Prima traccia in materia penale
Tizio veniva tratto a giudizio per rispondere, in concorso con Caio e Mevia - il primo nella qualità di medico ginecologico, il secondo di medico anestesista, la terza di ostetrica - di plurimi omicidi premeditati, connessi al fine di percepire indebiti compensi, su feti in avanzato stato di gestazione (comunque superiore ai 90 giorni), provocando l’induzione al parto tramite somministrazione di idonei farmaci e rottura manuale della membrana, con successiva fuoriuscita del feto, soppresso mediante consapevole condotta omissiva idonea a determinarne la morte.
Risultava accertato, all’esito della complessa attività istruttoria effettuata nel corso delle indagini preliminari ed in particolare delle dichiarazioni delle donne alle quali erano stati praticati gli interventi, dalle testimonianze assunte e dalle consulenze tecniche effettuate su alcuni feti riesumati che quest’ultimi erano vivi e vitali al momento del parto e che la pretesa sofferenza derivata dalla rottura silente della membrana , patologia surrettiziamente documentata nei referti quale causa della morte dei feti, anche ad ammetterne la sussistenza, non avrebbe mai potuto causare la morte di questi ultimi. Risultava, altresì, accertato che, pur non essendo provata la commissione di azioni dirette alla soppressione dei neonati, il decesso doveva attribuirsi alla volontaria omissione delle cure necessarie per mantenerli in vita.
Il candidato, assunte le vesti di legale degli imputati, rediga motivato parere sulle fattispecie configurabili nel caso in esame soffermandosi sulla individuazione degli elementi costitutivi e distintivi dei delitti di omicidio, infanticidio ed aborto.
SVOLGIMENTO
In termini generali l’ordinamento giuridico attribuisce rilievo penale alla soppressione del prodotto del concepimento attraverso diverse fattispecie incriminatrici: l’aborto, l’infanticidio-feticidio e l’omicidio.
Nella specie, va subito anticipato che le condotte criminose poste in essere da Tizio, Caio e Mevia, in concorso tra loro, sono inquadrabili nel paradigma generale dell’omicidio volontario continuato commesso mediante omissione, essendo state compiute ai danni di esseri viventi e vitali, capaci in quanto tali di un periodo sufficientemente durevole di vita autonoma. Come tali, questi comportamenti sono punibili ai sensi degli artt. 40 cpv., 81 cpv., 110 e 575 c.p.
A tale soluzione si perviene nella misura in cui appaia dimostrato – e le circostanze fattuali sembrano deporre in effetti in questo senso – che i feti poi soppressi siano nati vivi, abbiano avuto possibilità di vita autonoma e siano stati intenzionalmente privati delle misure necessarie alla loro sopravvivenza, pur avendo gli accusati l’obbligo giuridico di impedire l’evento mortale in relazione alla posizione di garanzia rivestita.
Così accennata in termini generali la soluzione alla questio iuris qui proposta, occorre prendere in considerazione anche i due reati minori in ipotesi (autonomamente) invocabili a favore degli Assistiti e, cioè l’infanticidio o feticidio in condizioni di abbandono (art. 578 c.p.) ed il procurato aborto volontario (art. 19 legge 194/78).
In primo luogo occorre ricordare che la figura minore di omicidio doloso autonomamente prevista dall’art. 578 c.p. (così come novellato dall’art. 2 della legge 442/1981) si differenzia dall’omicidio comune ex art. 575 c.p., anzitutto, in relazione alla speciale qualifica soggettiva rivestita dall’agente, identificato soltanto nella «madre» che, in «condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto», cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto (infanticidio) o del feto durante il parto (feticidio).
A tale stregua, quindi, gli imputati potrebbero definirsi al più solo concorrenti nel reato proprio (in ipotesi da altri commesso) ma ad essi, quali estranei, sarebbe comunque applicabile la pena edittale dell’omicidio volontario (reclusione non inferiore ad anni ventuno) per espressa previsione di cui al primo capoverso, primo periodo, dell’art. 578 c.p.; per il resto, deve senz’altro escludersi – nella specie – la diminuente speciale del secondo periodo dello stesso comma, palese essendo che i prevenuti non hanno agito «al solo scopo di favorire la madre», bensì con l’unico movente dell’indebito profitto.
Ma, a prescindere da ciò, la configurabilità del reato di infanticidio in capo agli Assistiti è comunque esclusa dall’assenza dell’elemento specializzante costituito dalle condizioni di abbandono morale e materiale connesse al «parto». Tali condizioni – per giurisprudenza costante – devono esistere congiuntamente ed oggettivamente (non potendo cioè essere semplicemente supposte) e costituiscono proprio linea discretiva rispetto alla figura criminosa dell’omicidio volontario, che qui viene precipuamente in rilievo.
In seconda analisi, avuto riguardo alla fattispecie extracodicistica di procurato aborto volontario, occorre premettere che il diritto all’interruzione della gravidanza riconosciuto dalla legge 194/78 in capo alla donna – e conseguentemente, a praticarla da parte dei sanitari – trova precisi limiti temporali: in via ordinaria, entro novanta giorni; in via eccezionale, oltre novanta giorni purché vi sia però pericolo per la vita o per la salute psico-fisica della donna, restando esclusa, comunque, la pratica interruttiva allorché sussista la possibilità di vita autonoma del feto. Il termine convenzionale assunto al riguardo è riferito a ventiquattro settimane dall’inizio della gestazione, superato il quale, ai sensi dell’art. 7 della predetta legge, l’aborto può essere eseguito solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna, ma in tal caso il medico deve adottare ogni misura idonea a salvare la vita del feto. La violazione di questo obbligo è sanzionata penalmente dall’art. 19 della legge 194/78, che punisce con la reclusione sino a tre anni «chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza l’osservanza delle modalità» stabilite dalla legge stessa.
Orbene – tornando in medias res – le dichiarazioni delle donne alle quali erano stati praticati gli interventi clandestini e le esperite consulenze medico-legali hanno dimostrato che i feti erano nati vivi, erano assolutamente vitali al momento del parto e che la pretesa “sofferenza derivata dalla rottura silente della membrana” (patologia annotata nei referti), anche ad ammetterne la sussistenza, non avrebbe mai potuto causare la loro morte. Dal che se ne inferisce l’inconfigurabilità – nella specie – del reato di procurato aborto volontario, poiché le contestate condotte di soppressione dei prodotti del concepimento, tutti in avanzato stato di gestazione, sono state poste in essere dai prevenuti solo dopo il distacco, forzatamente indotto, dall’utero delle partorienti.
Non si attaglia al caso di specie, dunque, nemmeno la previsione criminosa di cui all’art. 19 della legge 194/78, il cui campo di applicazione è limitato alla fase antecedente al distacco del feto, dovendosi individuare in questo preciso limite cronologico il profilo discretivo tra questa fattispecie incriminatrice e quella di cui all’art. 578 c.p. (che fissa il minimum temporale proprio nella dizione «durante il parto»).
In questi termini si è espressa la stessa Cassazione, secondo la quale allorché la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento è posta in essere successivamente, anche se in stretta consecuzione cronologica, rispetto al distacco - naturale o indotto - del feto dall’utero materno, il fatto è estraneo all’art. 19 legge 194/78 ed, in assenza dell’elemento specializzante contemplato dall’art. 578 c.p. (le condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), integra il comune delitto di omicidio volontario, esulando dall’ipotesi dell’infanticidio (sentenza 46945 del 2004).
BREVI RIFLESSIONI SULLA TRACCIA
Come da prassi ormai consolidata, anche questa traccia è stata mutuata pedissequamente da una recente pronuncia della Cassazione che, tra l’altro, ha posto il sigillo definitivo ad un noto caso giudiziario (quello degli aborti clandestini di “Villa Gina”, ribattezzata giornalisticamente come “la clinica degli orrori”). Si tratta della sentenza 46945 del 2004, le cui due massime ufficiali (C.E.D. Cass., n. 229255 e n. 229256) sono facilmente reperibili nei codici commentati, purché aggiornati.
L’“insidiosità” della caso in esame sembra limitata all’esatta individuazione degli autonomi profili discretivi delle tre fattispecie incriminatrici qui in esame: l’omicidio volontario, l’infanticidio-feticidio e l’aborto, i cui ambiti di applicazione passano per precisi limiti cronologico-temporali, di cui il candidato doveva dimostrare – in sede di elaborato – di aver contezza.
Per i primi due delitti non sembravano porsi difficoltà di sorta, stante la generalizzata conoscenza del reato di omicidio volontario ma anche delle sue figure minori, quali principalmente l’infanticidio-feticidio in condizioni di abbandono morale e materiale ex art. 578 c.p.
Per entrambe le figure delittuose costituisce presupposto comune che l’oggetto materiale su cui ricadono le condotte omicidiarie sia un essere vivente, pur non richiedendosi che esso sia altresì vitale ovvero immune da anomalie anatomiche e patologie funzionali, potenzialmente idonee a causarne la morte in tempi brevi, perché costituisce omicidio anche solamente anticipare di una frazione minima di tempo l’evento letale.
Ad escludere, tuttavia, la sussumibilità del caso di specie sotto l’art. 578 c.p. era, oltre alla natura propria di tale reato, l’assenza del requisito specializzante delle condizioni di abbandono morale e materiale, in assenza del quale torna a trovare applicazione il reato omicidio doloso.
Più ostica poteva sembrare, invece, l’enucleazione degli elementi costitutivi e, conseguentemente distintivi, della fattispecie di procurato aborto volontario che, per il semplice fatto di essere “relegata” nella legislazione extracodicistica, non risulta particolarmente nota né frequentemente praticata nelle aule di giustizia.
Infine, per completezza, si nota che all’ipotesi-base omidiciaria si sarebbero potute aggiungere – in ragione delle eventuali, ulteriori evenienze del caso concreto – le aggravanti della premeditazione, quantomeno nella forma condizionata (art. 577, n. 3, c.p.) e della connessione teleologica (art. 576, n.