martedì 9 novembre 2004
IN ESCLUSIVA su LavoroPrevidenza.com: Esiste il mobbing nel calcio professionistico?
del Dr. Massimiliano Giua e dell Avv. Luca Sanzi -Responsabili della Sezione Lavoro Sportivo di LavoroPrevidenza.com-
Premessa
Si sente sempre più spesso parlare di mobbing, termine ormai comune, entrato prepotentemente nel lessico quotidiano (e spesso usato impropriamente). Ma esiste tale fenomeno anche nel calcio? Il presente lavoro tenterà di fornire una risposta a tale quesito attraverso l’analisi della normativa interessata alla fattispecie in esame.
1. Cos’è il mobbing?
Presupposto indefettibile della nostra trattazione è la nozione di mobbing. Ci si limiterà a fornire le nozioni base di tale fenomeno, rimandando il lettore per uno studio più approfondito alla numerosa messe dottrinaria e giurisprudenziale ormai sviluppatasi in subiecta materia (in giurisprudenza, la prima pronuncia sul mobbing risale al 6 ottobre 1999, ed è stata resa dal Tribunale di Torino con la sentenza n. 5050/1999. Interessante è il processo logico-argomentativo con cui il Collegio giunge a definire il fenomeno in rassegna, persino facendolo rientrare nell’area dei fatti noti ex art. 115 c.p.c.: “Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri,i medici del lavoro, i sociologi e, più in generale, coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici e i suoi riflessi sulla vita del lavoratore ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, suscettibili di incidere pesantemente sulla salute individuale. Si tratta di un fenomeno ormai intenzionalmente noto come mobbing”.)
Col sostantivo mobbing si indica – di norma - indica quel fenomeno caratterizzato dalla ripetizione, prolungata nel tempo, di comportamenti persecutori, ostili e vessatori, esercitati dal datore di lavoro, da un sovraordinato o dagli stessi colleghi (c.d mobbers) nei confronti di uno o più lavoratori (detti mobbizzati) al fine preordinato di eliminare soggetti ritenuti scomodi o sgraditi, sia attraverso lo strumento del licenziamento, sia, più spesso, costringendo la vittima stessa a decidere di allontanarsi “spontaneamente” dall’ambiente lavorativo (dimissioni, auto-licenziamento, ripetute assenze dal lavoro).
L’effetto di tali pratiche di sopruso è di provocare nel soggetto “mobbizzato” uno stato di disagio psicologico e l’insorgere di malattie psicosomatiche classificate come disturbi di adattamento e, nei casi più gravi, disturbi post-traumatici da stress.
Frequente ricorrenza (singoli ed isolati eventi rimangano infatti esclusi), durata ed intensità sembrano dunque essere i requisiti caratterizzanti tale fenomeno. Quanto ai primi due (frequente ricorrenza e durata), è stato inizialmente ritenuto che potesse determinarsi uno stato di mobbing solo allorquando i suddetti comportamenti vessatori avessero frequenza almeno settimanale ed una durata non inferiore a sei mesi. Successivamente, però, è andato formandosi un orientamento atto a svincolare il fenomeno in questione da rigidi e prefissati parametri temporali.
Quanto poi alle cosiddette azioni mobbizzanti, pur consapevoli della vasta portata di condotte in concreto vessatorie, si suole tradizionalmente operare la classificazione in tre grandi categorie che riguardano: la comunicazione con il soggetto, la sua reputazione o, infine, le prestazioni stesse del lavoratore mediante l’assegnazione a compiti dequalificanti che ne compromettano l’immagine dinanzi a superiori e colleghi (c.d demansionamento).
Schematicamente può così distinguersi:
- con riguardo al soggetto autore della condotta di mobbing:
- mobbing verticale, posto in essere da un singolo superiore (bullying) o dall’azienda (bossing) come forma di strategia aziendale di riduzione e ringiovanimento del personale;
- mobbing orizzontale, posto in essere da colleghi di lavoro;
- mobbing dal basso, forma meno frequente, che si realizza mediante la delegittimazione dell’autorità di un superiore;
- con riguardo al soggetto vittima della condotta di mobbing:
- mobbing individuale o collettivo quando gli atti discriminatori colpiscono il singolo o gruppi di lavoratori.
Con riguardo, infine, al bene offeso a seguito della condotta mobbizzante, esso riguarda una serie di diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati, quali: il diritto alla salute (art. 32), alla personalità (art. 3), alla professione (art. 4), all’onore, alla solidarietà e all’eguaglianza (art. 2).
Alcuni di tali diritti, invero, conoscono una tutela anche nel codice civile, nonché in leggi speciali: così si pensi ai diritti del lavoratore, di natura contrattuale: alla tutela della propria integrità fisica e personalità morale (art. 2087 c.c.), alla tutela della professionalità mediante il divieto, imposto al datore, del c.d. jus variandi (art. 2103 c.c.). Ancora si pensi alla tutela generale, extracontrattuale, contro gli atti posti in essere in violazione del canone di condotta del neminem laedere (art. 2043 c.c.).
Quanto alle leggi speciali, il riferimento è alla L. n. 300/70 (meglio nota come Statuto dei Lavoratori), la quale sancisce il riconoscimento dei diritti di libertà, eguaglianza e non discriminazione sul posto di lavoro, alla L. n. 626/94, che predispone un complesso di norme atte a garantire la tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro.
Ciò premesso, è però necessario fare alcune precisazioni, atte a meglio valutare la concreta configurabilità del mobbing anche nel calcio professionistico.
Anzitutto, e con particolare riguardo al mobbing verticale, è d’uopo specificare la natura giuridica del rapporto di lavoro che lega i calciatori ai sodalizi sportivi di appartenenza. E’ di tutta evidenza che solo qualora ricorresse un rapporto di lavoro subordinato si potrebbero verificare quelle condotte che, risolvendosi in un mero “straripamento” dei poteri attribuiti al datore dal diritto comune (art. 2094 c.c.), configurebbero altrettante vessazioni ai danni del lavoratore.
Ebbene una puntuale risposta è fornita, come noto, dall’art. 3 (“prestazione sportiva dell’atleta”) della L. 91/81, ove è prescritto che la prestazione lavorativa dello sportivo professionista (quest’ultimo definito dall’art. 2 e nella cui categoria è ricompreso anche il calciatore, stante l’inserimento del calcio nella categoria degli sport professionistici in base alla delibera C.O.N.I. del 2 marzo 1988 n. 469) costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge. Essa costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:
a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento (in dottrina, M. SANINO ha sostenuto che il riferimento a tale ipotesi di lavoro autonomo consente di comprendere a pieno la portata della prestazione di lavoro subordinato cui è tenuto, invece, lo sportivo professionista, dato che, ai sensi dell’art. 4, comma 4, L. 91/81, nella stipulazione del contratto in forma scritta tra società e professionista sportivo, deve essere prevista la clausola contenente l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici, tra le quali, conclude, “non può non includersi anche l’obbligo di frequentare gli allenamenti e di osservare le indicazioni fornite dai tecnici per il raggiungimento degli scopi prefissati”);
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno (sulla nozione di sportivo professionista, si veda anche l’articolo, Sport professionistico e tutela previdenziale, pubblicato dagli Autori in questa sezione).
Oggetto della nostra attenzione, dunque, è quell’attività sportivo-lavorativa connotata dai tratti distintivi della subordinazione indicati dall’art. 2094 c.c. (soggezione intesa come eterodeterminazione della prestazione lavorativa da parte del datore cui spetta il potere direttivo, disciplinare e di controllo), da combinarsi poi con le specifiche prescrizioni di cui all’art. 4 L. 91/81, e con quelle previste dall’accordo collettivo dei calciatori professionisti,stipulato proprio sulla base del predetto articolo 4, comma primo, L. 91/81. Tale accordo, stipulato tra la F.I.G.C. – Lega Nazionale Professionisti e Lega Nazionale di Serie C – e l’Associazione Italiana Calciatori, regola (art. 1) il trattamento economico e normativo dei rapporti tra calciatori professionisti e società partecipanti ai campionati nazionali di Serie A, B, C1 e C2. Esso è entrato in vigore (art. 30) il 1 luglio 1989, ed è stato sempre tacitamente rinnovato. Tuttavia, è ormai prossima la stipula del nuovo Accordo, attesa a breve.
E’ necessario, infine, precisare che in base a quanto visto sopra, le condotte mobbizzanti (tra cui quella atta a “demansionare” il lavoratore) vengono poste in essere allo scopo di licenziare o indurre il lavoratore a rassegnare le dimissioni.
Ebbene con riguardo a ciò, l’art. 4 della L. 91/81, che, è bene ricordare, è legge speciale, stabilisce che al contratto di lavoro subordinato sportivo non si applicano, tra le altre, le norme contenute negli articoli 13 della Legge 300/1970, e negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (“Norme sui licenziamenti individuali”).
In sostanza, al lavoro sportivo non si applicano:
- le norme previste dall’art. 2103 c.c., riformato dall’art. 13 L. 300/1970, che - come visto sopra - sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto (ex art. 4, comma 1, il rapporto di prestazione sportiva si costituisce mediante assunzione diretta) o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito (sul problema del c.d. “demansionamento” comunque torneremo successivamente);
- le norme che prevedono il licenziamento per giusta causa, giustificato motivo (soggettivo o oggettivo), nonché le conseguenti previsioni circa i modi ed i termini per adottare tali atti ed i relativi mezzi di impugnazione.
Tutto ciò premesso, passiamo all’analisi delle singole forme di mobbing valutandone la loro compatibilità con il fenomeno calcistico professionistico.
2. Il mobbing “verticale”
In tale fenomeno rientrano le condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro (che per chiarezza possiamo qui intendere come la Società nella persona del suo legale rappresentante), o da un diretto superiore del calciatore (intendendo qui l’allenatore del club).
Corre l’obbligo, quindi, di precisare le principali obbligazioni imposte ai sodalizi sportivi ed agli allenatori in favore dei calciatori professionisti, onde così valutare se la loro violazione integri il mero inadempimento contrattuale, o invece degeneri in condotta mobbizzante.
2.1. Il club
Iniziando dai clubs, vi è da specificare che esula dalla nostra trattazione lo studio degli obblighi di natura economica, (corresponsione delle retribuzioni, eventuali premi, benefits, ecc.), giacchè ci concentreremo più su quelli strettamente funzionali alla prestazione dedotta nel contratto di lavoro sportivo dell’atleta.
A tal proposito viene in soccorso l’art 10, comma 1, dell’Accordo Collettivo attualmente in vigore, a mente del quale “La società si impegna a curare la migliore efficienza sportiva del calciatore, fornendo attrezzature idonee alla preparazione atletica e mettendo a disposizione un ambiente consono alla sua dignità professionale”.
Tale previsione si concretizza, poi, nel successivo secondo comma, laddove si precisa che “In ogni caso il calciatore ha diritto a partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima squadra, salvo il disposto di cui all’art 15 del presente accordo” (che esonera la Società da tale obbligo in presenza di condotte del calciatore che sia venuto meno ai suoi doveri contrattuali).
Un tale diritto non può, ovviamente, essere esteso anche alla partecipazione alle gare sportive, giacchè, altrimenti, ciò andrebbe a ledere le attribuzioni all’allenatore, cui esclusivamente compete la conduzione tecnico-sportiva della squadra. Ma su tale punto torneremo successivamente.
Concentrandoci invece sulle norme sopra citate, dobbiamo quindi chiederci se e come una eventuale violazione di esse configuri mobbing verticale. Immaginiamo il caso di una società che impedisca ad un proprio calciatore di prendere parte alla preparazione pre-campionato, e/o agli allenamenti settimanali. Tale condotta configura solo inadempimento contrattuale, o anche comportamento mobbizzante? La risposta non può che prendere le mosse dalle caratteristiche, indicate nella premessa del presente studio, che tale condotta deve avere (reiterazione, arco temporale ed intensità). Nell’ipotesi di mancata ottemperanza, entro tre giorni dalla comunicazione, del lodo arbitrale di reintegrazione del calciatore, quest’ultimo ha diritto di ottenere dal Collegio medesimo la risoluzione del contratto, fermo restando il dovere della società stessa di rispettare integralmente il contratto nel suo contenuto economico. In tale ultima ipotesi, l’eventuale successiva volontà della società di reintegrare il calciatore determina l’obbligo dello stesso di rispettare integralmente il contratto, fermi restando gli effetti della precedente pronuncia del Collegio Arbitrale.
2.1.a) L’allontanamento del calciatore dal ritiro precampionato.
Alla luce di quanto visto sopra, non sembra potersi configurare come mobbing la condotta del club che impedisca ad un proprio calciatore di prendere parte al ritiro pre-campionato, che, come noto, è svolto per circa venti giorni durante il periodo estivo (di norma è compreso nell’intervallo di tempo che va dalla prima decade di luglio sino alla fine di tale mese). L’eventuale provvedimento impeditivo, non preceduto da precedenti atti vessatori, sembrerebbe infatti essere ricompreso nel mero inadempimento contrattuale, dal momento che difetterebbe nel caso de quo il requisito della pluralità e quindi della reiterazione della condotta lesiva, essendo infatti la stessa ad effetti istantanei, consumandosi in un unico atto e/o momento (la comunicazione del provvedimento inibitorio).
Alcuna rilevanza, al contrario, potrebbe assumere la ricorrenza dell’incisività della condotta posta in essere, né tanto meno l’irrilevanza della durata della stessa ai fini delle possibili conseguenze sulla personalità del calciatore. Ad avviso di chi scrive, difatti, anche una siffatta condotta può avere una tale portata vessatoria da incidere potenzialmente sulla personalità del calciatore, che si vede destinatario di un provvedimento che comporta, immediatamente, l’allontanamento dal resto del gruppo, ma anche l’estrema difficoltà di trovare immediata ricollocazione in un altra squadra, dato che in quel momento le “rose” dei vari clubs sono state pressochè formate. Da non sottovalutare, quindi, gli effetti potenzialmente lesivi di tale allontanamento.
Non possono, dunque, considerarsi come mobbing, restando bensì confinati nella sola area dell’inadempimento contrattuale, dei casi che, a titolo esemplificativo, coinvolsero anni fa alcuni giocatori da un lato, e una squadra capitolina dall’altro.
Ai summenzionati calciatori, difatti, la società capitolina impedì di prender parte alla preparazione precampionato della stagione sportiva 199-2000. Ebbene, in seguito al mancato adempimento della richiesta di reintegra in squadra, gli atleti si rivolsero al Collegio Arbitrale per ottenere, nel 1999, la condanna del sodalizio sportivo capitolino alla reintegrazione nonché al risarcimento dei danni (ottenendo dei sostanziosi importi).
2.1. b) l’allontanamento del calciatore dagli allenamenti con la prima squadra.
Lo scenario muterebbe, invece, se la condotta della Società si perpetrasse anche nel corso della stagione sportiva. E’ il caso, quindi, della Società che dopo aver reintegrato il calciatore allontanato dalla preparazione precampionato, successivamente impedisce allo stesso di prendere parte agli allenamenti con la prima squadra.
In tal caso, difatti, si configurerebbero senz’altro tutti i requisiti necessari, dal momento che vi è la reiterazione della condotta vessatoria (frequente ricorrenza), la condotta stessa è posta in essere in un cospicuo lasso di tempo (durata), e la stessa, se non accompagnata da giusta causa, si giustifica solo in termini di ostilità (vessatorietà), con evidente danno alla professionalità del calciatore (incisività).
Quanto, infine, all’ipotesi del solo allontanamento del calciatore dagli allenamenti, bisogna fare un distinguo. Qualora, difatti, tale condotta fosse posta in essere una sola volta, prescindendo dalle conseguenze in ordine alle ipotesi previste dall’art. 16 Acc. Coll. (cioè reintegrazione a seguito della sola diffida scritta del calciatore, reintegrazione a seguito della decisione così presa dal Collegio Arbitrale su istanza del calciatore, nessuna reintegra ma solo risoluzione del contratto), varrebbero le stesse considerazioni svolte sopra per l’ipotesi dell’allontanamento dal ritiro precampionato: tale condotta, cioè, resterebbe confinata all’ipotesi del solo inadempimento contrattuale, con le annesse conseguenze.
E’ il caso, questo, di un calciatore, che, privato dalla propria squadra della possibilità di frequentare gli allenamenti con la prima squadra, fece ricorso al Collegio Arbitrale per ivi ottenere la risoluzione del contratto, con annesso risarcimento del danno.
In caso di reiterazione, persino se in un durevole lasso di tempo, invece ecco che le conseguenze in ordine al verificarsi della condotta mobbizzante sembrerebbero emergere, potendosi infatti svolgere le stesse conclusioni viste sopra per l’ipotesi della condotta mista “allontanamento ritiro-allontanamento allenamenti”. Nessun dubbio, difatti, sembra sussistere in ordine al carattere abusivo di tale azione.
Proprio tale ultima ipotesi sembra essersi verificata nella vertenza tra un calciatore comunitario ed il proprio club. Il Presidente del sodalizio, difatti, mise ripetutamente fuori-rosa il proprio calciatore, colpevole soltanto di aver firmato un contratto di lavoro sportivo con un’altra squadra, secondo modi e termini peraltro consentiti dalle norme federali.
La vessatorietà di tale condotta fu confermata anche dalla circostanza che l’atleta disputò circa la metà delle partite della stagione sportiva nelle file della formazione “Primavera”, appartenente quindi al settore giovanile del club. Evidente il danno al diritto alla professione.
Risulta doveroso, peraltro, precisare che la vertenza fu impostata e definita in termini di mero inadempimento contrattuale. Qui si è voluto solo alludere alla circostanza che tali fattispecie sarebbe potuta rientrare in una ipotesi di mobbing, qualora ovviamente il calciatore in dipendenza di tale condotta datoriale avesse altresì patito una malattia di natura psicologica.
2.1.c) altre ipotesi.
Nello scorso mese di luglio si è verificato un caso che, per le proprie caratteristiche, sembrava poter sfociare in una controversia di mobbing sportivo.
Un calciatore di una squadra capitolina (regolarmente sotto-contratto) asseriva di essere stato offeso nella sua dignità nonché immagine dalle dichiarazioni dei dirigenti della propria squadra, “rei” di aver contestato al giocatore una condotta irregolare nonché inadempiente dal momento che quest’ultimo, come detto contrattualmente legato, sembrava aver trovato un accordo per la stipula di un nuovo contratto di lavoro sportivo con altro club.
Dedotta tale lesione, il calciatore aveva altresì lamentato l’insorgere di malattia depressiva, documentata da certificati medici, ed asseritamene causata proprio da tale condotta datoriale.
In conseguenza di tale patologia, il calciatore non rispondeva quindi alla convocazione per l’inizio del ritiro pre-campionato.
Dopo numerose traversie, il calciatore è stato poi ceduto ad una squadra piemontese, non avendo più dato segni né lamentato alcuna forma della asserita patologia depressiva.
Tale fattispecie si pone proprio come spartiacque tra il mero inadempimento contrattuale ed il vero e proprio mobbing. Ci sia consentito, però, di precisare come tale fattispecie sia sintomatica di una certa tensione ad oggi esistente tra il mondo datoriale e quello dei calciatori. E’ evidente, difatti, che se di inadempimento o di mobbing si possa parlare, ciò è esclusivamente addebitabile al calciatore, giungendo, persino, al paradosso di pensare come forse siano i club ad essere mobbizzati dai calciatori di chiaro prestigio internazionale. Questi ultimi, difatti, pur legati da regolare contratto, una volta giunti ad una anno dalla scadenza del proprio vincolo, assumono condotte vessatorie ai danni del club, e ciò allo scopo di ottenere rinnovi contrattuali a cifre assai maggiori di quelle dovute in base al pregresso accordo, e ciò pena la prospettiva persino di non giocare o comunque di rispettare il precedente legame fino a scadenza naturale potendo poi “liberarsi a parametro zero” (Con tale espressione, si allude al fatto che il diritto alle prestazioni pluriennali dei calciatori (il c.d.”cartellino”) è una voce da iscrivere nella posta attiva del bilancio delle società di calcio. Il calciatore, in sostanza, finchè è sotto contratto, rappresenta un utile per il club, il quale può monetizzare la cessione di tale diritto ricavandone un corrispettivo economico. Una volta giunto a scadenza di contratto, il calciatore è invece libero di scegliere se rinnovare il contratto o stipularne uno con una nuova squadra, non dovendo quest’ultima corrispondere alcunché alla precedente. Evidente in tal caso la perdita economica dei clubs.
Tale problematica, involgendo però molti altri aspetti, necessita però un approfondimento da riservare ad altra sede. Attualmente ci premeva solo evidenziare la distorsione del sistema prendendo spunto dalla fattispecie esaminata.
2.2. L’allenatore
Estremamente interessante è l’analisi dell’eventuale sussistenza di una condotta mobbizzante posta in essere da un allenatore di un club professionistico in danno di un calciatore tesserato con quest’ultimo.
Come già visto con riguardo al c.d. bossing, anche qui tale analisi prende le mosse dall’esigenza di evidenziare gli obblighi contrattuali del trainer.
In capo a quest’ultimo (sportivo professionista stante la sua esplicita menzione nella classificazione ex art. 2 L. 91/81) sorgono esclusivamente diritti ed obblighi contrattuali nei confronti del club cui è legato da apposito contratto di lavoro sportivo, caratterizzato dal vincolo della subordinazione.
L’allenatore, infatti, è un dipendente della Società, di cui deve tutelare e valorizzare al meglio il patrimonio calciatori, nel rispetto pur sempre della assoluta autonomia e discrezionalità nelle scelte di conduzione tecnica della squadra. Può dunque parlarsi di obblighi nei confronti dei calciatori solo come conseguenza indiretta di quelli, di natura contrattuale, nei confronti della società. Tali doveri, sanciti dall’apposito Accordo Collettivo stipulato tra la F.I.G.C. – Lega Nazionale Professionisti e Lega Professionisti Serie C e l’Associazione Italiana Allenatori Calcio (A.I.A.C.) , entrato in vigore dal 1° luglio 1990 e sempre tacitamente rinnovato ogni tre anni, possono essere così fissati: “L’allenatore, in relazione alle funzioni affidategli, si impegna a tutelare e valorizzare il potenziale atletico della società e predisporre ed attuare l’indirizzo tecnico, l’allenamento e ad assicurare l’assistenza nelle gare della o delle squadre a lui affidate di cui assume la responsabilità” (art. 18, comma uno).
Peraltro, secondo l art. 19, "l allenatore è tenuto a mantenere una condotta conforme ai principi della lealtà, della probità e della rettitudine sportiva, nonché ad osservare un comportamento di vita appropriato all adempimento degli impegni sportivi assunti. Egli si impegna altresì al rispetto delle istruzioni impartite dalla società, a rispettare il dovere di fedeltà nei confronti della stessa società ed a fornire esempio di disciplina e di correttezza civile e sportiva".
Come detto, a fronte di tali doveri di natura tipicamente subordinata, vi sono i contrapposti diritti di non interferenza nelle scelte tecniche-sportive. "La società non potrà, inoltre, effettuare alcuna ingerenza nel campo delle competenze tecniche dell allenatore, tale da non consentire allo stesso lo svolgimento utile del proprio lavoro o da apparire pregiudizievole per la stessa immagine dell allenatore".
In relazione a tale diritto, poi, la società non solo non può ingerirsi nelle scelte tecniche sportive deputate all allenatore, ma per giunta deve anche curarne l attuazione ("La società si impegna....a dare attuazione alle disposizioni dell allenatore nella conduzione delle squadre a lui affidate").
Precisato dunque il complesso dei principali diritti-doveri dell allenatore nei confronti della società, dobbiamo chiederci se l’allenatore possa porre in essere condotte mobbizzanti e, soprattutto, quali esse possano essere.
Alla luce di quanto premesso, dobbiamo anzitutto escludere che possano configurare mobbing tutte le condotte atte a “demansionare” il calciatore, dato che in base al disposto di cui al succitato art. 4 L. 91/81 tale istituto non è applicabile al lavoro sportivo.
Rientra dunque nei legittimi poteri dell’allenatore scegliere se utilizzare un calciatore in un ruolo diverso da quello normalmente ricoperto, o anche direttamente non utilizzarlo.
Il calciatore, difatti, non potrebbe opporsi a tali decisioni dato che, come visto sopra, egli ha il solo diritto di partecipare alla preparazione precampionato nonché agli allenamenti con la prima squadra, ma ovviamente non quello di disputare le partite ufficiali.
L’eventuale opposizione dell’atleta alle decisioni in tal senso operate dall’allenatore, configurerebbe inadempimento contrattuale nei confronti della società, dal momento che in base all’art.12 dell’Accordo Collettivo dei calciatori professionisti "la prestazione sportiva deve essere eseguita, nell ambito dell organizzazione predisposta dalla società, con l osservanza delle istruzioni tecniche e delle altre prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici", tali dovendo intendersi, appunto, le decisioni così prese dall allenatore in qualità di titolare della conduzione tecnica della squadra. Tale disposizione risulta peraltro emanata sulla scorta di quanto previsto dall art. 4, comma quattro, L. 91/81, che così recita: "Nel contratto individuale dovrà essere prevista la clausola contenente l obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici".
Tornando dunque alla condotta dell’allenatore il quale impieghi “fuori ruolo” oppure non utilizzi il calciatore, è d’uopo comunque chiedersi quali effetti essa produca, qualora tale scelta non sia sostenuta da validi motivi (scarsa efficienza fisica del calciatore, incomprensioni circa le disposizioni tecniche). Quid juris, in sostanza, se l’allenatore non utilizzi un calciatore solo per motivi personali, privi di alcun riscontro oggettivo? Tale comportamento potrebbe integrare quanto meno gli estremi dell’inadempimento contrattuale, dato che, come sopra ricordato, l’allenatore ha l’obbligo contrattuale di valorizzare il potenziale tecnico messogli a disposizione dalla Società. Tale obbligo, poi, meglio si comprende avendo poi riguardo al caso di un allenatore che non impieghi un calciatore di chiara fama, proprio per ciò acquistato dal club.
Anzi qui potrebbe, altresì, configurarsi inadempimento anche con riguardo alla violazione dell’obbligo contrattuale di tenere una condotta conforme ai principi di lealtà, probità e della rettitudine sportiva.
Proprio per tali violazioni, peraltro, anche la Società potrebbe incorrere in sanzioni disciplinari attesa la violazione della norma-cardine che impone a tutti i sodalizi sportivi di schierare in campo la migliore formazione possibile.
Tale condotta, poi, può concretare anche mobbing?
Anche la risposta a tale quesito non può che prendere le mosse dall’analisi della eventuale ricorrenza dei suddetti requisiti necessari. Il costante e reiterato non impiego del calciatore, protrattosi per un certo lasso di tempo e non accompagnato da una logica giustificazione tecnico-sportiva, contiene ex se i crismi di quella condotta ostile se non umiliante nei confronti dell’atleta, degradante a mobbing qualora ad essa sia eziologicamente legata l’eventuale patologia psicologica del calciatore. Palese, in tale ipotesi, il danno al diritto dell’uomo-calciatore ad esplicare la propria personalità nell’ambito della società sportiva (attraverso la partecipazione alle gare agonistiche), da considerarsi alla stregua di quelle “fondazioni sociali” richiamate dal precetto costituzionale di cui all’art. 2 Cost.
Stessa valutazione può svolgersi avendo riguardo all’ipotesi in cui l’allenatore, in aggiunta o meno alla sopraevidenziata condotta, si esprima in maniera offensiva nei confronti dell’atleta. Alle suddette violazioni, si aggiungerà anche quella al rispetto alla dignità nonché onore dello sportivo, che, invece, potrà essere autonoma fattispecie di mobbing ove la condotta offensiva, cui sia casualmente legata la detta patologia, abbia i più volte richiamati requisiti.
Un’ultima precisazione. Tornando alle argomentazioni svolte con riguardo ai rapporti calciatore-società con riguardo ai provvedimenti di allontanamento dal ritiro precampionato nonché dagli allenamenti, è evidente che le argomentazioni svolte con riguardo all’eventuale configurabilità di tale condotta come mobbizzante, valgono anche nei confronti dell’allenatore qualora tali scelte siano assunte dalla società su precisa indicazione di quest’ultimo.
Rammentando quanto infatti detto prima con riguardo all’art. 17 dell’Acc. Coll. Allenatori Professionisti, nel caso di richiesta dell’allenatore, la società sarebbe infatti tenuta a darvi esecuzione.
Sarebbe, in conclusioni, plausibile sostenere un concorso dell’allenatore nonché della società nella condotta mobbizzante resa in danno del calciatore.
3. Il mobbing orizzontale
Con tale ipotesi si suole riferirsi alle condotte vessatorie poste in essere dai colleghi di lavoro. E’ questa l’ipotesi di condotta ostile posta in essere dai calciatori tesserati con lo stesso club in cui milita il calciatore mobbizzato. Quali condotte possono però avere i requisiti di cui sopra?
Potremmo fare l’ipotesi di colleghi di squadra che, indotti da motivi di competizione, isolino taluno dal resto del gruppo durante gli allenamenti, rendendolo per es. estraneo alle vari fasi di gioco, e ciò allo scopo di renderne di fatto inutile l’utilizzo per le competizioni ufficiali. Tale ipotesi ricomprende, ovviamente, anche quella della condotta così perpetrata direttamente durante la gara sportiva.
Tali comportamenti dovranno, poi, essere reiterati durante gran parte della stagione sportiva, per non incorrere nelle obiezioni viste con riguardo alle altre forme di mobbing (mancanza della frequente ricorrenza nonché della durata) e tese cioè a ricondurre la condotta solo nell’ambito di una eventuale responsabilità contrattuale.
Difficile, però, sarà in tal caso fornire la prova del c.d. elemento psicologico, rappresentato dalla malafede o, quanto meno, dalla colpa, quale necessario sostegno alla condotta materiale posta in essere dai colleghi, che, da sola, non potrebbe concretare gli estremi di azione mobbizzante.
4. Il mobbing dal basso.
Ricca di spunti di interesse risulta essere anche tale ultima forma di mobbing. Come detto, tale definizione suole ricomprendere le condotte che si concretino in atti di delegittimazione di un’autorità superiore, posti in essere da coloro ad essa sottoposti.
Traslando tale ipotesi nel settore calcistico, viene dunque subito in mente l’ipotesi di condotte vessatorie poste in essere dai calciatori nei confronti dell’allenatore, ai primi diretto superiore.
Non riteniamo invece possibile il verificarsi di una forma di mobbing anche nei confronti della società (nella persona del suo legale rappresentante), alla cui direzione il calciatore è soggetto.
Risulta invero assai difficile prevedere un tale genere di condotta mobbizzante, né tanto meno le possibili ripercussioni sul soggetto destinatario delle stesse.
Con riguardo alla prima ipotesi, la stessa deve poi essere a sua volta scomposta in altre due, a seconda che la condotta vessatoria venga posta in essere da uno o più calciatori, profilandosi così un mobbing dal basso individuale o collettivo.
Procediamo dunque all’analisi separata di tali diverse ipotesi, cercando di valutarne la configurabilità ai fini del fenomeno in esame.
4.1. Il mobbing dal basso nei confronti dell’allenatore.
4.1.a) Il mobbing collettivo.
Chiunque abbia praticato la disciplina calcistica, o, comunque, osservi tale sport professionistico dal vivo o attraverso i mezzi di comunicazione, ha potuto constatare quanto delicata possa essere la posizione giuridica rivestita dall’allenatore in seno alla società. Quest’ultimo, come visto in precedenza, è infatti un dipendente del sodalizio sportivo.
Tale subordinazione comporta due obblighi tra loro complementari: l’impegno di valorizzare al meglio l’organico tecnico messo a disposizione dal club, e quello di raggiungere gli obiettivi tecnico-sportivi prefissati con la società stessa.
Per realizzare tutto ciò, l’allenatore deve però contribuire a creare la necessaria amalgama tra gli atleti (il cd. – è proprio il caso di dirlo – “spirito di squadra”, o, se preferite, lo “spogliatoio”). Laddove tale coesione manchi, con eventuale carenza anche dei risultati sportivi, ecco che la Società che intenda apportare modifiche ai fini di un miglioramento della gestione sportiva, trovi di certo più facile sostituire la sola guida tecnica, invece che un intero organico di atleti.
Tale discorso vale a maggior ragione nell’attuale calcio-business, caratterizzato da un professionismo sempre più accentuato, e dove il fine ludico dell’attività lascia più spesso il campo ad una sfrenata ricerca dell’obiettivo da raggiungere, e ciò del resto in nome di un’inevitabile esigenza di ritorno a fronte di ingenti investimenti economici sostenuti.
Ecco, dunque, che nelle squadre professionistiche potrebbe verificarsi il caso di una intera squadra, o gran parte di essa che, al fine di fare esonerare un allenatore, ponga in essere nei suoi confronti condotte vessatorie.
Vengono dunque in ballo le ipotesi di calciatori, che, venendo meno al loro obbligo di esecuzione della prestazione sportiva secondo correttezza e buona fede, rechino pregiudizio al sodalizio sportivo presso cui militano al deliberato scopo di causare l’esonero dell’allenatore.
Tali condotte, come ormai noto, dovranno quindi possedere quelle caratteristiche viste con riferimento alle altre forme di mobbing, degradando, in difetto, a mero inadempimento contrattuale.
Il mister, poi, dovrà essere destinatario di una condotta ostile di cui andrà provata l’intenzionalità, nonché gli effetti in termini di patologia psicologica.
4.1.b) Il mobbing individuale.
Tali argomentazioni valgono, in parte, anche per le condotte vessatorie poste in essere da un solo atleta.
Qui però è d’uopo precisare che tale ipotesi è più che altro utile da un punto di vista dogmatico, piuttosto che empirico. Risulta invero difficile pensare al caso di un calciatore che, animato da intento vessatorio nei confronti del proprio allenatore, raggiunga un tale risultato senza il contributo dei colleghi di squadra.
Tale ipotesi potrebbe forse ipotizzarsi nel caso di un calciatore di grande levatura tecnica, animato dalle anzidette intenzioni, ma, come detto, per realizzare la sua condotta avrebbe pur sempre bisogno del sostegno dei propri compagni di squadra, sui quali peraltro potrebbe far pesare proprio il suo ascendente.
Sembra, invero, che tale ipotesi possa eventualmente integrare solo gli estremi dell’inadempimento contrattuale nei confronti della Società, per i motivi sopra dedotti.
5. Le tutele
Detto quindi delle condotte di mobbing ipotizzabili nel settore calcistico professionistico, è d’uopo infine chiedersi quali siano le tutele accordabili al soggetto che ne sia stato vittima.
In favore di quest’ultimo, poi, verranno in soccorso solo i rimedi previsti dall’ordinamento sportivo (ordinamento settoriale), oppure anche quelli previsti dall’ordinamento statuale (ordinamento generale)? Anche con riferimento al fenomeno oggetto del presente studio si ripropongono, infatti, le problematiche sottese ai rapporti tra ordinamento sportivo ed ordinamento statuale, con particolare riguardo a quelli tra giustizia sportiva e giustizia ordinaria.
Cominciando dalle tutele, il soggetto mobbizzato potrà non solo avvalersi dell’azione contrattuale, che peraltro come detto presenta requisiti diversi da quelli previsti come integranti mobbing, ma anche e soprattutto di quella extracontrattuale.
Atteso il riconoscimento costituzionale dei beni lesi dal mobbing, è pacifico ritenere che il soggetto danneggiato possa poi avvalersi delle tutele previste da entrambi gli ordinamenti.
Cominciando da quello sportivo, in forza dell’articolo 25 dell’Accordo Collettivo attualmente in vigore, il calciatore con la stipula del contratto di lavoro sportivo professionistico, si impegna ad adire, per tutte le controversie inerenti il rapporto con la società, il Collegio Arbitrale il cui funzionamento è previsto da un apposito Regolamento allegato all’Accordo, di cui costituisce parte integrante.
Tale Organo, però, sembra essere competente a risolvere le sole controversie riguardanti il rapporto di lavoro, quindi quelle meramente contrattuali.
Per la eventuale richiesta di declaratoria di responsabilità extracontrattuale, si ritiene invece che la stessa possa essere fatta valere dal calciatore dinnanzi alla Corte Federale, massimo organo di Giustizia Sportiva calcistica.
L’art. 22, comma 3, del Codice di Giustizia sportiva della F.I.G.C., stabilisce infatti che: ” La Corte Federale può essere investita da ogni tesserato o affiliato alla F.I.G.C. in ordine a questioni attinenti alla tutela dei diritti fondamentali, personali od associativi, che non trovino altri strumenti di garanzia nell’Ordinamento federale”.
Tale norma forse meglio si attaglia alla portata del fenomeno in questione, dal momento che la vessazione in danno dell’atleta si sostanzia in una violazione di diritti fondamentali della persona che non devono ricondursi ad una mera violazione di obblighi contrattuali.
Oltre agli organi di giustizia sportiva, si ritiene dunque che il calciatore possa alternativamente adire anche quelli di giustizia ordinaria, allo scopo di ivi far valere le due anzidette forme di responsabilità. La natura della tutela invocata, consente senza dubbio tale possibilità di scelta, e ciò anche a seguito dell’emanazione della legge 17 ottobre 2003 n. 280, che ha riscritto i rapporti tra i due ordinamenti in questione, e ciò soprattutto con riguardo alle materie nelle quali è obbligatorio il previo esperimento di tutti i gradi di giustizia sportiva previsti, salvo poi il diritto di adire quelli di giustizia ordinaria.
Con riguardo, poi, al mobbing verticale posto in essere dall’allenatore, nonché a quello orizzontale, è d’uopo infine precisare che, soprattutto adendo gli organi di giustizia statuale, il calciatore oltre che agire nei confronti dell’autore materiale della condotta persecutoria per responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., potrà agire altresì nei confronti della Società sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità “aquiliana”.
In base al succitato art. 2087 c.c., il datore deve infatti garantire la sicurezza ed il rispetto del lavoratore anche contro eventuali condotte illecite di altri dipendenti. L’art. 2049 (responsabilità dei padroni e dei committenti) c.c., la cui tutela è azionabile alternativamente o cumulativamente a quella di cui sopra, sancisce poi la responsabilità indiretta della Società per il fatto dannoso posto in essere dal proprio dipendente.