lavoroprevidenza

lunedì 28 giugno 2004

Il licenziamento collettivo ed i datori di lavoro non imprenditori di Rocchina Staiano (dottore di ricerca-Università di Salerno)

dell Avv. Rocchina Staiano

1. Le novità introdotte dal D. Lgs. 110/2004 in tema di licenziamento collettivo.

Il D. Lgs. 8 aprile 2004 n. 110, modificando l’art. 24 della L.223/1991 , ha esteso il licenziamento collettivo anche ai datori di lavoro non imprenditori, quindi agli imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione o di culto. Tale modifica è divenuta necessaria, in quanto la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 16 ottobre 2003, C-32/02, ha dichiarato illegittima la legge italiana sui licenziamenti collettivi nella disposizione (art. 24) relativa all’esclusione dei datori di lavoro che nell’ambito delle loro attività non perseguono fini di lucro. La norma è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 98/59/CE del Consiglio 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. In altre parole, la Commissione contesta all’Italia di non avere correttamente recepito la direttiva 98/59 per quanto riguarda il suo ambito di applicazione ratione personae . Infatti, mentre questa riguarda i licenziamenti collettivi effettuati da un “datore di lavoro”, le disposizioni della L. 223/1991 farebbero esclusivo riferimento ai licenziamenti collettivi effettuati dalle imprese ovvero dai soggetti economici qualificabili come “imprenditori” ai sensi dell’art. 2082 c.c. Infatti, nel diritto commerciale italiano, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di “imprenditore” di cui all’art. 2082 c.c. italiano si riferisce essenzialmente a chiunque svolga professionalmente un’attività organizzata ai fini di produzione o di scambio di beni o di servizi, esercitata in modo esclusivo o a titolo principale e con un fine preciso tendente alla remunerazione dei fattori di produzione. Tale attività dovrebbe avere uno specifico scopo di lucro, cioè generare un profitto come corrispettivo del rischio d’impresa. Dato che, secondo il diritto italiano, le persone, gli organismi o gli enti pubblici e privati che non perseguono uno scopo di lucro non possono essere inquadrati nella nozione di imprenditore né, pertanto, essere qualificati alla stregua di “imprese” ai fini dell’applicazione della L. 223/1991, la normativa italiana di recepimento della direttiva 98/59 creerebbe una esenzione ope legis per tutti i datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono uno scopo di lucro, pur occupando centinaia di persone o godendo di grande rilevanza economica, ad esempio: le associazioni sindacali, le fondazioni, le cooperative e le organizzazioni non governative. Di conseguenza, la direttiva 98/59, pur non contenendo alcuna definizione della nozione di datore di lavoro, trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, che perseguano o meno uno scopo di lucro. A tal proposito, la Commissione richiama il punto 17 della sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85 , secondo il quale la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione. Dato che l’art. 1, n. 2, della direttiva 98/59 prevede precise eccezioni per quanto riguarda il suo ambito di applicazione, gli Stati membri non potrebbero limitare quest’ultimo interpretando restrittivamente taluni termini utilizzati da tale disposizione, in particolare il termine “datore di lavoro”. Un approccio del genere creerebbe una disparità di trattamento tra i lavoratori che non potrebbero essere giustificata dalla natura della loro attività, dal loro statuto o dalla loro situazione sociale. La Commissione ritiene, pertanto che la direttiva si applichi ai licenziamenti collettivi effettuati da qualsivoglia persona fisica o giuridica che abbia posto in essere un rapporto di lavoro, anche senza perseguire uno scopo di lucro. La normativa italiana, in particolare la L. 22371991 che limita l’applicazione delle garanzie offerte ai lavoratori alle sole imprese escludendo indebitamente tutti i datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono uno scopo di lucro, risulterebbe quindi incompatibile con la detta direttiva.





2. Rassegna giurisprudenziale sull’art. 2082 c.c.: nozione di “datore di lavoro imprenditore”.

I. La condizione perchè un soggetto acquisti lo status di imprenditore è che l’attività economico- commerciale, pur svolta per il tramite di altra struttura, sia direttamente e personalmente riferibile ad esso (Cassazione civile, sez. I, 19 febbraio 1999, n. 1396, in Giust. Civ., Mass., 1999, 443).



II. L’attività di prestazione di garanzie personali, priva di diretta od indiretta motivazione ed estranea ad una generale operatività sul mercato (in quanto rivolta in via esclusiva a favore di un unico soggetto), esclude lo svolgimento di attività imprenditoriale (Tribunale Torino, 10 ottobre 1997, in Giur. it., 1998, 737).



III. L’acquisto della qualifica di imprenditore, anche ai fini dell’assoggettabilità alle procedure concorsuali, richiede non una semplice intenzione, ovvero il compimento di atti preparatori ed organizzativi, ma l’effettivo esercizio professionale dell’attività, ossia la concreta gestione dell’organizzazione imprenditoriale (Corte appello Bologna 4 ottobre 1985, in Giur. comm., 1986, II, 617).



IV. L’abitualità, sistematicità e continuità dell’attività economica, assunte come indice della professionalità necessaria, ex art. 2082 c.c., per l’acquisto della qualità di imprenditore, vanno

intese in senso non assoluto ma relativo, poichè anche lo svolgimento di un unico affare può comportare la qualifica imprenditoriale, in considerazione della sua rilevanza economica e della complessità delle operazioni in cui si articola (Cassazione civile, sez. I, 31 maggio 1986 n. 3690, in Giust. civ., Mass., 1986, fasc. 5).



V. Lo scopo di lucro che costituisce requisito essenziale della nozione di impresa è individuabile non solo quando l attività intrapresa sia rivolta al diretto incremento pecuniario, ma in qualsiasi utilità economica, consista questa in un risparmio di spesa o in altro vantaggio patrimoniale (Cassazione civile, sez. I, 3 dicembre 1981 n. 6395, in Giust. civ., Mass., 1981, fasc. 12).





3. Rassegna giurisprudenziale sulla nozione di “datore di lavoro non imprenditore”.

I. Al fine di configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi dell art. 4, 1. 11 maggio 1990 n. 108, è esclusa dall ambito di operatività della tutela reale prevista - in caso di licenziamenti illegittimi - dall art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300 (come modificato dall art. 1 1. 11 maggio 1990 n. 108), è necessario che si tratti di datore di lavoro “non imprenditore”, privo dei requisiti previsti dall art. 2082 c.c. (e cioè, professionalità, organizzazione, natura economica dell attività, consistente nella produzione di beni o servizi, ovvero nell interposizione nello scambio di beni o servizi). In particolare, l’applicazione della disciplina, prevista dalla l. n.108 del 1990 (art. 4) per le organizzazioni di tendenza, presuppone l accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, dell assenza, nella singola organizzazione, di una struttura imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, come definita dall art. 4 1. 11 maggio 1990 n. 108 (Cassazione civile sez. lav., 22 novembre 1999, n. 12926, in Foro it., 2000, I, 74).















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