiene nel lavoro , il diritto alla protezione alla salute , ecc…) ed instaurarne nuovi, ad esempio, il diritto alla dignità al lavoro. Tale diritto è disciplinato dall’art.26, il quale afferma che “allo scopo di assicurare l’esercizio effettivo del diritto di ogni lavoratore alla protezione della loro dignità al lavoro, le Parti si impegnano, in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori: 1. a promuovere la sensibilizzazione, l’informazione e la prevenzione in materia di assillo sessuale sul luogo di lavoro o in relazione con il lavoro, ed a prendere ogni misura appropriata per proteggere i lavoratori contro tali comportamenti;
2. a promuovere la sensibilizzazione, l’informazione e la prevenzione in materia di atti condannabili o esplicitamente ostili ed offensivi diretti in modo ripetuti contro ogni lavoratore sul luogo di lavoro o in relazione con il lavoro, e a prendere ogni misura appropriata per proteggere i lavoratori contro tali comportamenti. Il paragrafo 2 non copre l’assillo sessuale”.
Con l’introduzione di questo nuovo diritto, vale a dire il diritto alla dignità al lavoro, si suole migliorare la protezione dei diritti sociali dei lavoratori dei 20 Paesi europei.
In secondo luogo, il Parlamento Europeo ha approvato il 20 settembre 2001 la Risoluzione “mobbing sul posto di lavoro”. Il documento, dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia e sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e conducono generalmente ad un congedo per malattia o alle dimissioni, esorta gli Stati membri a rivedere e/o a completare la propria legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie “mobbing” ed, infine, ad elaborare, con l’ausilio delle parti sociali, idonee strategie di lotta contro il mobbing e la violenza sul posto di lavoro. In tale contesto, raccomanda la messa a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che pubblico; e per questo motivo ricorda la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi. Il documento invita, inoltre, la Commissione a presentare, entro marzo 2002, un Libro verde recante un’analisi approfondita della situazione relativa al mobbing in Italia e in ogni Stato membro e, poi, entro ottobre 2002 un “programma d’azione” contenente le misure comunitarie contro il mobbing. Infine, la Commissione viene esortata ad esaminare la possibilità di applicare la direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro o ad elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore, della sua intimità e del suo onore.
www.diritto.it/articoli/amministrativo/dir_amn.html del 30/10/2003
MINI RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE SUL PATTO DI PROVA NEL PUBBLICO IMPIEGO “PRIVATIZZATO”.
di Rocchina Staiano
1. Caratteristiche dell’istituto.
I. La circostanza che un dipendente comunale, dichiarato dimesso dal servizio per esito sfavorevole del periodo di prova, abbia assunto servizio presso altro ente non puo essere assunta a parametro di un preteso sopravvenuto difetto di interesse del medesimo a coltivare il ricorso avverso il provvedimento di dimissione (T.A.R. Puglia sez. II, Bari, 24 novembre 1993 n. 689, in Foro Amm., 1994, p. 1241).
II. La definitiva valutazione del periodo di prova è atto dovuto e pertanto non è soggetto a comunicazione di avvio del procedimento. Il provvedimento sfavorevole in tema di rapporto di lavoro pubblico deve essere motivato solo succintamente (T.A.R. Veneto, sez. I, 25 giugno 1998 n. 1188, in Riv. Personale Ente Locale, 1999, p. 133).
III. Il giudizio sull operato del dipendente durante il primo periodo di attività, poichè comporta una valutazione tecnica della prestazione lavorativa, spetta necessariamente al vertice dirigenziale competente ad esprimere un appropriato giudizio di valore e di capacità professionale dell impiegato; di conseguenza, in caso di pronuncia di recesso per mancato superamento del periodo di prova, non è possibile prescindere dall acquisizione del parere del capo della struttura burocratica (T.A.R. Sardegna, 28 gennaio 1999 n. 33, in Foro Amm., 1999, p. 1348).
IV. Il periodo di prova costituisce istituto di carattere generale, la cui applicazione non può essere esclusa nei confronti di pubblici impiegati immessi in ruolo per effetto di disposizioni di legge e non a seguito di pubblico concorso (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 1999 n. 249, in Foro Amm., 1999, p. 750).
V. La positiva conclusione del periodo di prova da parte di un pubblico dipendente rileva solo ai fini dell inquadramento in ruolo di cui costituisce presupposto necessario; ma se tale esito non si verifica non per questo il periodo di servizio prestato resta privo di effetti, "tamquam non esset". Infatti esso va valutato come servizio effettivo nella qualifica di inquadramento provvisorio e ciò vale tanto per un neo assunto quanto per un soggetto dipendente della medesima amministrazione con la differenza che nel primo caso il rapporto di impiego pubblico si esaurisce con la non immissione in ruolo dell aspirante mentre nel secondo il rapporto può proseguire nella qualifica di provenienza (T.A.R. Lombardia sez. III, Milano, 18 marzo 1999 n. 861, in Comuni Italia, 1999, p. 1443).
VI. In sede di giudizio sul superamento o meno del periodo di prova, l amministrazione gode di ampia discrezionalità, che si esprime nella valutazione complessiva dell attività del dipendente ai fini della prosecuzione del rapporto di impiego, senza che sia necessaria un ampia e specifica motivazione, anche in caso di giudizio negativo (Cons. Stato, sez. VI, 17 agosto 1999 n. 1064, in Cons. Stato, 1999, I, p. 1227).
2. Costituzione ed atto di nomina.
I. Alla P.A., per quanto attiene il periodo di prova del pubblico impiegato, è riconosciuto un potere sindacatorio sia sulle qualità, relative al corretto svolgimento delle mansioni, sia sull intera personalità del dipendente, specialmente quando il rapporto non può prescindere dall elemento fiduciario o si connota in modo particolare all immagine dell amministrazione ed al suo prestigio (Cons. Stato sez.IV, 18 novembre 1989 n. 810, in Riv. corte conti 1989, n. 6, p. 229).
II. Il giudizio negativo nel periodo di prova di un pubblico dipendente non deve necessariamente essere fondato sulla puntuale descrizione di fatti specifici e documentati, essendo sufficiente che esprima un attendibile ed analitica enunciazione delle carenze in generale riscontrate nell attività del dipendente (Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 1993 n. 1036, in Foro Amm., 1993, p. 2086).
III. La coesistenza tra elementi negativi e aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento costituisce valido fondamento per il provvedimento di prolungamento del periodo di prova di un pubblico impiegato occorrendo, nell interesse del dipendente e della stessa amministrazione, pervenire ad un giudizio complessivo su ogni profilo della prestazione del servizio (Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1993 n. 519, in Cons. Stato, 1993, I, p. 551).
IV. Allorquando un pubblico dipendente di ruolo accetti la nomina ad altro pubblico impiego, il precedente rapporto si estingue e ne sorge uno nuovo, anche se per questo è prescritto il periodo di prova; pertanto, se la prova ha esito negativo, non vi è la reviviscenza del precedente rapporto, in quanto l estinzione di questo non è risolutamente condizionata all esito negativo della prova concernente il nuovo rapporto (Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 1994, n. 672, in Giur. It., 1994, III 1, p. 766).
V. Il rapporto di lavoro subordinato pubblico si costituisce con la nomina in servizio e la relativa immissione, mentre il periodo di prova serve solo una fase necessaria per il suo consolidamento, nella quale il dipendente, salvo che non sia espressamente disposta, ha gli stessi diritti ed è soggetto agli stessi doveri dell impiegato di ruolo. Pertanto, se la nomina del dipendente è condizionata all accertamento dei requisiti della sua idoneità professionale in esito ed alla scadenza del periodo di prova, l avveramento positivo di detta condizione si risolve nella conferma, con decorrenza retroattiva, dell instaurazione del rapporto medesimo (Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 1999 n. 100, in Foro Amm., 1999, p. 337).
VI. Il provvedimento col quale l amministrazione annulla d ufficio un atto di nomina di un pubblico dipendente a distanza di tempo dall immissione in servizio e dal superamento del periodo di prova richiede una specifica motivazione sull interesse pubblico, concreto e attuale, risultando ininfluente la circostanza che l atto in questione, ancorchè portato ad esecuzione, non fosse stato ancora registrato alla Corte dei conti (T.A.R. Trentino A.A. sez. Bolzano, 10 ottobre 1998, n. 389, in Comuni Italia, 1999, p. 952).
3. Invalidi.
I. Deve essere sottoposto al periodo di prova anche l impiegato assunto ai sensi della L. 2 aprile 1968 n. 482, e ciò perchè il particolare "status" dallo stesso rivestito rileva ai fini della costituzione del rapporto ma non comporta deroghe alla disciplina che ne regola lo svolgimento; di conseguenza anche nei suoi confronti può essere disposta la risoluzione del rapporto per esito negativo della prova senza che la motivazione debba ispirarsi a criteri diversi da quelli eseguiti per la genericità degli impiegati (T.A.R. Veneto, sez. II, 19 maggio 1998 n. 693, in Riv. Personale Ente Locale, 1999, p. 138).
II. Il dipendente pubblico invalido può essere dispensato dal servizio per mancato superamento del periodo di prova soltanto se le carenze riscontrate durante il suddetto periodo non siano espressione dell’invalidità riscontrata al momento dell’assunzione (T.A.R. Liguria, sez. II, 13 aprile 1999 n. 160, in Foro amm. 2000, p. 561).
4. Giurisdizione: in genere
I. Sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine al provvedimento di recesso dell’amministrazione dal contratto individuale di lavoro per negativo esperimento del periodo di prova, considerato che le innovazioni legislative apportate con il D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, non determinano il venir meno della posizione di supremazia dell ente pubblico ed il conseguente carattere amministrativo del relativo atto (T.A.R. Piemonte, sez. II, 4 febbraio 1999, n. 55, in Foro Amm., 1999, p. 1533, con nota di Delfino).
5. Dimissioni e risoluzione.
I. Costituisce principio generale del rapporto di pubblico impiego (art. 224 T.U. 3 marzo 1934 n. 383 ed art. 10 T.U. 10 gennaio 1957 n. 3) che il mancato intervento di un atto di recesso alla scadenza del termine massimo del periodo di prova equivale ad un atto esplicito di superamento della prova; pertanto, l amministrazione, trascorso il predetto termine, non ha più il potere di deliberare, anche ove il provvedimento di dimissione per fallito esperimento sia stato annullato in sede giurisdizionale, con la conseguenza che il dipendente deve ritenersi aver superato il periodo di prova (Cons. Stato, sez.IV, 23 gennaio 1986 n. 51, in Cons. Stato, 1986, I, p. 50).
II. E’ legittima la risoluzione del rapporto d impiego pubblico, disposto dal sindaco ai sensi dell art. 25, D.P.R. 25 giugno 1983 n. 347 ed in base a due deliberazioni che esprimono un giudizio negativo sul periodo di prova e sulla relativa proroga, svolti dal dipendente, posto che il parere del capo dell unità organica, cui quest ultimo è stato applicato, è necessario soltanto per il primo semestre di prova e non anche per la proroga (Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 1996 n. 1157, in Foro Amm., 1996, p. 2640).
III. E legittima la risoluzione del rapporto di lavoro subordinato di un pubblico dipendente, statuita dopo ed in esito al periodo di prova, nel caso in cui questi sia stato adibito unilateralmente dalla p.a. datrice di lavoro ad una sola delle mansioni comprese nella qualifica funzionale d assunzione e ne abbia reiteratamente rifiutato l assegnazione (Cons. Stato, sez. V, 1 aprile 1997 n. 306, in Foro Amm., 1997, p. 1076).
IV. La risoluzione del rapporto d impiego per esito negativo del periodo di prova deve essere pronunciata previo parere favorevole del consiglio di amministrazione (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 1999 n. 249, in Cons. Stato, 1999, I, p. 439).
V. La risoluzione del rapporto di lavoro subordinato del pubblico dipendente in prova incide su interessi fondamentali di costui e della stessa p.a. datrice di lavoro e, pertanto, esige un’accurata e motivata ponderazione di tutte le circostanze ai fini della formulazione del giudizio d idoneità, o meno, del dipendente medesimo alla prosecuzione del rapporto. E quindi illegittimo il licenziamento del dipendente per mancato superamento del periodo di prova, quando, invece di un rigoroso giudizio sulle di lui reali capacità lavorative, la p.a. si limita ad asserire che costui non è tagliato per svolgere il lavoro per cui è stato assunto malgrado si sia, addirittura, classificato ai primi posti della graduatoria del concorso con cui è stato reclutato (Cons. Stato, sez. V, 1 ottobre 1999 n. 1239, in Foro Amm., 1999, p. 2065).
6. Provincia Autonoma di Bolzano.
I. Ai sensi dell art. 59 n. 9 della L. prov. Bolzano 21 maggio 1981 n. 11, l amministrazione dispone di tre mesi dal compimento del periodo di prova per confermare la nomina del dipendente (o risolvere il rapporto di impiego) o per prorogare il periodo di prova per altri sei mesi; tale periodo di proroga decorre dalla data di scadenza del primo periodo, perchè altrimenti, il periodo di prova massimo non sarebbe di un anno e sei mesi - come previsto dalla citata normativa - bensì di un anno e nove mesi (Cons. Stato, sez.VI, 31 luglio 1987 n. 528, in Cons. Stato, 1987, I, p. 1153).
www.diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 18/12/2003
L’EVOLUZIONE NORMATIVA IN TEMA DI SICUREZZA SUL LAVORO
di Rocchina Staiano
1. La sicurezza nei luoghi di lavoro: dal codice civile del 1865 alla legislazione degli anni ’70.
Il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, in Italia1, ha sempre occupato e, a mio avviso, occupa l’attenzione del nostro legislatore. Tale materia ha subito, negli ultimi due secoli, un radicale e decisivo cambiamento.
In origine, vale a dire con il codice civile del 1865, si parlava di responsabilità basata sulla colpa; poi con la L. 80/1898, che introdusse l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, si è fatto strada il concetto della responsabilità oggettiva del datore di lavoro limitata alla “riparazione del danno”, la quale comportava il “ristoro economico” per il lavoratore che subiva l’infortunio.
Con l’avvento della Costituzione del 1948, è in particolare con gli artt. 32 e 41, 2° comma, si è affermato che la salute è tutelata, da un lato, come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e, dall’altro, come limite all’esercizio dell’iniziativa economica privata. Il principio della tutela della salute non è soltanto garantito da fonti costituzionali, ma ha trovato e trova, ancor oggi, il suo riconoscimento nell’art. 2087 c.c. L’art. 2087 c.c., rubricato, non a caso, “tutela delle condizioni di lavoro”, costituisce la norma principale e chiave in materia di misure antinfortunistiche. Infatti, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel rilevare che l’art. 2087 c.c. pone a carico dell’imprenditore-datore, ma anche di tutti coloro che esercitano l’impresa avvalendosi di prestatori d’opera dipendenti, l’obbligo di adottare, in tutti i posti, in tutte le fasi del lavoro, in ogni luogo e in ogni momento, le misure necessarie per tutelare l’incolumità e l’integrità fisica del lavoratore. Le misure previste dall’art. 2087 c.c. è che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa possono essere indicate dalla legge oppure possono essere oggetto di previsione contrattuale (c.d. misure antinfortunistiche atipiche), posto che l’adozione di queste ultime rispondano all’esigenza di previsione del rischio specifico.
Nel nostro orientamento, inoltre, non solo vige un generalissimo principio che fa obbligo all’imprenditore di tutelare l’integrità fisica dei dipendenti-lavoratori ed adottare le misure necessarie, ma lo stesso imprenditore è responsabile anche della loro attuazione, dovendo e potendo esigere che il personale interessato usi i mezzi antinfortunistici posti a disposizione2.
La genericità dell’obbligo di sicurezza disposto dall’art. 2087 c.c. ha evidenziato che il quadro normativo italiano, in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, dovesse essere arricchito da nuove disposizioni più specifiche e tecniche. Infatti, la L. 12 febbraio 1955 n. 51, delegando il Governo ad emanare norme in materia di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, ha dato vita ad una serie di provvedimenti: alcuni di carattere generale3 ed altri di carattere speciale4. Questo corpus normativo ha il merito di aver, da un lato, esteso il campo di applicazione delle norme antinfortunistiche, a tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati e, dall’altro, individuato specifici obblighi in capo al datore di lavoro, dirigente, preposto, costruttori e lavoratori.
Il quadro normativo in materia di sicurezza si completa successivamente negli anni ’70, con l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori5, il quale attribuisce alle rappresentanze dei lavoratori, senza necessità di alcun mandato da parte di quest’ultimi, la tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, sia attraverso il controllo e la promozione delle necessarie iniziative contrattuali, sia attraverso la partecipazione al processo penale, avente ad oggetto la responsabilità penale dei titolari dell’impresa per inosservanza delle norme sulla sicurezza del lavoro. Con il passare di alcuni anni, le rappresentanze dei lavoratori previste dall’art. 9 St. sono state assorbite dalle RSA, disciplinate dall’art. 19 St.6.
2. Il D. Lgs. 626/1994: “la nuova sicurezza”.
Dopo un lungo periodo di silenzio, il legislatore italiano ha emanato il D. Lgs. 19 settembre 1994 n. 6267, il quale ha recepito la direttiva comunitaria n. 391 del 1989 ed altre sette direttive8. Con il decreto legislativo in esame, in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, vengono introdotti aspetti specifici e profili innovativi: la programmazione e la procedimentalizzazione dell’obbligo di sicurezza; la formazione, l’informazione e la consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti; l’introduzione di nuove norme concernenti la movimentazione manuale dei carichi, l’uso dei videoterminali, la protezione da agenti cancerogeni e da agenti biologici; l’aumento dei soggetti obbligati sia a tutelare la salute dei lavoratori e sia a garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro (ad es.: datore di lavoro, dirigenti, preposti, costruttori, installatori, venditori, ecc…) ed, infine, l’individuazione di nuove figure, aventi compiti e ruoli specifici, che sono: il medico competente9; il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP)10 e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)11 o il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale (RLST)12. Il D. Lgs. 626/1994, quindi, abbandona il modello, basato sull’imposizione che il datore di lavoro è l’unico soggetto, titolare di una serie di obblighi e di doveri, per accogliere quello incentrato sul concetto di “sicurezza partecipata”, in cui viene riconosciuto ai lavoratori, oltre il diritto ad essere informati sui mezzi per fronteggiare i rischi sul lavoro, anche quello di ricevere una adeguata formazione in materia di salute e sicurezza. Il nuovo modello si fonda sulla partecipazione dei lavoratori, considerati come “protagonisti attivi e responsabili, chiamati a cooperare con il management aziendale per la realizzazione degli obiettivi della prevenzione” 13. In questo modo, viene attribuito al lavoratore un nuovo ruolo e ciò traspare, anche, dall’art. 5 del D. Lgs. 626/199414, il quale stabilisce che ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. In particolare i lavoratori: osservano le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; utilizzano correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonchè i dispositivi di sicurezza; utilizzano in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; segnalano immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dispositivi di sicurezza, nonchè le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; non rimuovono o modificano senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo; non compiono di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori; si sottopongono ai controlli sanitari previsti nei loro confronti; contribuiscono, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro.
www.diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 29/12/2003
L’INFORMAZIONE DEI LAVORATORI
di Rocchina Staiano
1. Il diritto di informazione dei lavoratori nei D.P.R. 547/1955 e 303/1956.
Il diritto di informazione dei lavoratori, in materia antinfortunistica, nel corso degli anni, è stato sottoposto a continui mutamenti.
In origine era regolato dall’art. 4, lett. b), del D.P.R. 19 marzo 1955 n. 547, il quale stabilisce che i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le norme essenziali di prevenzione mediante affissione, negli ambienti di lavoro, di estratti delle presenti norme o, nei casi in cui non sia possibile l’affissione, con altri mezzi. Tale obbligo è stato, successivamente, ribadito nell’art. 4, lett. b), del D.P.R. 303/1956 .
L’obbligo di informazione impone all’imprenditore, non di spiegare di volta in volta al lavoratore il modo di comportarsi in qualsiasi operazione elementare propria della sua attività e del suo livello professionale, ma di informarlo in via preliminare, e una volta per sempre sui rischi specifici, propri e particolari da affrontare nell’attività ad esso affidata. Infatti, l’informazione fornita al lavoratore non deve riguardare ogni rischio generico, dal momento che a chiunque può capitare indipendentemente dall’uso dei macchinari predisposti, ma (deve riguardare) rischi specifici, indicando le possibili conseguenze dannose che si verifichino durante l’attività lavorativa di sua competenza, realizzata, per l’appunto, con l’uso di quei macchinari .
2. L’informazione dei lavoratori prima del D. Lgs. 626/1994.
Inoltre, il diritto di informazione, disciplinato, come si è già detto, dagli artt. 4, lett. b) del D.P.R. 547/1955 e 4, lett. b), del D.P.R. 303/1956, è stato riaffermato, non solo dalla legislazione interna, ma anche da alcune Convenzioni dell’OIL e dalla direttiva comunitaria n. 391 del 1989.
Per quanto riguarda la legislazione interna, vanno ricordati, ad esempio, l’art. 7 del D.P.R. 962/1982, il quale afferma che “il datore di lavoro deve informare del pericolo che il cloruro di vinile monomero presenta per la salute e delle precauzioni da prendere per la manipolazione dello stesso i lavoratori all’atto della loro assunzione ed in ogni caso prima che essi siano adibiti alle lavorazioni e successivamente con periodicità almeno annuale” , gli artt. 3, 2° comma, 5 e 11, 3 comma, del D.P.R. 175/1988, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “il fabbricante è tenuto a dimostrare, ad ogni richiesta dell’autorità competente, di avere provveduto all’individuazione dei rischi di incidenti rilevanti, all adozione delle appropriate misure di sicurezza e all’informazione, all’addestramento e all’equipaggiamento, ai fini di sicurezza, del dipendente e di coloro che accedono all’azienda per motivi di lavoro” , che “nella dichiarazione il fabbricante deve precisare che si è provveduto, indicando le modalità: …c) all’informazione, all’addestramento e all’attrezzatura, ai fini della sicurezza delle persone che lavorano in situ” e che “… l’informazione … deve contenere almeno le seguenti notizie: a) il tipo di processo produttivo, b) le sostanze presenti e le loro quantità in ordine di grandezza, c) i rischi possibili per i lavoratori, la popolazione e l’ambiente, d) le conclusioni sul rapporto di sicurezza e le misure integrative, e) le misure di sicurezza e le norme di comportamento da seguire in caso di incidente” ; infine, gli artt. 12 e 26 del D. Lgs. 277/1991 , i quali prevedono, rispettivamente, che “… il datore di lavoro fornisce ai lavoratori prima che essi vengano adibiti a dette attività, …, informazioni su: a) i rischi per la salute dovuti all esposizione al piombo, compresi i rischi per il nascituro ed il neonato; b) le norme igieniche da adottare per evitare l’introduzione di piombo, ivi compresa la necessità di non assumere cibi o bevande e di non fumare sul luogo di lavoro; c) le precauzioni particolari per ridurre al minimo l’esposizione al piombo. L’informazione è ripetuta con periodicità triennale e comunque ogni qualvolta vi siano delle modifiche nelle lavorazioni che comportino un mutamento significativo nell’esposizione. …Il datore di lavoro fornisce altresì informazioni, per iscritto e con periodicità annuale, qualora dalla valutazione dei rischi risultino: a) l’esposizione superiore a 40 microgrammi di piombo/per metro cubo di aria …, b) livelli di piombemia uguali o superiori a 35 microgrammi di piombo/per 100 millilitri di sangue, effettivamente corredabili all’esposizione …” e che “…il datore di lavoro fornisce ai lavoratori, prima che essi siano adibiti a dette attività, …, informazioni su: a) i rischi per la salute dovuti all esposizione alla polvere proveniente dall’amianto o dei materiali contenenti amianto; b) le specifiche norme igieniche da osservare, ivi compresa la necessità di non fumare; c) le modalità di pulitura e di uso degli indumenti protettivi e dei mezzi individuali di protezione; d) le misure di precauzione particolari da prendere per ridurre al minimo l’esposizione. L’informazione è ripetuta con periodicità triennale e comunque ogni qualvolta vi siano delle modifiche nelle lavorazioni che comportino un mutamento significativo dell’esposizione. Nelle attività che comportano particolari condizioni di esposizione … l’informazione è ripetuta con periodicità annuale …” .
Invece, per quel che concerne le Convenzioni dell’OIL, importante è la Convenzione n. 148 del 1977 , la quale nell’art. 7, 2° comma, precisa che i lavoratori o i loro rappresentanti hanno diritto di ottenere informazioni e istruzioni sui rischi professionali causati dall’inquinamento dell’aria, dai rumori e dalle vibrazioni sui luoghi di lavoro.
Infine, la direttiva CEE n. 391 del 1989 ribadisce all’art. 10, che i datori di lavoro devono adottare tutte le misure appropriate affinché i lavoratori e/o i loro rappresentanti nell’impresa e/o nello stabilimento ricevano tutte le informazioni necessarie riguardanti i rischi per la sicurezza e la salute ed anche le attività di protezione e di prevenzione riguardanti sia l’impresa e/o lo stabilimento, sia ciascun tipo di posto di lavoro.
Nel quadro così prospettato, emerge una novità che non deve essere assolutamente sottovalutata: nella Convenzione n. 148 del 1977 e nella direttiva CEE n. 391/1989, i destinatari dell’obbligo di essere informati, circa i rischi per la sicurezza e la salute e circa le misure occorrenti per ridurre o sopprimere questi rischi, non sono solo i lavoratori, ma anche i loro rappresentanti. Ciò costituisce una novità, in quanto nei D.P.R. 547/1955 e 303/1956, esaminati nei paragrafi precedenti, considerano il lavoratore, l’unico soggetto destinatario di tale obbligo.
3. L’informazione nel D. Lgs. 626/1994: i beneficiari e...
Il D. Lgs. 626/1994 ha attribuito un ruolo di primaria importanza alla informazione non solo dei lavoratori, ma anche dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Infatti, l’art. 21 del D. Lgs. 626/1994 è interamente dedicato all’ “informazione dei lavoratori”, la quale (informazione) ha come scopo basilare quello di “mettere a conoscenza del lavoratore tutte le notizie e gli elementi tecnici per la salvaguardia della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” . Il destinatario dell’informazione è ogni lavoratore , ma poi precisa che è imposto tale obbligo anche a favore dei lavoratori a domicilio . Tali lavoratori devono essere informati sui rischi per la sicurezza; sulle misure e sulle attività di prevenzione e protezione adottate; sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, alle normative di sicurezze e alle disposizioni aziendali in materia. Non sono ammessi a ricevere le informazioni previste dall’art. 21, 1° comma, lett. e), f) e g) del D. Lgs. 626/1994, in quanto questi dati interessano soltanto i lavoratori interni all’impresa . Analogo diritto di informazione è riconosciuto ai lavoratori con rapporto contrattuale privato di portierato, nonostante nella fattispecie non sia presente una struttura imprenditoriale, come quella richiesta alle lett. a) e b) dell’art. 21, 1° comma, del D. Lgs. 626/1994.
3.1. … i soggetti “promotori”.
Individuati i destinatari dell’obbligo di informazione, occorre soffermarsi sui soggetti che devono impartire le informazioni. L’art. 21 del D. Lgs. 626/1994 individua il datore di lavoro, come il principale degli obbligati a curare l’informazione dei dipendenti. La nozione di datore di lavoro è disciplinata dall’art. 2, 1° comma, lett. b), del D. Lgs. 626/1994, il quale lo definisce come il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, quale definita ai sensi della lettera i), in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa. L’art. 1, comma 4bis, del D. Lgs. 626/1994, affianca al datore di lavoro, anche i dirigenti e i preposti.
Per quanto riguarda la nozione di dirigente, nel nostro ordinamento, manca una definizione legislativa precisa, ma i connotati tipici di questa figura sono ricavabili dai CCNL e dalla giurisprudenza giuslavoristica , dai quali si evince che la figura del dirigente spetta al prestatore d’opera il quale sia in concreto investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i connessi poteri di iniziativa e di discrezionalità, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive di carattere generale e delle esigenze collegate alla struttura e alla funzionalità dell’azienda, di imprimere un indirizzo ed un orientamento a tutta l’attività di essa e a quella dei rami o dei settori in cui si articola, con l’apporto di un autonomo contributo all’organizzazione amministrativa e tecnica dell’azienda stessa, consegue che non è sufficiente la predisposizione ad un nucleo organizzativo, anche se formato da più uffici o reparti con compiti circoscritti al medesimo, dovendo, anche in tal caso, l’attività del dirigente essere caratterizzata, secondo un criterio essenzialmente qualitativo, dalla sua idoneità ad influenzare l’andamento dell’intera azienda o di una sua ramificazione autonoma. In tema infortuni sul lavoro, sono, tra gli altri destinatari delle norme di prevenzione e responsabili del dovere di informazione ai lavoratori, i dirigenti tecnici, ossia coloro che sono preposti alla direzione tecnico-amministrativa dell’azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi e, quindi, sono gli institori, gerenti, direttori tecnici o amministrativi, capi-ufficio, capi-reparto che partecipano solo eccezionalmente al lavoro normale.
Infine, per ciò che concerne la definizione di preposto, essa è desumibile dagli artt. 4 del D.P.R. 547/1955 e 4 del D.P.R. 303/1956, i quali entrambi lo definiscono come colui “che sovrintende a tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o ad essi equiparati”.
www.diritto.it/articoli/previdenza/previdenza.html del 15/01/2004
LA DEFINIZIONE DI INVALIDO CIVILE: TRA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA
di Rocchina Staiano
1. Cosa si intende per invalido civile.
L’art.2, 2° comma, della L. 30 marzo 1971 n.118 definisce invalidi civili tutti “i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età”. L’articolo in esame, dunque, fa rientrare nel concetto di invalido civile anche coloro che sono affetti da minorazioni esclusivamente psichiche, vale a dire da “insufficienza mentale collegata ad insufficienze sensoriali o funzionali come accade per la schizofrenia” . Si è, pertanto, affermato che, a differenza della dizione usata nell’art.5 della L. 625/1966 che escludeva il malato psichico puro dalla categoria degli aventi diritto, l’art.2 della L. 118/1971 ha dilatato la categoria degli invalidi civili ha tutti i cittadini affetti da una minorazione psichica pura, dal momento che “rientra tra le minorazioni congenite o acquisite” (dizione di carattere generale, seguita da esemplificazione cui non può attribuirsi carattere limitativo) previste appunto dalla citata legge del 1971. Il suddetto orientamento è stato successivamente ampliato dalla giurisprudenza maggioritaria sia di merito che di legittimità , la quale ha stabilito che gli invalidi per cause di malattie psichiche, di qualsiasi natura, sono considerati invalidi civili e, quindi, godono di tutti i benefici previsti dalla L. 118/1971. Tutto ciò può essere interpretato come espressione della volontà di migliorare e soddisfare il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, disciplinato dall’art.38 Cost. a “ogni cittadino inabile al lavoro, qualunque sia la causa di tale invalidità”. A tal proposito, va precisato che tale questione, cioè il riconoscimento delle minorazioni psichiche di qualunque natura, ha trovato finalmente una soluzione sia con il D.M. 25 luglio 1980 che ha approvato la tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le malattie invalidanti, nelle quali sono state inserite, senza nessun limite, le minorazioni psichiche e sia con l’art.1 del D. Lgs. 509/1988, il quale dispone che “le minorazioni congenite od acquisite, di cui all’art.2, 2° comma, della L. 30 marzo 1971 n.118, comprendono … le infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente”.
Inoltre, nella nozione di invalido civile devono essere inseriti anche “gli ultrasessantacinquenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età” .
Infine, sono esclusi gli invalidi per cause di guerra, di lavoro, di servizio, i ciechi e i sordomuti, per i quali provvedono altre leggi . Ciò sta a significare che non sussistono le condizioni per essere dichiarato invalido civile, se un soggetto ha avuto il riconoscimento dello status di invalido di guerra, di lavoro o di servizio. Però, se ha una delle suddette minorazione e non ha il citato riconoscimento, può chiedere quello di invalido civile.
Da questa breve analisi dell’art.2 della L. 118/1971, possiamo sintetizzare che sono considerati invalidi civili:
1) i cittadini che sono affetti da minorazioni
- congenite o acquisite,
- fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente;
2) per i minori di diciotto anni e i soggetti ultrassessantacinquenni è necessario che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
2. Rassegna giurisprudenziale.
Pretura Roma, 9 settembre 1978 - Zucconi Mazzini c./ Min. Interno.
Schizofrenia - Assegno mensile - Pensione di invalidità.
L’infermità psichica schizofrenia deve intendersi compresa fra le infermità previste dall’art.2 della L. 30 marzo 1971 n.118 ai fini del diritto alle prestazioni (assegno mensile o pensione) per i mutilati e invalidi civili, rientrando nella formula “insufficienze mentali da difetti sensoriali o funzionali” usata dal legislatore (Riv. Giur. Lav., 1978, III, p.518).
Cassazione civile, sez. lav., 21 ottobre 1980 n.5673 - Min. Interno c./ Fantini
Minorati psichici - Menomazioni congenite o acquisite.
I minorati psichici rientrano nell’ampia categoria degli affetti da menomazioni congenite o acquisite di cui all’art. 2 della L. 30 marzo 1971 n.118, recante nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili (Foro It., 1981, I, p.114).
Cassazione civile, sez. lav., 30 ottobre 1981 n. 5729 - Min. Interno c./ Caselli
Invalidi per cause di natura esclusivamente psichica - Pensione di inabilità.
Le insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali di cui è menzione nell’art.2 della L. 30 marzo 1971 n.118 come cause di inabilità, ai fini dell’erogazione della relativa pensione, comprendono anche i casi di minorazione psichica pura e non solamente quelli di origine organica o derivanti da neurolesione (Giust. Civ., Mass., 1981, fasc. 10).
Pretura Trani 19 dicembre 1988 - Strignano c./ Min. Interno
Esclusione degli invalidi civili - Assegno di invalidità.
Ai sensi del 3 comma, dell’art.2 della L n.118 del 1971 sono esclusi dal diritto alle provvidenze per gli invalidi civili coloro che siano invalidi per causa di guerra, di lavoro, di servizio, nonché i ciechi ed i sordomuti per i quali provvedono altre leggi; pertanto, non compete l’assegno di invalidità al minorato parziale che sia titolare di una rendita INAIL, qualunque sia la percentuale di inabilità al lavoro riconosciuta dall’ente assicuratore, ed ancorché quest’ultima sia inferiore a quella del 33,33% di cui all’art.4 della L. n.482 del 1968 (Foro It., 1990, I, p.3050).
Cassazione Civile, 24 settembre 1988 n.5224 - Min. Interno c./ Notari
Sordomuto - Invalidi civili - Indennità di accompagnamento.
Il sordomuto minore di diciotto anni ha diritto all’indennità di accompagnamento di cui alla L. 11 febbraio 1980 n.18 quando, per il concorso di altra infermità o indipendentemente da essa, sussistano le condizioni stabilite per essere dichiarato invalido civile ed al tempo stesso sia impossibilitato a compiere gli atti quotidiani di vita senza l’aiuto permanente di un accompagnatore, atteso che l’esclusione dei sordomuti dalle categorie destinatarie della disciplina della invalidità civile, quale posta dall’art.2, 3 comma, della L. 30 marzo 1971 n.118, riguarda soltanto i soggetti i quali godano di altre specifiche provvidenze e pertanto si riferisce unicamente ai sordomuti ultradiciottenni per i quali vige la disciplina speciale posta dalla L. 26 maggio 1970 n.381 (Giust. Civ., 1989, I, p.65).
Tribunale Firenze, 5 gennaio 1992 - Pellegrini c./ Min. Interno
Ultrasessancinquenni e invalidi civili - Indennità di accompagnamento.
L’art.2, 3 comma, della L. 30 marzo 1971 n.118, comma aggiunto dell’art.6 del D. Lgs. 23 novembre 1988 n.509, statuisce che i soggetti ultrasessantacinquenni hanno diritto a godere della indennità di accompagnamento qualora manifestino una “difficoltà persistente a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età”; il legislatore, pertanto, ha attenuato per tale categoria di cittadini,
in considerazione dell’età, il più rigoroso requisito previsto dall’art.1 della L. n.18/1980 per la concessione del beneficio “impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita” (Toscana Lav. Giur., 1992, p.250).
Cassazione Civile, sez. lav., 3 febbraio 1999 n.931 - Min. Interno c./ Cavoto
Ultrasessantacinquenni - indennità di accompagnamento - Requisiti
Le condizioni previste dall’art.1 della L. n.18 del 1980 per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento consistono, alternativamente, nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure nell’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza continua assistenza; ai fini della valutazione di dette situazioni non rilevano episodici contesti, ma è richiesta una verifica della loro inerenza costante al soggetto e non in rapporto ad una soltanto delle possibili esplicazioni del vivere quotidiano, quali per esempio il portarsi fuori dalla propria abitazione, ovvero la necessità di assistenza determinata da patologie particolari e finalizzata al compimento di alcuni, specifici, atti della vita quotidiana. Tali requisiti sono richiesti anche per gli ultrasessantacinquenni, poiché l’art.6 del D. Lgs. n.509 del 1988, lungi dal configurare un’autonoma ipotesi di attribuzione dell’indennità, pone solo le condizioni perché detti soggetti siano considerati mutilati o invalidi, in analogia a quanto già disposto per i minori di diciotto anni dall’art.2, comma 2, della L. n.118 del 1971 nel testo originario (Mass., 1999).
Cassazione civile, sez. lav., 22 marzo 2001 n.4172 - Min. Interno c./ Croci
Ultrasessantacinquenni - Rilevanza ai fini del disconoscimento dell’indennità - Indennità di accompagnamento.
Le condizioni per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento agli assistiti utrasessantacinquenni consistono, alternativamente, nell’impossibilità di deambulare, oppure (secondo l’art. 2 della L. n.118 del 1971, introdotto dall’art.6 del D. Lgs. 509/1988) nelle difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell età, senza che la considerazione di detti compiti e funzioni possa condurre ad una valutazione per fasce d’età, con la conseguenza di escludere l’indennità quando il soggetto abbia raggiunto una fascia di età avanzata o di decrepitezza tale che funzioni e compiti vengano meno quasi del tutto, giacché anche le persistenti difficoltà a compiere le residue funzioni (per quanto ridotte esse siano) legittima il riconoscimento della suddetta indennità (Mass., 2001).
Cassazione Civile, sez. lav., 3 aprile 2001 n.4904 - Min. Interno c./ Quaglia
Indennità di accompagnamento - Requisiti per gli ultrasessantacinquenni - Persistente difficoltà di deambulazione o di compimento degli atti quotidiani della vita.
L’art.6 del D. Lgs. 23 novembre 1988 n.509, nel modificare l’art.2 della L. n.118 del 1971 con l’aggiunta di un terzo comma e nel prevedere che, ai fini dell’indennità di accompagnamento, si considerano mutilati e invalidi gli ultrasessantacinquenni che abbiano “difficoltà persistenti” a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età, consente a tali soggetti di essere annoverati fra gli aventi diritto all’indennità di accompagnamento alla sola condizione che abbiano non già l’impossibilità ma soltanto la persistente difficoltà di deambulare autonomamente senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o la persistente difficoltà di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita; né per gli stessi soggetti è richiesto il presupposto della totale inabilità, essendo inutile richiedere la totale inabilità al lavoro a soggetti che, per l’avvenuto raggiungimento dell’età pensionabile, non hanno necessità di espletare un’attività lavorativa (Mass., 2001).
www.diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 22/04/2004
IL NUOVO RUOLO DELL’INFORMAZIONE E DELLA FORMAZIONE DEI LAVORATORI NEL D. LGS. 626/1994
di Rocchina Staiano
L’obbligo di informazione e della formazione dei lavoratori sono considerati, dal D. Lgs. 626/1994 , elementi essenziali e fondamentali per prevenire gli infortuni sul lavoro, tanto è vero che vengono inseriti tra “le misure generali di tutela” , la cui ratio è quella di far acquisire al lavoratore “la cultura della sicurezza” . Inoltre, il legislatore del 1994 si è preoccupato di mettere in evidenza che l’informazione e la formazione non devono essere considerati dal lavoratore “come meri adempimenti burocratici” , vale a dire attività solo formali; ma è necessario una partecipazione attiva e consapevole di tutti i lavoratori.
Ciò trova conferma in alcune disposizioni dello stesso D. Lgs. 626/1994, ad esempio l’art. 4, 5° comma, lett. f), il quale afferma che il datore di lavoro richiede l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme e delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di uso dei mezzi di protezione collettivi ed individuali messi a loro disposizione; l’art. 5, 2° comma, lett. h), il quale stabilisce che i lavoratori contribuiscono, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro e gli esempi potrebbero continuare. Sotto questo punto di vista, si segnala anche un recente orientamento giurisprudenziale il quale sottolinea che il datore di lavoro, qualora assicuri complete misure di sicurezza ed informazione compiuta ai lavoratori, deve poi poter contare sull’esatto adempimento delle regole di lavoro da parte dei lavoratori.
Inoltre, è necessario non dimenticarci che si potrebbe porre il problema del coordinamento legislativo tra il D. Lgs. 626/1994 e la “vecchia” normativa antinfortunistica . In particolare, ci si chiede quale normativa si applica attualmente, in ordine all’informazione ed alla formazione dei lavoratori, tra gli artt. 21 e 22 del D. Lgs. 626/1994 e le precedenti disposizioni, vale a dire gli artt. 4, lett. b), del D.P.R. 547/1955 e 4, lett. b), del D.P.R. 303/1956 .
La risposta è nell’art. 98 del D. Lgs. 626/1994: “restano in vigore, in quanto non specificatamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro”. La norma sta a significare che il D. Lgs. 626/1994 “non si sostituisce integralmente alla legislazione prevenzionistica precedente, ma intende abrogare caso per caso le disposizioni precedenti incompatibili con la nuova disciplina” .
Risultano abrogate o modificate, quindi, gli artt. 8 (vie di circolazione, zone di pericolo, pavimenti e passaggi), 11 (posti di lavoro e di passaggio e luoghi di lavoro esterni), 13 (vie ed uscite di emergenza), 14 (porte e portoni), 52 (messa in moto o arresto di motori), 53 (sistema esteso di trasmissioni o di macchine), 374 (edifici, opere, impianti, macchine, attrezzature), 393, 394 e 395 (commissione consultiva permanente) del D.P.R. 547/1955 e gli artt. 6 (altezze, cubature e superfici degli ambienti di lavoro), 7 (coperture, pavimento, pareti ed aperture), 9 (ricambio dell’aria), 10 (illuminazione naturale ed artificiale), 11 (temperatura dei locali), 14 (sedili), 20 (difesa dell’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi), 37 e 39 (docce e lavabi) e 40 (spogliatoi) del D.P.R. 303/1956.
E’ pacifico notare che, tra questi articoli citati non vengono menzionati gli artt. 4, lett. b), del D.P.R. 547/1955 e 4, lett. b), del D.P.R. 303/1956, relativo al diritto di informazione e di formazione dei lavoratori, di conseguenza, si presume che non siano stati abrogati. In realtà, non è così! La dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere che i nuovi artt. 21 e 22 del D. Lgs. 626/1994 abrogano tacitamente, ai sensi dell’art. 15 preleggi del codice civile , la vecchia normativa antinfortunistica.
NOTE DEL TESTO
1 Per approfondire la disciplina della sicurezza del lavoro in Italia si rinvia a: AA.VV., L’obbligo di sicurezza, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1993, n.14; C. Marano, Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, Maggioli, Rimini, 1998 e A. Padula, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Cedam, Padova, 1998; F. Izzo e M. Solombrino, Codice della sicurezza del lavoro, Ed. Simone, Napoli, 1999; A. Tampieri, Profili individuali e collettivi della sicurezza sul lavoro, in Lavoro e Dir., 1999, p.151; L. Forte, Gli obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza dell ambiente di lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, p.642; più di recente v.: V. Marino, Infortunio sul lavoro ed onere probatorio, in Riv. Ital. Dir. Lav., 2000, p.89; Relazione di N. Iovinella, Le radici della cultura dell’illegalità nel settore edile in Campania, in Atti del Convegno sui “Fenomeni malavitosi e lavoro nero nel settore dei lavori edili” Promosso dalla Filca Cisl Campania, Napoli, 31 maggio 2002.
2 Sulla legislazione straniera, interessante risulta L. Vogel, L’organisation de la prevention sur les lieux de travail, Bruxelles, 1994.
3 La L. 80/1898 ha introdotto, in Italia, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, v.: S. Nervi, L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali, (a cura di Borsi e Pergolesi) Trattato di Diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1939, vol. I.
4 Il termine “prevenzione”, in materia di infortunio sul lavoro ha subito un’evoluzione: si passa dal concetto di prevenzione statica, cioè un sistema di prevenzione oggettivo-tecnologico, a quello di prevenzione dinamica, vale a dire un sistema di prevenzione soggettivo incentrato sulla persona umana; v. a tal proposito: AA.VV., (a cura di L. Galantino), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Torino, 1995.
5 Sul D. Lgs. 19 settembre 1994 n.626 si vedano: M. Lepore, La rivoluzione copernicana della sicurezza del lavoro, in Lav. Inf., 1994, n.22, p.6; M. Lai, I nuovi diritti e doveri per la sicurezza sul lavoro, in Lav. Inf., 1994, n.13, p.23; M. Lai, Come cambia la sicurezza sul lavoro, in Dir. Prat. Lav., 1994, n.47, p.3224; Focareta, La sicurezza sul lavoro dopo il decreto legislativo n.626/1994, in Dir. Rel. Ind., 1995, I, p.5; AA.VV., Prevenzione e sicurezza sul lavoro, Cedam, Padova, 1996; M. Lepore, Sicurezza dei lavoratori esposti a rischi cancerogeni: rapporti tra la normativa comunitaria ed il D. Lgs. n.626 del 1994, in Mass. Giur. Lav., 1999, p.490. Tale decreto, nel corso degli anni, è stato modificato ed integrato dal D. Lgs. 242/1996; dal D. L. 510/1996, conv. nella L. 608/1996; dal D. L.gs.359/1999; dal D. M. 12 novembre 1999; dal D. Lgs. 66/2000 e dal D. Lgs. 25/2002.
6 Direttiva-quadro comunitaria 12 luglio 1989 n.391, v.: L. Montuschi, La tutela della salute e la normativa comunitaria, (a cura di Biagi) Tutela dell’ambiente di lavoro e direttive, Rimini, 1991, p.11 e ss.
7 I dati del Rapporto INAIL del giugno 2000 sono stati pubblicati in Concertando, 2000, n.14, p.1.
8 Titolo V del D. Lgs. 626/1994.
9 Titolo VI del D. Lgs. 626/1994.
10 Titolo VII del D. Lgs. 626/1994. Tale Titolo è stato integrato dal D. Lgs. 25/2002.
11 Titolo VIII del D. Lgs. 626/1994.
12 Il medico competente non è certamente una figura nuova, in quanto già nell’art.3 del D. Lgs. 15 agosto 1991 n.277, relativo alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti da esposizione a piombo, amianto e rumore, stabiliva che “… il medico competente era un medico, ove possibile dipendente del Servizio sanitario nazionale, in possesso di uno dei seguenti titoli: specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o specializzazione equipollente; docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro; libera docenza nelle discipline suddette”. Invece, negli artt.16-17 del D. Lgs. 626/1994 vengono individuati in maniera puntuale e precisa i compiti e le funzioni, in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, del medico competente; v.: M. Biagi, La sorveglianza sanitaria, in Dossier Amb., 1994, n.28, p.131.
13 In tema, v.: Monea, Il servizio di prevenzione e protezione, in Dir. Prat. Lav., 1995, p.471.
14 Cfr.: M. Di Lecce, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, in Dossier Amb., 1994, n.28, p.11; A. Brignone, Il rappresentante per la sicurezza e gli organismi paritetici, in Dir. Prat. Lav., 1995, p.183 e G. Galli, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, EPC Libri, Roma, 2001.
15 Sull’argomento, si rinvia a: G. Galli, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, EPC Libri, Roma, 2001, p.37-40 e 47-50 e M. Lai, Il rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza dei lavoratori, in www.626.cisl.it
23 E’ necessario precisare che, in base all’art.18, 3° comma, del D. Lgs. 626/1994, nelle aziende con più di 15 dipendenti è previsto la nomina del RLS, il quale è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda; solo in assenza di tali rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al suo interno.
24 F. Basenghi, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici, (a cura di Galantino), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Torino, 1995, p.100.
25 A. Brignone, Il rappresentante per la sicurezza e gli organismi paritetici, in Dir. Prat. Lav., 1995, p.190-191.
27 Estratto dal documento del Coordinamento delle Regioni, Le funzioni dell’RLST, in www.ispesl.it
28 Lo studio dell’INAIL può essere consultato sul sito internet: www.inail.it/pubblicazionieriviste.htm
29 Tali testimonianze sono tratte dallo studio dell’INAIL del 2001, che può essere consultato sul sito internet: www.inail.it/pubblicazionieriviste.htm del luglio 2002.
30 Interessante risultano le osservazioni di M. Lai, Il rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza dei lavoratori, in www.626.cisl.it
A conferma di ciò va segnalato: F. R. Pizzuti, Note sulla riforma del sistema pensionistico, in Ec. & Lav., 1996, n.4, p.11 ss.
Cfr. La previdenza complementare e prospettive per il decollo, studio pubblicato nel maggio 1994 dalla Ragioneria dello Stato (Ministero del Tesoro) e svolto da un gruppo di lavoro costituito presso l’Ispettorato Generale per la Finanza del Settore Pubblico.
Sull’argomento si vedano. A. De Valles, Natura giuridica dei fondi per la previdenza e l’assistenza di cui all’art.2117 c.c., in Dir. Ec., 1961, p.1183 ss.; L. Riva Sanseverino, Commentario al codice civile (art.2117 c.c.), diretto da Scialoja e Branca, Bologna, 1969, p.444 ss.; M. Cerretta, I fondi aziendali integrativi di previdenza ed assistenza, in Dir. Lav., 198, I, p.173 ss.; G. Ciocca, Commento agli artt.2117 e 2123 c.c., in Codice Civile Commentato, (a cura di) L. Perlingieri, Napoli, 1991, p.126 ss.; C. Ciocca, I fondi pensione e la libertà della previdenza privata, in Dir. Lav., 1995, II, p.368 ss.
Sul punto si vedano: G. Ferraro e F. Mazziotti, Il sistema pensionistico riformato, Napoli, 1994; M. Cinelli, Lineamenti generali della riforma previdenziale, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1994, p.68 ss. ; G. Ciocca, La libertà della previdenza privata, Milano, 1988, p.60 ss.
Si rinvia per un’analisi dettagliata del D. Lgs. 503/1992: G. Ferraro e F. Mazziotti, Il sistema pensionistico riformato, Napoli, 1994; P. Curzio e G. Calamita, Il sistema pensionistico in evoluzione, Bari, 1994; M. Cinelli e M. Persiani, Commentario della riforma previdenziale (dalle leggi Amato alla finanziaria 1999), Milano, 1995.
Vedi: A. Pandolfi, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in Dir. Prat. Lav., 1993, n.35, p.IX; G. Dondi, Prime note sulla recente disciplina delle forme pensionistiche e complementari, in Mass. Giur. Lav., 1993, p.708 ss.; F. Mazziotti, Prestazioni pensionistiche complementari e posizioni contributive, in Dir. Lav., 1997, I, p.239 ss.
Tale previsione vuole mettere in evidenza la non applicazione dell’art.11 dello Statuto dei lavoratori, in base al quale ai lavoratori dovevano riservarsi la maggioranza degli organismi di previdenza aziendale.
Art.4, 2° comma, del D. Lgs. 124/1993.
Art.8, 2° comma, del D. Lgs. 124/1993.
Mi riferisco al D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124.
Per un commento analitico si rinvia a: AA.VV., Guida alle nuove pensioni, in Il Sole 24ore-Guida Normativa, suppl. al n. del 4 agosto 1995; C. Cester, La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1996; A. Brambilla, Capire i fondi pensione, Milano, 1996; di recente, v.: (a cura di) G. Ferraro, La previdenza complementare nella riforma del Welfare, Giuffrè, 2000.
Tra le più importanti proposte ricordiamo: quella del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro del 1994 che proponeva una profonda revisione del sistema fiscale sui fondi pensione; oppure quella del Consiglio Nazionale degli Attuari di concerto con il Consiglio dell’Ordine degli Attuari, sempre del 1994 che, invece, prevedeva una modifica radicale di tutti gli aspetti tecnici e fiscali del D. Lgs. 124/1993.
1 Il primo intervento legislativo in tema di rappresentanza sindacale nel P.I. si è avuto con l’art.25 della Legge-quadro 29 marzo 1983 n.93, la quale prevedeva la costituzione di organismi rappresentativi dei dipendenti all’interno delle singole unità amministrative (v., al riguardo, F. Fiorillo e C. Russo, Lavoro pubblico, Ed. Lavoro, 1995). Con l’emanazione dell’art.47 del D. Lgs. 3 febbraio 1993 n.29 è stato delineato un nuovo assetto, in particolare affidava la determinazione dei criteri di valutazione della maggiore rappresentatività ad accordi tra il Presidente del Consiglio dei Ministri o suo delegato e le confederazioni sindacali individuate ai sensi del 2° comma dello stesso art.47 da recepire con DPR, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri sentita la conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, per gli aspetti di interesse regionale (v., per tutti, L. Zoppoli, Il lavoro pubblico negli anni 90, Giappicchelli, 1998, p.54 ss.). Dopo due anni dal referendum del giugno 1995, che ha abrogato l’art.47 del succitato decreto legislativo, è arrivato l’atteso intervento legislativo. Infatti, in attuazione dell’art.11, 4° e 6° comma, della L. 59/1997, è stato emanato il D. Lgs. 4 novembre 1997 n.396 (v., per un’analisi sintetica sull’argomento, M. D’Antona, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in LPA, 1998, n.1), il quale ha l’ambizione di affrontare in maniera esaustiva e sistematica la problematica della rappresentanza nell’ambito del P.I., sostituendo l’art.47 del D. Lgs. 29/1993, che, oggi, è trasfuso nell’art.42 del D. Lgs. 165/2001, c.d. T.U. del P.I., (V. Talamo, Il D. Lgs. 165/2001 fra tradizione e discontinuità: guida ad un testo unico “meramente compilativi”, in LPA, 2001, n.2).
2 Per un’analisi critica sui CARS v.: L. Mariucci, La rappresentanza sindacale: dai progetti di legge nell’ipotesi di accordo sui Cars, in Dir. Lav., 1990, p.133 ss.
3 Art.4 dell’ipotesi di accordo sui CARS del 26 maggio 1989.
4 Interessante risultano essere le considerazioni sui CARS di L. Mariucci, La rappresentanza sindacale: dai progetti di legge all’ipotesi di accordo sui Cars, in LD, 1990, p.137 ss.
5 Per approfondire i contenuti dell’intesa-quadro 1° marzo 1991 v., P. Bertozzi e G. Sambucini, Intesa-quadro Cgil Cisl e Uil: una problematica, in DPL, 1991, n.15, p.914 ss; P. Alleva, Per un nuovo assetto della rappresentanza sindacale, in RGL, 1991, p.11; A. Di Stasi, RSA addio: quali prospettive?, in DPL, 1993, n.13, p.829 ss.
6 Bisogna precisare che solo due categorie su sedici hanno provveduto a darsi regolamenti attuativi, vale a dire i chimici e i ferrovieri.
7 Per una lettura critica sul tema, v.: P. Alleva, L’accordo del 23 luglio: un’analisi critica, in IS, 1993, n.13, p.10 ss.; A. Di Stasi, La rappresentanza sindacale unitaria tra accordi sindacali e proposte di legge, in DL, 1994, I, p.60 ss.
8 Si v.: Protocollo di intesa CIDA e CONFEDIR del 14 giugno 1994; Protocollo di intesa CISAL e CISNAL del 16 giugno 1994 ed infine Protocollo di intesa CONFSAL del 22 settembre 1994.
9 Si v.: Protocollo di intesa per il comparto Ministeri, con le organizzazioni sindacali FD/CGIL-CISL/STATALI-UIL/STATO del 12 maggio 1994.
10 Si v.: Protocollo di intesa per il comparto Regioni-Autonomie locali, con le organizzazioni sindacali FD/CGIL-CISL/ENTI LOCALI-UIL/ENTI LOCALI del 26 maggio 1994.
H. LEYMANN, Atiologie und Haufigkeit von Mobbing am Arbeisplatz. Eine Ubersicht uber die bisherige Forschung, in Zeitschrift fur Personalforschung, 1993, p.271-272.
Questi comportamenti si riferiscono sia a fatti realmente accaduti di cui l’autore dello scritto è a conoscenza per aver collaborato alla ricerca promossa dalla Filca-Cisl Nazionale sul distretto dell’imbottito Bari-Matera “per conoscere ed analizzare il fenomeno mobbing, purtroppo presente in alcune aziende”, v.: R. Staiano, Il mobbing: un fenomeno emergente nel rapporto di lavoro, in AA.VV., Ricerca Filca-Cisl Nazionale del distretto Bari-Matera. Una ricerca, una proposta, Bari, 2001 e sia a casi riportati sui principali periodici e quotidiani italiani, come ad esempio: L’Espresso del 25 febbraio 1999; Corriere della Sera del 21 gennaio 2000, Panorama del 27 gennaio 2000 e La Stampa del 20 ottobre 2000; più di recente Il Mattino del 22 aprile 2002.
I dati forniti dal Rapporto ILO del 1998 “La violence sur le lieu de travail - un problem mondial” è consultabile sul sito internet: www.ilo.org
Terzo rapporto europeo sulle condizioni di lavoro dei lavoratori europei nell’Unione Europea elaborato dalla Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di Dubblino è disponibile sul sito internet: www.eurofound.ie
Per approfondire le differenze di diffusione del mobbing nei vari Paesi di studio (Italia, Germania, Francia e Danimarca), v.: Relazione di F. Cochi, Il mobbing negli altri Paesi Europei, in Atti del Corso di Formazione sul Mobbing, promossa dal Centro Studi di Firenze, 16-17-18 aprile 2002.
La Carta Sociale Europea è stata firmata a Torino il 18 ottobre 1961 dai membri del Consiglio d’Europa. E’ stata modificata con protocolli addizionali del 5 marzo 1988, del 21 ottobre 1991 e del 9 novembre 1991.
Art. 2 della Carta Sociale Europea del 1961.
Art. 3 della Carta Sociale Europea del 1961.
Art. 11 della Carta Sociale Europea del 1961.
La Risoluzione del Parlamento Europeo 2001/2339 (INI) è disponibile in questo sito internet, sezione Paesi europei e non europei, voce Unione Europea.
1 Per approfondire la disciplina della sicurezza del lavoro in Italia si rinvia a: AA.VV., L’obbligo di sicurezza, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1993, n.14; M. Lai, La nuova normativa sulla sicurezza del lavoro. Spunti problematici, in Riv. Ital. Dir. Lav., 1995, I, p. 489; L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Milano, 1995; INAIL, Commentario alla sicurezza sul lavoro, Edizione Pirola, 1996; L. Montuschi (a cura di), Ambiente,salute e sicurezza, Giappichelli, Torino, 1997; C. Marano, Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, Maggioli, Rimini, 1998; A. Padula, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Cedam, Padova, 1998; più di recente, v.: F. Izzo e M. Solombrino, Codice della sicurezza del lavoro, Ed. Simone, Napoli, 1999; M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro. Evoluzione legislativa, esperienze applicative e prospettive di riforma, Cacucci Editore, Bari, 1999; A. Tampieri, Profili individuali e collettivi della sicurezza sul lavoro, in Lavoro e Dir., 1999, p.151; L. Forte, Gli obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza dell’ambiente di lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, p.642; più di recente v.: V. Marino, Infortunio sul lavoro ed onere probatorio, in Riv. Ital. Dir. Lav., 2000, p.89; M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002; Relazione di N. Iovinella, Le radici della cultura dell’illegalità nel settore edile in Campania, in Atti del Convegno sui “Fenomeni malavitosi e lavoro nero nel settore dei lavori edili” Promosso dalla Filca Cisl Campania, Napoli, 31 maggio 2002. Sulla legislazione straniera, interessante risulta L. Vogel, L’organisation de la prevention sur les lieux de travail, Bruxelles, 1994 ; G. Evrand, Alcune considerazioni sul sistema di protezione del lavoro in Francia, in INAIL (a cura di), Commentario alla sicurezza sul lavoro, Edizione Pirola, 1996, p. 39 ss.; K. Hinne, Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro in Germania dal punto di vista dei lavoratori, in INAIL (a cura di), Commentario alla sicurezza sul lavoro, Edizione Pirola, 1996, p. 27 ss. e H. Kleinherne, Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro in Germania dal punto di vista dei datori di lavoro, in INAIL (a cura di), Commentario alla sicurezza sul lavoro, Edizione Pirola, 1996, p. 33 ss.
2 Trib. Torino, 9 dicembre 1993, in Mass., 1994.
3 I provvedimenti di carattere generale sono: D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”; D.P.R. 19 marzo 1956 n. 302 “Norme per la prevenzione degli infortuni integrative di quelle emanate con D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547” e D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 “Norme generali per l’igiene del lavoro”. Sull’argomento, v.: G. Loy, Linee di tendenza della normativa italiana in materia di tutela della salute, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1993, n. 13, p. 18 ss.
4 I provvedimenti avente carattere speciale sono: D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni”; D.P.R. 20 marzo 1956 n. 320 “Norme per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro sotterraneo”; D.P.R. 20 marzo 1956 n. 321 “Norme per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nei cassoni ad aria compressa”; D.P.R. 20 marzo 1956 n. 322 “Norme per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nell’industria della cinematografia e della televisione”; D.P.R. 20 marzo 1956 n. 323 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro negli impianti telefonici”.
5 In dottrina, sull’art. 9 St., v.: F. Bianchi D’Urso, Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro, Napoli, Novene, 1980, p. 204 ss.; O. Mazzotta, Le rappresentanze a tutela della salute fra statuto e riforma sanitaria, in Foro It., 1980, I, p. 2993 ss.; più di recente, v.: G. Balandi, Individuale e collettivo nella tutela della salute nei luoghi di lavoro: l’art. 9 St., in Lav. Dir., 1990, p. 219 ss. e M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, p. 59 ss.
6 A favore dell’identificazione delle rappresentanze dell’art. 9 St. con quelle dell’art. 19 St. si veda, per la giurisprudenza di legittimità: Cass., 13 settembre 1982 n. 4874, in Dir. Lav., 1983, I, p. 110 e ss.; Cass., 21 aprile 1989 n. 6168, in Not. Giur. Lav., 1989, p. 739 ss.; invece, per la giurisprudenza di merito: Trib. Napoli, 14 giugno 1994, in Foro It., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1042.
7 Il D. Lgs. 19 settembre 1994 n.626, nel corso degli anni, è stato modificato ed integrato dal D. Lgs. 242/1996; dal D. L. 510/1996, conv. nella L. 608/1996; dal D. L.gs.359/1999; dal D. M. 12 novembre 1999; dal D. Lgs. 66/2000; dal D. Lgs. 25/2002 e dal D Lgs. 233/2003.
8 Mi riferisco alle seguenti direttive comunitarie: 30 novembre 1989 n. 654; 30 novembre 1989 n. 655; 30 novembre 1989 n. 656; 29 maggio 1990 n. 269; 29 maggio 1990 n. 270; 29 giugno 1990 n.394 e 26 novembre 1990 n. 679.
Sull’incidenza nel D. Lgs. 626/1994 delle direttive CEE, v.: G. Ferraro e M. Lamberti, La sicurezza sul lavoro nel decreto legislativo delle direttive CEE, in Riv. Giur. Lav., 1995, I, p. 35 ss. e M. T. Spadafora, Prime considerazioni sull’attuazione delle direttive comunitarie in tema di sicurezza e salute dei lavoratori, in Dir. Lav., 1995, I, p. 1993 ss.
9 Il medico competente non è certamente una figura nuova, in quanto già nell’art.3 del D. Lgs. 15 agosto 1991 n.277, relativo alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti da esposizione a piombo, amianto e rumore, stabiliva che “… il medico competente era un medico, ove possibile dipendente del Servizio sanitario nazionale, in possesso di uno dei seguenti titoli: specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o specializzazione equipollente; docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro; libera docenza nelle discipline suddette”. Invece, negli artt.16-17 del D. Lgs. 626/1994 vengono individuati in maniera puntuale e precisa i compiti e le funzioni, in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, del medico competente; v.: M. Biagi, La sorveglianza sanitaria, in Dossier Amb., 1994, n.28, p.131.
10 In tema, v.: Monea, Il servizio di prevenzione e protezione, in Dir. Prat. Lav., 1995, p.471.
11 Cfr.: M. Di Lecce, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, in Dossier Amb., 1994, n.28, p.11; A. Brignone, Il rappresentante per la sicurezza e gli organismi paritetici, in Dir. Prat. Lav., 1995, p.183 e G. Galli, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, EPC Libri, Roma, 2001; M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, p. 205 ss.
12 Sull’argomento, si rinvia a: M. Lai, Il rappresentante territoriale dei lavoratori per la sicurezza dei lavoratori, in www.626.cisl.it; M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, p. 218 ss.; R. Staiano, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale in edilizia, in P. De Filippis (a cura di), L’edilizia in Campania, Centro Studi di Cava, Salerno, 2003, p. 269 e R. Staiano, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale in Italia, in www.diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 5/06/2003.
13 Così si esprime O. Di Monte, L’informazione e la formazione dei lavoratori, in M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro, Cacucci Editore, Bari, 1999, p. 170. Sul tema, v.: M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, p. 94 ss.
14 La previsione contenuta nell’art. 5 del D. Lgs. 626/1994 recepisce l’art. 12 della direttiva CEE n. 391 del 1989.
L’art. 4, del D.P.R. 303/1956 stabilisce che “i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti … devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, … b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti…”.
Cfr. Cass. Pen., 24 marzo 1981, in Riv. Pen., 1982, p. 310.
Art. 7 del D.P.R. 10 settembre 1982 n. 962 “Attuazione della direttiva (CEE) n. 78/610 relativa alla protezione sanitaria dei lavoratori esposti al cloruro di vinile monomero”.
Art. 3, 2° comma, del D.P.R. 17 maggio 1988 n. 175 “Attuazione della direttiva (CEE) n. 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi a determinate attività industriali”.
Art. 6, 2° comma, lett. c), del D.P.R. 17 maggio 1988 n. 175 “Attuazione della direttiva (CEE) n. 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi a determinate attività industriali”.
Art. 11, 3° comma, del D.P.R. 17 maggio 1988 n. 175 “Attuazione della direttiva (CEE) n. 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi a determinate attività industriali”.
Sul D. Lgs. 277/1991 interessanti sono le osservazioni di R. Guariniello, Tre anni di applicazione del D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 sui rischi lavorativi da piombo, amianto, rumore, in Foro It., 1991, II, p. 548 ss.
Art. 12 del D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 “Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212”.
Art. 26 del D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 “Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212”.
Convenzione n. 148 del 1977 “per la protezione dell’ambiente di lavoro (inquinamento dell’aria, rumori e vibrazioni)” è pubblicata in www.ilo.org. Sul ruolo delle fonti internazionali del lavoro, v.: Bertocco, La sicurezza del lavoratore nelle fonti internazionali del lavoro, Padova, Cedam, 1995.
Cfr. O. Di Monte, L’informazione e la formazione dei lavoratori, in M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro, Cacucci Editore, Bari, 1999, p. 176.
L’art. 2, lett. a) del D. Lgs. 626/1994 considera lavoratore “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari, con rapporto di lavoro subordinato anche speciale”. Sul ruolo del lavoratore nell’ambito della sicurezza v.: M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, p. 185 ss
Art. 21, 2° comma, del D. Lgs. 626/1994.
L. Galantino, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Milano, 1995, p. 35 e O. Di Monte, L’informazione e la formazione dei lavoratori, in M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro, Cacucci Editore, Bari, 1999, p. 181-182.
Mi riferisco ai CCNL per i dirigenti di aziende industriali e per i dirigenti commercio.
V.: Cass. Civ., sez. lav., 14 febbraio 1987 n. 1652, in Giust. Civ. Mass., 1987; Cass. Civ., sez. lav., 17 febbraio 1988 n. 1698, in Giust. Civ. Mass., 1988; Cass. Civ., sez. lav., 28 gennaio 1989 n. 537, in Giust. Civ. Mass., 1989; Cass. Civ., sez. lav., 20 agosto 1991 n. 8975, in Giust. Civ. Mass., 1991 e Cass. Civ., sez. lav., 6 aprile 1992 n. 4185, in Or. Guir. Lav., 1991, I, p. 290.
Per approfondire il tema dell’invalidità civile si rinvia a: A. D’Ambrosio, Invalidità civile e accertamento postumo, in Sicur. Soc., 1985, p.208; INAS-CISL, Manuale di assistenza sociale ciechi, sordomuti, mutilati e invalidi civili, Roma, 1988; G. Argentino, Importanti novità in tema di invalidità civile, in Dir. Prat. Lav., 1990, p.2880; G. Servello, Invalidità civile: la parola alla consulta, in Dir. Prat. Lav., 1992, p.2367; F. De Ferrari, M. Fornaciari e P. Pelizza, Invalidità civile:evoluzione legislativa e osservazioni sulle tabelle pubblicate nel d.m. 5 febbraio 1992, in Assist. Soc., 1993, I, p.151 e L. Carlini, M. Bacci e Altri, Aspetti dottrinari e metodologico-valutativi dell’istituto della invalidità civile, in Rass. Giur. Umbra, 1998, p.277.
Cfr. Pr. Bergamo, 12 agosto 1976, in Mass. 1976 e Pr. Roma, 9 settembre 1978, in par.2.
L’art.5 della L. 6 agosto 1966 n.625 afferma che “…agli invalidi civili di età superiore agli anni 18 nei cui confronti sia accertata una totale e permanente inabilità lavorativa non di natura psichica, che versino in stato di bisogno e non fruiscano di pensioni, assegni o rendite di qualsiasi natura o provenienza, è concesso, a carico dello Stato ed a cura del Ministero dell’Interno, un assegno mensile di assistenza nella misura di lire ottomila…”.
Sul tema, v.: Pr. Brescia, 3 luglio 1975, in Sic. Soc., 1975, p.463.
Trib. Firenze, 10 settembre 1976, in Mass. 1976.
Cass. Civ., sez. lav., 21 ottobre 1980 n. 5673, in par.2 e Cass. Civ., sez. lav., 30 ottobre 1981 n.5729, in par.2.
Sul D.M. 25 luglio 1980 v.: C. Scorretti, Considerazioni medico legali sulla tabella indicativa delle percentuali di invalidità ai sensi della l. n. 118 sugli invalidi civili (d. m. 25 luglio 1980), in Sicur. Soc., 1981, p.449.
Il 3° comma, dell’art.2, della L. 118/1971 è stato aggiunto dall’art.6 del D. Lgs. 23 novembre 1988 n.509. Sugli invalidi civili ultrasessantacinquenni, in dottrina, v.: F. Pittau, Gli invalidi civili ultrasessantacinquenni, in Dir. Prat. Lav., 1988, p.75; M. La Terza, Problematica giuridica sull’invalidità civile:ultrasessantacinquenni e diritto degli eredi, in Riv. Giur. Lav., 1991, III, p.67 e L. Fassina, Invalidi civili ultrasessantacinquenni e pensione sociale sostitutiva , in Riv. Giur. Lav., 1993, II, p.611; in giurisprudenza, v.: Trib. Firenze, 5 febbraio 1992, par.2; Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 1999 n.931, in Mass. 1999; Cass. Civ., sez. lav., 22 marzo 2001 n.4172, in par.2 e Cass. Civ., sez. lav., 3 aprile 2001 n.4904, in par.2.
In giurisprudenza, v.: Pr. Trani 19 dicembre 1988, in par.2.
Sull’argomento si rinvia a: M. Lepore, La rivoluzione copernicana della sicurezza del lavoro, in Lav. Inf., 1994, n.22, p.6; M. Lai, I nuovi diritti e doveri per la sicurezza sul lavoro, in Lav. Inf., 1994, n.13, p. 23; M. Lai, Come cambia la sicurezza sul lavoro, in Dir. Prat. Lav., 1994, n.47, p. 3224; M. Lai, La nuova normativa sulla sicurezza del lavoro. Spunti problematici, in Riv. Ital. Dir. Lav., 1995, I, p. 489; L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Milano, 1995; Focareta, La sicurezza sul lavoro dopo il decreto legislativo n.626/1994, in Dir. Rel. Ind., 1995, I, p. 5; AA.VV., Prevenzione e sicurezza sul lavoro, Cedam, Padova, 1996; INAIL, Commentario alla sicurezza sul lavoro, Edizione Pirola, 1996; L. Montuschi (a cura di), Ambiente,salute e sicurezza, Giappichelli, Torino, 1997; C. Marano, Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, Maggioli, Rimini, 1998; A. Padula, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Cedam, Padova, 1998; più di recente, v.: F. Izzo e M. Solombrino, Codice della sicurezza del lavoro, Ed. Simone, Napoli, 1999; M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro. Evoluzione legislativa, esperienze applicative e prospettive di riforma, Cacucci Editore, Bari, 1999; A. Tampieri, Profili individuali e collettivi della sicurezza sul lavoro, in Lavoro e Dir., 1999, p.151; L. Forte, Gli obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza dell’ambiente di lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, p.642; M. Lepore, Sicurezza dei lavoratori esposti a rischi cancerogeni: rapporti tra la normativa comunitaria ed il D. Lgs. n.626 del 1994, in Mass. Giur. Lav., 1999; più di recente v.: V. Marino, Infortunio sul lavoro ed onere probatorio, in Riv. Ital. Dir. Lav., 2000, p.89; M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Giappichelli, Torino, 2002; R. Staiano, L’evoluzione normativa in tema di sicurezza sul lavoro, in www.diritto.it/articoli/lavoro/lavoro.html del 18/12/2003.
Art. 3 del D. Lgs. 626/1994.
M. Ricci, Alcune osservazioni introduttive in tema di sicurezza sul lavoro, in M. Ricci (a cura di), La sicurezza sul lavoro, Cacucci Editore, Bari, 1999, p. 30.
G. Roseo, Il ruolo strategico dell’informazione e della formazione all’interno della nuova filosofia comunitaria, in Fogli D’Inf. ISPESL, 1996, n. 1, p. 23.
Cass. Pen., sez. IV, 3 novembre 1998 n. 11481, in Mass., 1998.
M. Cinelli, Il coordinamento con la normativa previdente (art. 98 D. Lgs. 626/1994), in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, Giappichelli, Torino, 1997, p. 315.
L’art. 4, del D.P.R. 19 marzo 1955 n. 547 sancisce che “i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti devono nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le norme essenziali di prevenzione mediante affissione, negli ambienti di lavoro, di estratti delle presenti norme o, nei casi in cui sia possibile l’affissione, con altri mezzi”.
L’art. 4, del D.P.R. 303/1956 stabilisce che “i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti … devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, … b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti…”.
L. Galantino, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Milano, 1995, p. 17.
L. Galantino, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, Giuffrè, Milano, 1995, p. 34 e S. Margotta, Sicurezza sul lavoro, in Dir. Prat. Lav., 1996, p. 53; contra, v.: M. Lai, Informazione e formazione dei lavoratori, in Dir. Prat. Lav., 1995, p. 1939, il quale ha dei dubbi che il D. Lgs. 626/1994 volesse abrogare l’art. 4 del D.P.R. 547/1955 e l’art. 4 del D.P.R. 303/1956.
L’art. 15 delle preleggi del codice civile stabilisce che “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”.