lavoroprevidenza

giovedì 23 settembre 2004

Lavoro intermittente: alcuni rilievi tipici

del dott. Enrico Raimondi



Tra le numerose novità introdotte dal D.lgs.n. 276/03 il contratto previsto dall’art. 33, definito “di lavoro intermittente”, è quello che certamente pone, non meno di altri istituti introdotti dalla riforma del mercato del lavoro, delicati problemi di carattere dogmatico.

In via generale, sono condivisibili le preoccupazioni di chi ha affermato che questo nuovo contratto “non consente progetti di vita” , dal momento che al lavoratore viene sottratta la possibilità di programmare i propri tempi di vita e di lavoro. È questa, infatti, la caratteristica che rende differente tale contratto con gli altri a orario flessibile. La differenza sostanziale tra il lavoro a chiamata, il part time e la somministrazione di manodopoera risiede nel fatto che “la condizione del lavoratore ... in attesa di chiamata, rimette nella mani del datore la facoltà di determinare volta per volta, non solo il quomodo o il quantum, ma addirittura l’an della prestazione altrui ... Nel caso dello ius variandi, la variazione presuppone l’esistenza di un oggetto da variare; qui, invece, l’oggetto manca. Non c’è un tempo di lavoro da modificare (nella sua estensione o distribuzione). Il tempo di lavoro rimane assoggettato, per così dire, ad uno ius creandi da parte del datore di lavoro” . Tale situazione, infatti, non viene a determinarsi nel rapporto a orario ridotto, dal momento che, concluso il contratto, il prestatore sa in quali giorni e per quante ore dovrà recarsi a lavoro, anche nel caso vengano pattuite clausole elastiche. Il lavoratore intermittente, invece, potrà essere chiamato, salvo diversa pattuizione, fino a ventiquattro ore prima del giorno in cui dovrà recarsi al lavoro (art. 35, l. b), per svolgere un’attività che potrà essere a tempo pieno o di poche ore nell’arco di una giornata, a seconda delle esigenze datoriali. Rispetto al lavoratore somministrato, inoltre, basti rilevare che questi comunque percepirà l’indennità di disponibilità nei periodi di non lavoro, così come può ragionevolmente prevedere il tempo di durata della missione presso un’impresa utilizzatrice. In ogni caso, il lavoratore, nel caso della somministrazione di manodopera, è più tutelato, per effetto del rapporto triangolare che si instaura tra agenzia, impresa e la sua persona. Nel caso di lavoro a chiamata, al contrario, il decreto rimette al debitore l’opzione di percepire l’indennità di disponibilità, a seconda se egli si obblighi o meno a stare a disposizione.

In una parola, nel caso del lavoro intermittente il soggetto obbligato vivrà nell’incertezza, dal momento che nessun elemento caratterizzante il rapporto di lavoro subordinato può essere considerato, direttamente o indirettamente, certo.

Non potendo in questa sede analizzare tutti gli aspetti di questo nuovo istituto, ci si limiterà a mettere in rilievo alcuni aspetti critici di tale contratto “mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa nei limiti di cui all’art. 34” e cioè “...per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi ...”, o, in via provvisoria, da decreto del Ministro competente.

Seguendo una discutibile tecnica normativa, a parte il caso contemplato dal secondo comma dell’art. 34 (contratto di lavoro intermittente concluso in via sperimentale), il Legislatore “rinuncia a qualsiasi indicazione causale, rimettendo tale compito alla fonte collettiva, ovvero a quella regolamentare” .

Essendo così privi di indicazioni legislative utili, la ricostruzione dell’istituto si presenta di particolare complessità. La questione centrale, da risolvere in via interpretative, è quella di individuare con esattezza quale sia l’oggetto della struttura sinallagmatica dell’obbligazione che lega il debitore al creditore.

La problematica è di notevole complessità, in quanto “la fattispecie contrattuale appena descritta si caratterizza per considerare un del lavoratore come oggetto principale della prestazione di lavoro, un’ipotesi questa non ancora conoscxiuta nella realtà normativa italiana” .

In sostanza è necessario comprendere se lo stare a disposizione sia parte integrante dell’oggetto dell’obbligazione di lavoro oppure no. Risposto a questo primo interrogativo si rende poi necessario verificare se questo stare a disposizione possa farsi rientrare nella struttura unitaria di subordinazione contemplata dall’art. 2094 del Codice Civile.

Il dato positivo certo non aiuta, dal momento che la disponibilità è “eventualmente garantita” (art. 35) dal lavoratore. In sostanza, come emerge anche dal tenore dell’art. 36, ci si trova di fronte a due sottocategorie di lavoro intermittente – che può essere comunque sia a tempo indeterminato sia a tempo determinato - ; la prima sottocategoria è costituita dall’obbligazione del lavoratore di rispondere alla chiamata, da cui sorge l’obbligazione per il datore di lavoro di corrispondere un’indennità di disponibilità; la seconda è rappresentata, al contrario, dal fatto che il prestatore non si obbliga a rispondere alla chiamata con la conseguenza che non vedrà riconosciuto alcun diritto all’indennità .

A prescindere dalla natura retributiva o meno di tale indennità , su cui si tornerà tra breve, è evidente che, mentre nel secondo caso è dubbio che lo stare in disponibilità possa farsi rientrare nella struttura sinallagmatica del rapporto che lega i due soggetti, nel caso, invece, dell’assunzione dell’obbligo, da parte del debitore, di stare in disponibilità in attesa di chiamata, è da chiarire se nella struttura del contratto rientri anche tale momento di non lavoro. Su questo punto il decreto è ambiguo. Alcune norme indurrebbero a dare una risposta affermativa, altre nascondono il tentativo di sottrarre il periodo di disponibilità dalle garanzie e dalle tutele riconosciute al lavoro subordinato tradizionale.

Ad una risposta positiva si perverrebbe considerando che il periodo di disponibilità rileva sul piano funzionale del contratto di lavoro, per effetto del sesto comma dell’art. 36. Secondo tale disposizione, infatti, “il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può comportare la risoluzione del contratto, la restituizione della quolta di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto, nonchè un congruo risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal contratto di lavoro”.

A prescindere dal lessico improprio utilizzato dal Legislatore , tale disposizione condurrebbe quindi a pensare che il periodo di disponibilità rientri nella struttura obbligatoria, e quindi sia il primo dei due momenti, necessariamente collegati per la realizzazione di un’operazione unitaria, (disponibilità-prestazione lavorativa) in cui si perfeziona il contratto.

Si osservi, tuttavia, che altre norme lasciano intendere esattamente l’opposto, e cioè che l’obbligo di stare in disponibilità sia del tutto estraneo al contratto di lavoro. Si arriverebbe a questa conclusione, non soltanto perchè lo stesso art. 36 al terzo comma esclude l’indennità di disponibilità dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, ma, soprattutto, perchè, ai sensi dell’art. 38, terzo comma, “per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati nè matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l’indennità di disponibilità di cui all’articolo 36”.

In coerenza con tale operazione normativa il decreto non dà espressamente rilevanza a quelle situazioni tradizionalmente garantite dal contratto di lavoro subordinato tipico, quali i casi di legittima sospensione del rapporto di lavoro, il cui rischio viene trasferito in capo al lavoratore.

Ai sensi del quarto comma dell’art. 36, infatti, “in caso di malattia o di altro evento che renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, il lavoratore è tenuto tempestivamente a informare il datore di lavoro, specificando la durata dell’impedimento. Nel periodo di temporanea indisponibilità non matura il diritto alla indennità di disponibilità”. È evidente che la norma non si applica solamente nel caso in cui il lavoratore, perchè malato, non può legittimamente rispondere alla chiamata, ma anche nel caso in cui si la malattia sopravvenga nel corso dello svolgimento della prestazione lavorativa, e cioè dopo la chiamata. A tale conclusione si perviene tenendo a mente il fatto che non v’è alcuna norma che in questo senso ponga limiti al datore di lavoro nei confronti del lavoratore, in quanto il “datore di lavoro decide liberamente se e quando utilizzarne la prestazione mediante chiamata” . Ciò vuol dire che, nel caso di malattia, o delle altre ipotesi tradizionali di sospensione legittima della prestazione lavorativa, il datore di lavoro potrebbe rimettere in disponibilità il lavoratore, che, così, non vedrebbe maturare l’indennità. In pratica, si ritorna all’antico, a quel periodo in cui il datore di lavoro, in caso di malattia del lavoratore, o di altre situazioni suscettibili di interrompere il rapporto di lavoro per cause attinenti alla persona del lavoratore, poteva non corrispondere il salario! Non pare questa scelta coerente neppure con l’art. 1 del decreto legislativo che solennemente afferma che le novità da esso introdotte “sono finalizzate ... a promuovere la qualità e la stabilità del lavoro...”.

Al contrario, il decreto procede, attraverso la sottrazione del periodo di disponibilità dalle tutele proprie del lavoro subordinato, verso una sostanziale e generalizzata riduzione delle tutele del lavoratore, che vedrà privarsi, oltre che delle garanzie espressamente escluse dal decreto, anche di altre che si ricollegano alla condizione tipica di subordinazione. Si pensi alla disciplina del licenziamento. Se per effetto del citato art. 38 al lavoratore intermittente non viene riconosciuto, nei periodi di non lavoro, alcun diritto proprio dei lavoratori subordinati, potrebbe essere legittimamente licenziato ad nutum senza particolari obblighi di preavviso e di motivazione da parte del datore di lavoro.

Ma a parte questa ipotesi, che rende bene l’idea dell’incertezza in cui è condannato a vivere un lavoratore a chiamata, il datore di lavoro viene messo in condizione di eludere le previsioni delle norme legali relative alla stabilità reale del posto di lavoro, e, in generale, a tutte quelle discipline applicabili in ragione della dimensione dell’impresa. La fuga è resa possibile grazie all’art. 39 che prescrive di computare i lavoratori intermittenti nell’organico dell’impresa, “ai fini della applicazione di normative di legge” in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre.

In pratica si potrebbe arrivare ad una situazione per cui un’azienda ha dieci dipendenti e sei lavoratori intermittenti che prestano, in un determinato arco temporale, contemporaneamente la loro attività lavorativa. L’organico dell’impresa, in questo periodo, sarebbe di sedici dipendenti e quindi oggetto della disciplina dell’art. 18 St.lav.. Si ponga per ipotesi che il datore decida di rimettere in disponibilità tre lavoratori intermittenti. In questo caso, se procedesse ad un licenziamento ingiustificato di un dipendente non potrebbe più essere applicato l’art. 18 St.lav. in quanto l’organico sarebbe non più di sedici, ma di tredici dipendenti. Questo significa che il ricorso al lavoro intermittente, se risponde sicuramente all’interesse datoriale di “disporre di manodopera nel momento esatto in cui serve, evitando di stipulare contratti con una pluralità di lavoratori, come è sempre stato possibile fare” , potrebbe soddisfare anche l’interesse dell’impresa di ridurre il costo del lavoro derivante da licenziamenti ingiusitificati, rendendo intermittenti quei diritti a cui i lavoratori accedono sulla base delle dimensioni dell’impresa.

Sul tema della riduzione generalizzata dei diritti e delle tutele si potrebbe continuare. Si preferisce, tuttavia, rinviare ai numerosi saggi sull’argomento per affrontare la questione centrale che si siamo proposti di mettere in rilievo, e cioè se il tempo di non lavoro per il quale un soggetto rimane in disponibilità possa farsi rientrare nella struttura dell’obbligazione di lavoro.

Il decreto, in sostanza, non concepisce come lavoro lo stare in disponibilità, e le norme brevemente commentate lo dimostrano. Tuttavia, si vuole tenere conto di una interessante tesi avanzata in dottrina che fa leva sull’applicazione dell’art. 36 Cost. alla commisurazione dell’indennità di disponibilità. Questa operazione renderebbe possibilire riconoscere natura retributiva all’indennità di disponibilità, movendo dalla premessa che essa rappresenti la controprestazione per un’obbligazione di facere, consistente nello stare a disposizione. In sostanza, “l’applicazione dell’art. 36 Cost. è un Cavallo di Troia nella anchilosata convizione che lo stare a disposizione, la disponibilità, non costituisce prestazione di lavoro” . A sostegno di tale tesi si potrebbero ricordare gli orientamenti comunitari in materia, ispiratori, peraltro, della nuova disciplina in materia di orario di lavoro, tesi a mettere al centro del rapporto di lavoro e delle dinamiche produttive, la persona del lavoratore, che deve essere messa in condizione di essere artefice del proprio tempo, soprattutto quello libero, che, secondo la definizione di Dumazedier, è il tempo impiegato per la realizzazione della persona umana come fine ultimo.

Se, dunque, con il contratto di lavoro intermittente con obbligo di rispondere alla chiamata è proprio il tempo libero che viene sottratto nella disponibilità della persona, perchè non potrebbe sostenersi che il periodo di disponibilità sia tempo di lavoro, e come tale presieduto dal dovere di collaborazione posta dall’art. 2094 del Codice civile? Qui si apre una vera sfida per il diritto del lavoro e i suoi cultori. È concepibile che il rimanere in attesa di essere chiamati a lavorare possa essere inteso come collaborare nell’impresa? In questa sede si propende per la risposta positiva, dal momento che lo stare a disposizione realizza l’interesse del datore di disporre di forza lavoro per la realizzazione del fine dell’impresa. E dalla parte del lavoratore? È proprio questo stare a disposizione che, oggi, non viene tutelato dal dato positivo, che sembre garantire solamente l’interesse creditorio alla libera disponibilità di manodopoera a prescindere dall’esigenze di tutela che tradizionalmente emergono nell’alveo, sempre più eterogeneo, del lavoro dipendente. Se, infatti, l’interesse dell’impresa non viene frustrato, l’interesse del lavoratore di essere tutelato anche nella fase in cui non lavora, ma è obbligato a rispondere alla chiamata, non viene praticamente preso in considerazione dalle nuove norme. Tale situazione, se non verrà censurata dalla Corte Costituzionale , dovrà essere superata con un intervento legislativo che garantisca ai lavoratori a disposizione alcuni diritti fondamentali, non rinunciabili e nè modulabili a seconda dell’attività lavorativa effettivamente prestata, e altre garanzie che ben possono essere modulate sulla base dell’effettivo lavoro svolto.

Ciò significa riproporre il tema della tutela del tempo di non lavoro, come uno dei nuovi confini del diritto del lavoro del terzo millennio, se si condivide, come in questa sede, la necessità attuale di “delineare i contorni e di individuare i contenuti di un contratto di lavoro chiamato a farsi carico di una quantità crescente di nuove aspirazioni” .





note



D. GOTTARDI, I contratti con orario flessibile (lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale), in Lavori e precarietà – il roverscio del lavoro, (a cura di) R. BORTONE, C. DAMIANO, D. GOTTARDI, Roma, 2004, p. 89 ss..

R. VOZA, La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, in P.CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Bari, 2004, p. 253

R. VOZA, La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, op. cit., p. 252.

L. CALAFA’, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004,p. 302.

Su questa seconda categoria di lavoro a chiamata si veda L.DE ANGELIS, Lavoro intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata: contratto senza contratto?, 2004, in via di pubblicazione, su ADL/2004. l’A. riprende la tesi espressa da M. NAPOLI, Relazione alle giornate di studio Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme, in www.aidlae segg.org./attivita/2004/relazione_napoli, p. 17 e 18. La tesi richiamata interpreta tale istituto come un strumento che consente al lavoratore di “acconsentire alla formazione da parte del datore di lavoro di un alista di aspiranti ad essere assunti con contratto a termine, quando il bisogno si manifesta e se il lavoratore stesso accetterà”.

Sulle conseguenze del riconoscimento o meno della natura retributiva o meno dell’indennità di disponibilità cfr. R. VOZA, La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, op. cit., pp. 256 ss..

Il termine utilizzato dal decreto, risarcimento, sembra indicare piuttosto una penale, dal momento che il suo ammontare viene determinato per mezzo della contrattazione collettiva o dal contratto individuale. Di tale opinione A. VALLEBONA, La riforma dei lavori, Padova, 2004, p. 60.

A. VALLEBONA, La riforma dei lavori, Padova, 2004, p. 56.

D. GOTTARDI, I contratti con orario flessibile, op. cit., p. 90.

V. BAVARO, Sul lavoro intermittente. Note critiche, in G. GHEZZI (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, Roma, 2004, p. 231.



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