LE QUIETANZE RILASCIATE DAL LAVORATORE SOTTO MINACCIA NON HANNO EFFICACIA PROBATORIA –
Esse non precludono l’accoglimento della domanda di differenze di retribuzione (Cassazione Sezione Lavoro n. 20765 del 26 ottobre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Vigolo).
Antonella M., dopo aver lavorato come commessa di un negozio di abbigliamento, alle dipendenze della società in accomandita semplice D. T. per circa tre anni, ha chiesto al Pretore di Campobasso di accertare che il datore di lavoro l’aveva costretta a firmare per ricevuta buste paga con l’indicazione di somme superiori a quelle effettivamente corrisposte, sotto minaccia di declassamento a qualifica inferiore; ella ha fatto inoltre presente che la retribuzione da lei riscossa era inferiore ai minimi previsti dal c.c.l. e comunque doveva ritenersi inadeguata a termini dell’art. 36 Cost. Rep.; conseguentemente ha chiesto la condanna dell’azienda al pagamento delle differenze di retribuzione dovutele. La ditta convenuta si è costituita in giudizio sostenendo che la lavoratrice aveva percepito la retribuzione risultante dalla buste paga e chiedendo il rigetto delle domande.
Il Giudice ha acquisito gli atti di un processo penale promosso a carico dei tre soci della D. T. per violenza privata, per aver costretto vari dipendenti, tra i quali Antonella M., a sottoscrivere per ricevuta buste paga con importi superiori a quelli corrisposti, processo definito mediante applicazione della pena su richiesta. Il Giudice ha anche sentito alcuni testimoni che hanno riferito di contestazioni della lavoratrice sulle risultanze delle buste paga e di analoghe lamentele di altri dipendenti. La causa si è conclusa in primo grado con la condanna dell’azienda al pagamento, in favore della lavoratrice di circa 21.000 euro per differenze di retribuzione. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Campobasso che ha ritenuto invalide le quietanze rilasciate dalla lavoratrice sotto minaccia ed ha escluso pertanto che l’azienda abbia provato di avere corrisposto le somme dovute alla ricorrente.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20765 del 26 ottobre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Vigolo) ha rigettato il ricorso dell’azienda, in quanto ha ritenuto che la Corte di Appello abbia correttamente motivato la sua decisione facendo riferimento sia alla definizione del processo penale a carico dei titolari dell’azienda mediante patteggiamento, sia agli elementi emersi dalla prova testimoniale.