lavoroprevidenza

domenica 11 dicembre 2005

ESPLETAMENTO DELLE MANSIONI SUPERIORI NEL PUBBLICO IMPIEGO SIA AI FINI DI CARRIERA CHE ECONOMICI

Consiglio di Giustizia Amministrativa, decisione 31 maggio 2005, n. 352 con nota del dott. Giuseppe Buffone


Consiglio di Giustizia Amministrativa, decisione 31 maggio 2005, n. 352


Con la decisione 352/05 del C.G.A. , ritorna all’attenzione della Plenaria la controversa questione afferente alla rilevanza, nel pubblico impiego, dell’espletamento delle mansioni superiori sia a fini di carriera che economici.


Il primo passaggio logico del Collegio giudicante, per la verità, è risolutivo di una prima querelle di merito, attraverso la ricognizione delle norme interessate e, soprattutto, della giurisprudenza consolidatasi.


La prima matassa da sciogliere, infatti, nella fattispecie, concerne la rilevanza, ai fini economici, delle mansioni superiori espletate oltre il periodo utile ai sensi di legge, (cd. eccesso di servizio): secondo una prima tesi, per la verità datata, il periodo di espletamento della propria opera professionale svolto in eccedenza non meriterebbe il corrispettivo retributivo.


Il Collegio amministrativo sconfessa la teoria appena esposta, deducendo che, alla luce della giurisprudenza formatasi in ipotesi analoghe, deve ritenersi che il superamento del limite temporale previsto dalla legge non può incidere sfavorevolmente nella sfera giuridica dell’impiegato, ma se mai su quella di chi ha violato il divieto (Cons. St., IV, 18.10.2002, n. 2378). Si tratterebbe in sostanza di “norme di azione”, dalle quali non può farsi dipendere la perdita di un diritto altrui.


La querelle si innesta sulla più generale problematica dei rapporti contrattuali di fatto nel pubblico impiego, laddove, per la verità, il legislatore aveva optato, nell’art. 56 del d.lgs. n. 29/1993, (in deroga alla disciplina privatistica), per l’irrilevanza delle mansioni di fatto; come rileva il CGA, tuttavia, nel tempo la portata della norma de qua si è andata progressivamente stemperando.


Una prima breccia al riguardo è stata aperta dal d.lgs. n. 80/1998 (art. 25) che ha “reintrodotto in sostanza la rilevanza delle mansioni superiori sia agli effetti economici che di carriera, rinviandone però l’operatività all’entrata in vigore della nuova disciplina dettata dai contratti collettivi. Poco dopo, il d.lgs. n. 387/1998 (art. 15) - rimanipolando la precedente disciplina - ha fatto cadere il “rinvio” del predetto art. 25, limitatamente alle “differenze retributive”.


In dipendenza di ciò, la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2000, ha statuito che “a decorrere dall’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998” va riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle “differenze retributive” a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le funzioni relative alla qualifica immediatamente superiore.


E nell’ambito di tale premessa in diritto che il Collegio amministrativo si trova, tuttavia, di fronte ad una obiezione della P.A. resistente cui segue la rimessione alla Plenaria, nella rilevata sensibilità del punto nevralgico e dei suoi effetti pratici nel settore interessato.


L’impasse giuridico convoglia nella estensione della efficacia dell’art. 15 d.lgs. n. 387/1998, ovvero se esso esplichi effetti solo per il passato e non anche per il futuro.


Il silenzio della normativa ha dato la stura ad un contrasto giurisprudenziale in cui sono state prospettate soluzioni differenti, in un braccio di ferro tra giurisprudenza della Suprema Corte e quella amministrativa. Il punto di discrimine tra le due posizioni consiste nella circostanza per cui mentre il giudice amministrativo considera l’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998 come una comune disposizione legislativa (“frutto in sostanza di una libera scelta politica”) e come tale “avente efficacia per il futuro (Ad.plen. n. 11/2000)”, la Cassazione invece - ripercorrendo la vicenda della giurisprudenza costituzionale in materia - sembra “configurare la novella dell’art. 15 come una sorta di intervento “correttivo” per adeguare il sistema ai principi costituzionali e attenuare le più stridenti differenze con il regime del lavoro privato”.


Come evidenziato, la differenza di l’impatto socio – pratico dell’una o dell’altra soluzione prospettata non è irrilevante: infatti, “mentre per la giurisprudenza amministrativa l’art. 15 varrebbe solo per il futuro, rappresentando in sostanza una sorta di spartiacque tra un regime assolutamente preclusivo al riconoscimento delle mansioni superiori e uno moderatamente più aperto, (cfr. per i riferimenti giurisprudenziali più recenti: Cons. Stato, sez. IV, 07/06/2004, n.3606 in Foro Amm. CDS, 2004, 1648, Cons. Stato, sez. V, 19/02/2004, n.665 in Foro Amm. CDS, 2004, 458) ; viceversa per la Cassazione, la ratio “adeguatrice” ai principi costituzionali del predetto articolo giustificherebbe il carattere retroattivo del medesimo” (cfr. ex pluribus così la recente Cass. sez. lav. 8 gennaio 2004, n. 91 in Mass. Giur. It., 2004).


L’indirizzo di Cassazione, per la verità, ha riscontrato maggiori consensi, laddove ha consentito a che i principi costituzionali potessero proiettarsi con forza sulle posizioni soggettive la vocative senza discrimini temporali del tutto irragionevoli.


In particolare, in tal senso, la nota sentenza di legittimità 91/2004 ha reputato che: “nel pubblico impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal sesto comma dell art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993 come modificato dall art. 25 del D.Lgs. n. 80 del 1998, è stato soppresso dall art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998 con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma sesto, ultimo periodo, disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all intero periodo transitorio. La portata retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l applicabilità anche nel pubblico impiego dell articolo 36 della Costituzione, nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali”.


dott. Giuseppe Buffone










Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente


O R D I N A N Z A


sul ricorso in appello n. 951/01 proposto da


A.CO.S.ET. AZIENDA CONSORTILE SERVIZI ETNEI (ex C.A.E.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Faro, domiciliata per legge presso la segreteria di questo C.G.A.;


c o n t r o


CULTRARO CARMELO rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Buscemi ed elettivamente domiciliato in Palermo, via D. Trentacoste n. 89, presso lo studio dell’avv. Pietro Allotta;


per l’annullamento


della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - sezione staccata di Catania (sez. III) - n. 767/01 del 2 aprile 2001.


Visto il ricorso in appello e i relativi allegati;


Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’avv. S. Buscemi per l’appellato;


Viste le memorie prodotte dalle parti;


Vista l’ordinanza di accoglimento di questo C.G.A. n. 800/01 del 13 settembre 2001;


Visti gli atti tutti della causa;


Relatore alla pubblica udienza del 24 febbraio 2005, il Consigliere Filippo Salvia; uditi, altresì, l’avv. F. Faro per l’Azienda appellante e l’avv. P. Allotta, su delega dell’avv. S. Buscemi, per l’appel-lato;


Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


F A T T O


Il sig. Carmelo Cultraro, dipendente del C.A.E. (oggi A.CO.S.ET.) di Catania (8^ q. f.), in seguito alla vacanza del posto di “Dirigente capo servizio coordinatore” (1^ q. f.), veniva incaricato con o.s. 19.3.1988, n. 2006, ad assumere le anzidette funzioni apicali. Con successiva delibera n. 58/89 il Consorzio deliberava di corrispondere al Cultraro le dovute differenze retributive, ma limitatamente a un anno: il periodo massimo stabilito dall’art. 72 del D.P.R. 13.5.1987 per le funzioni vicarie. Le differenze retributive da corrispondere pertanto al sig. Cultraro avrebbero dovuto coprire il (solo) periodo 20.3.1988/ 19.3.1989. Ma “inavvertitamente” (così ammette testualmente il Consorzio) le anzidette maggiorazioni economiche vennero di fatto erogate “sino al maggio 1991”. Infine, con delibera n. 550 del 16.11.1991, il sig. Cultraro venne riconfermato nell’incarico, col relativo trattamento economico, sino all’espletamento del concorso per la copertura del posto vacante.


A questo punto nasce il contenzioso, alimentato per la verità dalla posizione negativa assunta dall’organo di controllo (il CORECO) in ordine alla reiterazione degli anzidetti incarichi. Sta di fatto che dopo il maggio del 1991 l’Amministrazione, non solo non corrisponderà più maggiorazioni retributive, ma pretenderà anche la restituzione delle somme “inavvertitamente” erogate per il periodo 19.3.1989 - maggio 1991. Contro la mancata corresponsione, da parte del Consorzio, delle anzidette differenze retributive e i relativi accessori il signor Cultraro ha proposto due distinti ricorsi (uno contro il silenzio-rifiuto; il secondo contro il provvedimento esplicito di diniego). Il giudice di primo grado - disposta la riunione dei ricorsi - ha accolto i ricorsi del sig. Cultraro, condannando l’Amministrazione a corrispondere allo stesso le somme dovute per differenze retributive, relativamente ai periodi di effettivo svolgimento delle mansioni superiori e relativi accessori. Gli argomenti addotti dal TAR, a sostegno della pronuncia, si possono così riassumere: a) è pacifico inter partes l’espletamento di mansioni superiori; b) la prestazione è esecutiva di disposizioni emanate dall’amministrazione e, comunque, è stata riconosciuta utile dalla stessa; c) è rinvenibile nell’art. 56 del regolamento organico del personale dipendente la norma che consente l’attribuzione di mansioni superiori, in presenza di situazioni di necessità; d) sussiste infine il requisito della vacanza e disponibilità del posto in organico.


La sentenza è stata impugnata innanzi a questo Consiglio dalla A.CO.S.ET..


L’appellante, ribadendo sostanzialmente gli argomenti addotti in primo grado, chiede, previa sospensione, l’annullamento della sentenza, in quanto, a suo avviso, viziata sotto due fondamentali profili: A) per aver dato valore allo svolgimento delle mansioni superiori, in contrasto con la giurisprudenza consolidata che ritiene la irrilevanza (nel pubblico impiego) di dette mansioni (1° motivo app.); B) per aver violato l’art. 72 del DPR n. 268/1987, che impone il limite massimo di un anno per il conferimento di mansioni superiori (2° motivo app.). Questo Consiglio con ordinanza cautelare n. 800/01 del 13.9.2001 ha accolto la domanda di sospensione della sentenza.


D I R I T TO


1. Passando adesso al merito, appare opportuno posporre la trattazione del primo motivo di ricorso, iniziando dal secondo: e cioè dalla lamentata “Violazione dell’art. 72 DPR. n. 268/1987”. Ricorda, al riguardo, l’appellante che - pur consentendo il predetto articolo 72 (in caso di vacanza del posto di vertice della struttura), l’affidamento delle relative funzioni a un dipendente di qualifica immediatamente inferiore - esso tuttavia circoscrive tale possibilità al periodo massimo di “un anno”. Ora, poiché, nella specie, tale limite è stato ampiamente superato, nessun diritto il Cultraro potrebbe vantare per le mansioni svolte oltre l’anno prescritto.


Tale censura non sembra però fondata, alla luce della giurisprudenza formatasi in ipotesi analoghe. In tema ad es. di personale sanitario, la giurisprudenza ha chiarito che il superamento del limite temporale previsto dall’art. 29 del DPR n. 761/1979 non può incidere sfavorevolmente nella sfera giuridica dell’impiegato, ma se mai su quella di chi ha violato il divieto (Cons. St., IV, 18.10.2002, n. 2378). Si tratterebbe in sostanza di “norme di azione”, dalle quali non può farsi dipendere la perdita di un diritto altrui. Il giudice di primo grado, non sembra pertanto essersi discostato dagli anzidetti principi giurisprudenziali, oggi largamente condivisi.


2 Maggiore attenzione merita il primo motivo di ricorso, articolato nel seguente modo. In primo luogo l’appellante - richiamando alcune massime giurisprudenziali - sostiene che nel pubblico impiego l’espletamento delle mansioni superiori è irrilevante sia a fini di carriera che economici. Da ciò deriverebbe l’ infondatezza della pretesa del Cultraro e la richiesta di annullamento della sentenza di primo grado. L’argomento di per sé non è decisivo, perché se è vero che il legislatore - nel momento in cui dispose la privatizzazione del pubblico impiego - aveva enunciato nell’art. 56 del d.lgs. n. 29/1993 quel principio (in deroga alla disciplina privatistica), è anche vero che nel tempo la portata del medesimo - sotto la spinta soprattutto della giurisprudenza costituzionale - si è andata progressivamente stemperando. La prima breccia al riguardo è stata aperta dal d.lgs. n. 80/1998 (art. 25) che ha reintrodotto in sostanza la rilevanza delle mansioni superiori sia agli effetti economici che di carriera, rinviandone però l’operatività all’entrata in vigore della nuova disciplina dettata dai contratti collettivi. Poco dopo, il d.lgs. n. 387/1998 (art. 15) - rimanipolando la precedente disciplina - ha fatto cadere il “rinvio” del predetto art. 25, limitatamente alle “differenze retributive”. In dipendenza di ciò, la già richiamata sentenza di codesta Adunanza Plenaria n. 11 del 2000 statuisce appunto che “a decorrere dall’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998” va riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle “differenze retributive” a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le funzioni relative alla qualifica immediatamente superiore. Alla luce delle predette considerazioni, appare evidente che l’affer-mazione principale dell’appellante secondo cui nel pubblico impiego l’espletamento delle mansioni superiori è irrilevante, pecca quanto meno di eccesso.


Ma, sostiene sempre l’appellante, che, anche a voler riconoscere in linea di principio la rilevanza agli effetti retributivi delle mansioni superiori, nel caso specifico esse non potrebbero essere egualmente riconosciute, poiché il predetto art. 15 d.lgs. n. 387/1987 (che dovrebbe costituire la base della pretesa del Cultraro), non esplicherebbe effetti per il passato, ma solo per il futuro. Quest’ultimo rilievo merita di essere attentamente vagliato, poiché proprio su questo punto (il valore da attribuire a quest’ultimo articolo), si è creato negli ultimi anni una difformità di orientamento tra la giurisprudenza amministrativa e quella della Corte di Cassazione. Il punto di discrimine tra le due posizioni sembra consistere in ciò: che mentre il giudice amministrativo considera l’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998 come una comune disposizione legislativa (frutto in sostanza di una libera scelta politica) e come tale avente efficacia per il futuro (Ad.plen. n. 11/2000); la Cassazione invece - ripercorrendo la vicenda della giurisprudenza costituzionale in materia - sembra configurare la novella dell’art. 15 come una sorta di intervento “correttivo” per adeguare il sistema ai principi costituzionali e attenuare le più stridenti differenze con il regime del lavoro privato. Le conseguenze sul piano pratico sono notevoli. Ed infatti, mentre per la giurisprudenza amministrativa l’art. 15 varrebbe solo per il futuro (rappresentando in sostanza una sorta di spartiacque tra un regime assolutamente preclusivo al riconoscimento delle mansioni superiori e uno moderatamente più aperto); viceversa per la Cassazione, la ratio “adeguatrice” ai principi costituzionali del predetto articolo giustificherebbe il carattere retroattivo del medesimo (Cass. sez. lav. 8 gennaio 2004, n. 91).


A giudizio di questo Collegio, una volta parificato (sia pure con qualche deroga e con non poche forzature alla “natura delle cose”), il lavoro pubblico a quello privato, sembra difficile spiegare le ragioni di un diverso trattamento - basato unicamente sul fattore “tempo” - da applicare ad una medesima categoria di impiegati pubblici.


P. Q. M.


Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sull’appello indicato in epigrafe, ne rimette l’esame all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.


Così deciso in Palermo, il 24 febbraio 2005 dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, in camera di consiglio, con l intervento dei signori: Giuseppe Barbagallo, Presidente, Pier Giorgio Trovato, Giorgio Giaccardi, Antonino Corsaro, Filippo Salvia, estensore, Componenti.


F.to: Giuseppe Barbagallo, Presidente


F.to: Filippo Salvia, Estensore


F.to: Tistera Maria Assunta, Segretario


Depositata in segreteria


il 31 maggio 2005





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