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Si tratta di prestazioni che hanno natura tipicamente assistenziale: - la pensione di invalidità civile è riconosciuta agli invalidi civili totali o parziali, nonché ai ciechi e ai sordomuti, che non hanno redditi personali, ovvero i cui redditi siano insufficienti; - l assegno sociale (istituito dalla legge 335/95, in luogo della pensione sociale), viene erogato in presenza di determinati requisiti di natura reddituale per le persone che, compiuti i 65 anni di età, in base alla contribuzione versata non hanno diritto a percepire la pensione; detto assegno per il 2003 è pari a 358,99 Euro. La materia delle prestazioni di assistenza sociale —da tenere ben distinte dalle prestazioni di previdenza sociale, basate sul rapporto di contribuzione-- è stata purtroppo “rimaneggiata” dalla Legge finanziaria 2001 (L. 23 dicembre 2000, n. 388) che all’art. 80, comma 19, ha stabilito che " Ai sensi dell art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia dei servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno". E stata in questo modo abrogata parte dell’art. 41 del T.U. (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), laddove si prevedeva espressamente il diritto di tutti i lavoratori regolarmente soggiornanti (senza distinzione tra chi possiede la carta di soggiorno e il normale pds), di essere equiparati ai cittadini italiani per le prestazioni di tipo previdenziale e assistenziale. Ora, con la modifica di cui sopra, si stabilisce che l’equiparazione ai cittadini italiani possa valere soltanto per chi è in possesso della carta di soggiorno, mentre i possessori di un normale pds per lavoro, indipendentemente dalla “anzianità” di soggiorno in Italia, non avranno più la possibilità di ottenere la pensione di invalidità civile o l assegno sociale. Abbiamo denunciato in più occasioni la palese discriminazione operata con l’introduzione di questa norma, tra l’altro passata sotto silenzio, senza che il Ministro Turco (del precedente Governo) se ne accorgesse e senza che fosse constatata la palese contraddizione tra il principio enunciato all’art. 41 T.U. e l art. 80, comma 19, della Legge finanziaria 2001. Purtroppo, le disposizioni impartite dall’INPS, relative alle modalità di attuazione di questa norma, non hanno lasciato possibilità alcuna di mantenere in atto i trattamenti economici di tipo assistenziale già esistenti, ed è stato disposto con singolare tempestività che, con decorrenza dal 1 gennaio 2001, tutti i trattamenti di questo tipo venissero revocati. Così è stato e molte persone che avevano già ottenuto il riconoscimento di questi trattamenti economici anteriormente all’entrata in vigore della norma restrittiva, se li sono visti revocare. Si potrebbe dire che in questo modo è scattato il meccanismo del “cane che si morde la coda”, ovvero una persona che non può più lavorare (sia per limiti di età, sia per invalidità fisica) non può conseguire nemmeno un reddito tale che le consenta di soddisfare i requisiti richiesti dalla legge per ottenere la carta di soggiorno (ovvero, come previsto dall art. 9, comma 1 del T.U., un reddito adeguato al sostentamento proprio e di eventuali famigliari, comunque non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale) e senza la carta di soggiorno non è possibile ottenere nè l assegno sociale, nè la pensione di invalidità civile. E chiaro che queste persone sono destinate ad essere relegate ai margini della società, perché la conseguenza sarà quella di non vedersi più rinnovare il normale pds che era stato loro conferito. Questa è in sostanza la situazione che si può prospettare per tali soggetti, a meno che non vi sia una convivenza con familiari che possano assicurarne il sostentamento perché in tal caso, potrebbero esservi le condizioni per il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari (disciplinato dall art. 30, T.U. sull Immigrazione). Ma in base a queste disposizioni i cosiddetti single, cioè coloro che non sono nella condizione di vivere a carico di qualcun altro, rischiano seriamente di non vedersi rinnovato il pds, rientrando, quindi, nella difficile situazione che abbiamo appena delineato. Ecco allora che chi dovrebbe essere tutelato, come succede normalmente ai cittadini di questo paese, si trova ad essere considerato un soggetto scomodo nel territorio italiano e sottoposto al rischio di un provvedimento di espulsione. La problematica come appena delineata è stata evidenziata da più parti al fine di trovare possibili soluzioni interpretative, che consentissero di sostenere la sopravvivenza del diritto per i cittadini extracomunitari di ottenere tutte le prestazioni previdenziali ed assistenziali, negato da una norma palesemente discriminatrice (art. 80, comma 19 - Legge finanziaria 2001). Questo problema non si dovrebbe porre per i cittadini comunitari cui si applica pienamente il principio di non discriminazione in base al quale continuano ad essere equiparati ai cittadini italiani non solo per le prestazioni di previdenza sociale, ma anche per le prestazioni di assistenza sociale (si vedano i Regolamenti CE nn. 1408/71 e 574/72). È giusto ricordare la distinzione che viene fatta tra queste due categorie di prestazioni. Prestazioni di previdenza sociale: si basano su una preesistente contribuzione dovuta ad un preesistente rapporto di lavoro. Vengono erogate dall’INPS perché nella carriera lavorativa sono stati versati contributi in misura sufficiente a garantire un certo tipo di prestazione (es. la pensione ordinaria, la pensione di invalidità). Prestazioni di assistenza sociale: vengono erogate dallo Stato o da Istituti di previdenza e prescindono dalla preesistenza di un rapporto contributivo, basandosi solo sulla mancanza di altre risorse e sullo stato di bisogno. Anche se non è stato versato nessun contributo, per le persone che, compiuti i 65 anni di età, in base alla contribuzione versata non hanno diritto a percepire la pensione, oppure per le persone che a prescindere dall’età sono invalide e non hanno mezzi di sussistenza, la legge prevede il riconoscimento, rispettivamente dell’assegno sociale o della pensione di invalidità civile. Ma ora, come abbiamo detto, per ottenere queste prestazioni, viene richiesta quale requisito essenziale, la carta di soggiorno. Al riguardo non si conosceva alcun orientamento interpretativo e il solo che abbiamo evidenziato risale a tempo fa. Si tratta di un parere fornito dal Consiglio di Stato del 28/02/01 con cui si ribadisce la legittimità della scelta di ridurre il campo di applicazione delle prestazioni di assistenza sociale nei confronti degli stranieri che hanno il solo pds. Il Consiglio stesso precisava però che a fronte della evidente buona fede dei soggetti che hanno percepito, fino a un dato momento, le prestazioni economiche e della non chiara decifrabilità della normativa di riferimento, spetta comunque all’amministrazione valutare (con equità) se sia il caso di chiedere la restituzione degli importi già percepiti a decorrere dal 1 gennaio 2001 o se sia invece impossibile e non lecito richiederlo. Il Consiglio di Stato, quindi, non ha potuto fare a meno di richiamare un proprio orientamento interpretativo secondo cui le somme percepite dalla pubblica amm.ne e già destinate a soddisfare i normali bisogni di sostentamento, non possono più essere chieste in restituzione. Si dovrebbe, pertanto, ritenere che l’eventuale richiesta di restituzione di somme pagate dall’INPS ( a titolo di pensione sociale o di invalidità civile) dopo il 1 gennaio 2001, non possa più essere effettuata. L’INPS ha, pertanto, soppresso il pagamento delle pensioni suddette (in base alla legge finanziaria 2001), ma non può pretendere in restituzione gli importi già erogati e, qualora lo facesse, è possibile opporsi richiamandosi proprio all’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato sopra evidenziato. Ma c’è una questione che rimane aperta ovvero se in futuro chi è in possesso di un normale p.d.s. potrà richiedere le suddette prestazioni. Con la Circolare 13 maggio 2003 dell’I.N.C.A., Istituto di patronato della Cgil, si dà notizia di una causa pilota avviata a Milano che riguarda situazioni come quelle appena prospettate. Per l’appunto, gli avvocati milanesi Vittorio Angiolini, Leonardo Bardi e Ettore Martinelli hanno proposto un ricorso d’urgenza al Giudice del Lavoro, richiamandosi ad alcune norme di diritto internazionale che devono trovare necessaria applicazione e rispetto nell’ordinamento italiano. Premetto che l’art. 10, comma 2, della Costituzione prevede che "la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali" sottoscritti dalla Repubblica italiana in questa materia. Questa norma non solo stabilisce una cosiddetta riserva di legge per cui solo la legge formale emanata dal Parlamento può intervenire validamente in quest ambito, ma stabilisce anche che la legislazione italiana deve conformarsi agli accordi internazionali sottoscritti. Ed è riferendosi proprio a questo obbligo espressamente previsto dalla norma, che si sostiene la illegittimità della normativa italiana nella parte in cui limita la possibilità di ottenere il riconoscimento delle prestazioni economiche di natura assistenziale ai soli possessori della carta di soggiorno. Il collega milanese, quindi, ha posto alla magistratura l’esigenza di garantire il rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L) n. 97/1949 e 143/1975, sui diritti dei lavoratori migranti, entrambe ratificate con legge dello Stato italiano (rispettivamente con L. n. 367 del 23.03.58 e L. n. 158 del 10.04.81). Le Convenzioni definiscono lo status legale dei lavoratori migranti, cioè un livello minimo di diritti che devono essere riconosciuti agli stessi da parte degli Stati che vi hanno aderito. I diritti cui si fa riferimento sono vincolanti, qualunque sia la nazionalità degli immigrati, e tra questi è importante ricordare il principio di non discriminazione in base alla nazionalità espressamente sancito dall art.6 della Convenzione n.97, per le prestazioni di sicurezza sociale, comprese quelle cosiddette non contributive, che vengono cioè erogate dagli Stati indipendentemente dal versamento di contributi assicurativi. L’art 10 della Convenzione n. 143, prevede il diritto alla parità di trattamento e opportunità tra i lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti e i lavoratori nazionali, senza operare alcuna distinzione tra chi possiede la carta di soggiorno o il permesso di soggiorno. Sempre la Convenzione O.I.L. n. 97, all’art. 6 prevede una certa adattabilità all’ordinamento interno rispetto al principio di non discriminazione soprattutto per quanto riguarda l’ambito delle prestazioni cosiddette non contributive, ma ciò non può, comunque, determinare l’esclusione pura e semplice dei lavoratori migranti dalla fruizione di questi diritti. L’art. 8 della Convenzione n. 97, prevede infatti una tutela specifica rispetto al rischio di espulsione, per i lavoratori che siano malati o vittime di infortunio, sopravvenuti in seguito al loro arrivo regolare nel territorio dello Stato, ed effettua al secondo comma una precisazione importante ai nostri fini. Si prevede che "Un lavoratore emigrante che sia stato ammesso a titolo permanente e i membri della sua famiglia che siano stati autorizzati ad accompagnarlo o a raggiungerlo, non potranno essere rinviati nel loro territorio di origine o nel territorio da cui essi sono emigrati, quando a causa di malattia o di infortunio il lavoratore emigrante si trovi nell impossibilità di esercitare il proprio mestiere, a condizione che la malattia o l infortunio siano sopravvenuti dopo il suo arrivo, a meno che la persona interessata lo desideri o che lo stabiliscano degli accordi internazionali che vincolano lo stato membro interessato". Al secondo comma si precisa che "Quando i lavoratori emigranti siano, sin dal loro arrivo nel paese di immigrazione, ammessi a titolo permanente, l autorità competente di questo paese può decidere che le disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo non abbiano effetto che dopo un periodo ragionevole che non sarà, in alcun caso, superiore a cinque anni, a partire dalla data di ammissione di tali migranti". La stessa Convenzione prevede quindi che eventuali limitazioni al principio di non discriminazione e di parità di trattamento possono essere stabilite legittimamente dalle legislazioni interne degli Stati, ma non oltre il limite dei cinque anni di residenza nel territorio. La Convenzione n. 97 del 1949, non considerava la differenza tra il permesso di soggiorno e la carta di soggiorno, ma è ovvio che ponendo questa limitazione ad una arco di tempo massimo di cinque anni, non vi è alcun interesse a stabilire se lo straniero sia titolare di una carta di soggiorno o di un normale pds, dovendosi verificare esclusivamente l anzianità del soggiorno. Quindi, per tutelare la posizione degli ex lavoratori (persone che per 5 anni hanno soggiornato regolarmente in Italia) che si trovino, a causa di malattia, infortunio o limiti di età, nella impossibilità di lavorare, è opportuno sottoporre alla valutazione del giudice la compatibilità tra la norma interna rispetto ai principi richiamati dal diritto internazionale. Ed è quello che si è verificato con il ricorso presentato avanti il Giudice del lavoro di Milano e di cui si è accennato sopra, con cui è stata richiesta l emanazione di provvedimenti urgenti che sono stati puntualmente adottati dal Tribunale con un ordinanza di tipo cautelare, ovverosia a carattere urgente, che ha disposto nei confronti dell’INPS l’obbligo di ripristinare immediatamente il trattamento economico previsto per gli invalidi civili, con decorrenza retroattiva. L’argomento forte proposto da questo ricorso è la compatibilità tra le norme internazionali (cui l’Italia ha dato adesione) e la normativa interna. L’eventuale incompatibilità della normativa interna conseguente alla violazione di principi stabiliti dal diritto internazionale costituirebbe infatti violazione dell art. 10 della Costituzione sopra menzionato e dell art. 38, che garantisce tra gli altri, il diritto dei lavoratori a che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia e invalidità. Ci si può, quindi, immaginare che il Giudice di Milano solleverà la questione di legittimità costituzionale della norma stessa e, quindi, trasmetterà gli atti alla Corte Costituzionale affinchè stabilisca la compatibilità della normativa sopra menzionata con i principi fondamentali stabiliti in Accordi internazionali cui l’Italia ha aderito. Naturalmente sarà nostra cura fornire ulteriori informazioni relativamente agli sviluppi della causa suddetta. Chi fosse interessato ad utilizzare le argomentazioni appena delineate per proporre in altre sedi la medesima questione, può contattarci attraverso il sito internet. |
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Si tratta di prestazioni che hanno natura tipicamente assistenziale: - la pensione di invalidità civile è riconosciuta agli invalidi civili totali o parziali, nonché ai ciechi e ai sordomuti, che non hanno redditi personali, ovvero i cui redditi siano insufficienti; - l assegno sociale (istituito dalla legge 335/95, in luogo della pensione sociale), viene erogato in presenza di determinati requisiti di natura reddituale per le persone che, compiuti i 65 anni di età, in base alla contribuzione versata non hanno diritto a percepire la pensione; detto assegno per il 2003 è pari a 358,99 Euro. La materia delle prestazioni di assistenza sociale —da tenere ben distinte dalle prestazioni di previdenza sociale, basate sul rapporto di contribuzione-- è stata purtroppo “rimaneggiata” dalla Legge finanziaria 2001 (L. 23 dicembre 2000, n. 388) che all’art. 80, comma 19, ha stabilito che " Ai sensi dell art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia dei servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno". E stata in questo modo abrogata parte dell’art. 41 del T.U. (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), laddove si prevedeva espressamente il diritto di tutti i lavoratori regolarmente soggiornanti (senza distinzione tra chi possiede la carta di soggiorno e il normale pds), di essere equiparati ai cittadini italiani per le prestazioni di tipo previdenziale e assistenziale. Ora, con la modifica di cui sopra, si stabilisce che l’equiparazione ai cittadini italiani possa valere soltanto per chi è in possesso della carta di soggiorno, mentre i possessori di un normale pds per lavoro, indipendentemente dalla “anzianità” di soggiorno in Italia, non avranno più la possibilità di ottenere la pensione di invalidità civile o l assegno sociale. Abbiamo denunciato in più occasioni la palese discriminazione operata con l’introduzione di questa norma, tra l’altro passata sotto silenzio, senza che il Ministro Turco (del precedente Governo) se ne accorgesse e senza che fosse constatata la palese contraddizione tra il principio enunciato all’art. 41 T.U. e l art. 80, comma 19, della Legge finanziaria 2001. Purtroppo, le disposizioni impartite dall’INPS, relative alle modalità di attuazione di questa norma, non hanno lasciato possibilità alcuna di mantenere in atto i trattamenti economici di tipo assistenziale già esistenti, ed è stato disposto con singolare tempestività che, con decorrenza dal 1 gennaio 2001, tutti i trattamenti di questo tipo venissero revocati. Così è stato e molte persone che avevano già ottenuto il riconoscimento di questi trattamenti economici anteriormente all’entrata in vigore della norma restrittiva, se li sono visti revocare. Si potrebbe dire che in questo modo è scattato il meccanismo del “cane che si morde la coda”, ovvero una persona che non può più lavorare (sia per limiti di età, sia per invalidità fisica) non può conseguire nemmeno un reddito tale che le consenta di soddisfare i requisiti richiesti dalla legge per ottenere la carta di soggiorno (ovvero, come previsto dall art. 9, comma 1 del T.U., un reddito adeguato al sostentamento proprio e di eventuali famigliari, comunque non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale) e senza la carta di soggiorno non è possibile ottenere nè l assegno sociale, nè la pensione di invalidità civile. E chiaro che queste persone sono destinate ad essere relegate ai margini della società, perché la conseguenza sarà quella di non vedersi più rinnovare il normale pds che era stato loro conferito. Questa è in sostanza la situazione che si può prospettare per tali soggetti, a meno che non vi sia una convivenza con familiari che possano assicurarne il sostentamento perché in tal caso, potrebbero esservi le condizioni per il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari (disciplinato dall art. 30, T.U. sull Immigrazione). Ma in base a queste disposizioni i cosiddetti single, cioè coloro che non sono nella condizione di vivere a carico di qualcun altro, rischiano seriamente di non vedersi rinnovato il pds, rientrando, quindi, nella difficile situazione che abbiamo appena delineato. Ecco allora che chi dovrebbe essere tutelato, come succede normalmente ai cittadini di questo paese, si trova ad essere considerato un soggetto scomodo nel territorio italiano e sottoposto al rischio di un provvedimento di espulsione. La problematica come appena delineata è stata evidenziata da più parti al fine di trovare possibili soluzioni interpretative, che consentissero di sostenere la sopravvivenza del diritto per i cittadini extracomunitari di ottenere tutte le prestazioni previdenziali ed assistenziali, negato da una norma palesemente discriminatrice (art. 80, comma 19 - Legge finanziaria 2001). Questo problema non si dovrebbe porre per i cittadini comunitari cui si applica pienamente il principio di non discriminazione in base al quale continuano ad essere equiparati ai cittadini italiani non solo per le prestazioni di previdenza sociale, ma anche per le prestazioni di assistenza sociale (si vedano i Regolamenti CE nn. 1408/71 e 574/72). È giusto ricordare la distinzione che viene fatta tra queste due categorie di prestazioni. Prestazioni di previdenza sociale: si basano su una preesistente contribuzione dovuta ad un preesistente rapporto di lavoro. Vengono erogate dall’INPS perché nella carriera lavorativa sono stati versati contributi in misura sufficiente a garantire un certo tipo di prestazione (es. la pensione ordinaria, la pensione di invalidità). Prestazioni di assistenza sociale: vengono erogate dallo Stato o da Istituti di previdenza e prescindono dalla preesistenza di un rapporto contributivo, basandosi solo sulla mancanza di altre risorse e sullo stato di bisogno. Anche se non è stato versato nessun contributo, per le persone che, compiuti i 65 anni di età, in base alla contribuzione versata non hanno diritto a percepire la pensione, oppure per le persone che a prescindere dall’età sono invalide e non hanno mezzi di sussistenza, la legge prevede il riconoscimento, rispettivamente dell’assegno sociale o della pensione di invalidità civile. Ma ora, come abbiamo detto, per ottenere queste prestazioni, viene richiesta quale requisito essenziale, la carta di soggiorno. Al riguardo non si conosceva alcun orientamento interpretativo e il solo che abbiamo evidenziato risale a tempo fa. Si tratta di un parere fornito dal Consiglio di Stato del 28/02/01 con cui si ribadisce la legittimità della scelta di ridurre il campo di applicazione delle prestazioni di assistenza sociale nei confronti degli stranieri che hanno il solo pds. Il Consiglio stesso precisava però che a fronte della evidente buona fede dei soggetti che hanno percepito, fino a un dato momento, le prestazioni economiche e della non chiara decifrabilità della normativa di riferimento, spetta comunque all’amministrazione valutare (con equità) se sia il caso di chiedere la restituzione degli importi già percepiti a decorrere dal 1 gennaio 2001 o se sia invece impossibile e non lecito richiederlo. Il Consiglio di Stato, quindi, non ha potuto fare a meno di richiamare un proprio orientamento interpretativo secondo cui le somme percepite dalla pubblica amm.ne e già destinate a soddisfare i normali bisogni di sostentamento, non possono più essere chieste in restituzione. Si dovrebbe, pertanto, ritenere che l’eventuale richiesta di restituzione di somme pagate dall’INPS ( a titolo di pensione sociale o di invalidità civile) dopo il 1 gennaio 2001, non possa più essere effettuata. L’INPS ha, pertanto, soppresso il pagamento delle pensioni suddette (in base alla legge finanziaria 2001), ma non può pretendere in restituzione gli importi già erogati e, qualora lo facesse, è possibile opporsi richiamandosi proprio all’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato sopra evidenziato. Ma c’è una questione che rimane aperta ovvero se in futuro chi è in possesso di un normale p.d.s. potrà richiedere le suddette prestazioni. Con la Circolare 13 maggio 2003 dell’I.N.C.A., Istituto di patronato della Cgil, si dà notizia di una causa pilota avviata a Milano che riguarda situazioni come quelle appena prospettate. Per l’appunto, gli avvocati milanesi Vittorio Angiolini, Leonardo Bardi e Ettore Martinelli hanno proposto un ricorso d’urgenza al Giudice del Lavoro, richiamandosi ad alcune norme di diritto internazionale che devono trovare necessaria applicazione e rispetto nell’ordinamento italiano. Premetto che l’art. 10, comma 2, della Costituzione prevede che "la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali" sottoscritti dalla Repubblica italiana in questa materia. Questa norma non solo stabilisce una cosiddetta riserva di legge per cui solo la legge formale emanata dal Parlamento può intervenire validamente in quest ambito, ma stabilisce anche che la legislazione italiana deve conformarsi agli accordi internazionali sottoscritti. Ed è riferendosi proprio a questo obbligo espressamente previsto dalla norma, che si sostiene la illegittimità della normativa italiana nella parte in cui limita la possibilità di ottenere il riconoscimento delle prestazioni economiche di natura assistenziale ai soli possessori della carta di soggiorno. Il collega milanese, quindi, ha posto alla magistratura l’esigenza di garantire il rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L) n. 97/1949 e 143/1975, sui diritti dei lavoratori migranti, entrambe ratificate con legge dello Stato italiano (rispettivamente con L. n. 367 del 23.03.58 e L. n. 158 del 10.04.81). Le Convenzioni definiscono lo status legale dei lavoratori migranti, cioè un livello minimo di diritti che devono essere riconosciuti agli stessi da parte degli Stati che vi hanno aderito. I diritti cui si fa riferimento sono vincolanti, qualunque sia la nazionalità degli immigrati, e tra questi è importante ricordare il principio di non discriminazione in base alla nazionalità espressamente sancito dall art.6 della Convenzione n.97, per le prestazioni di sicurezza sociale, comprese quelle cosiddette non contributive, che vengono cioè erogate dagli Stati indipendentemente dal versamento di contributi assicurativi. L’art 10 della Convenzione n. 143, prevede il diritto alla parità di trattamento e opportunità tra i lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti e i lavoratori nazionali, senza operare alcuna distinzione tra chi possiede la carta di soggiorno o il permesso di soggiorno. Sempre la Convenzione O.I.L. n. 97, all’art. 6 prevede una certa adattabilità all’ordinamento interno rispetto al principio di non discriminazione soprattutto per quanto riguarda l’ambito delle prestazioni cosiddette non contributive, ma ciò non può, comunque, determinare l’esclusione pura e semplice dei lavoratori migranti dalla fruizione di questi diritti. L’art. 8 della Convenzione n. 97, prevede infatti una tutela specifica rispetto al rischio di espulsione, per i lavoratori che siano malati o vittime di infortunio, sopravvenuti in seguito al loro arrivo regolare nel territorio dello Stato, ed effettua al secondo comma una precisazione importante ai nostri fini. Si prevede che "Un lavoratore emigrante che sia stato ammesso a titolo permanente e i membri della sua famiglia che siano stati autorizzati ad accompagnarlo o a raggiungerlo, non potranno essere rinviati nel loro territorio di origine o nel territorio da cui essi sono emigrati, quando a causa di malattia o di infortunio il lavoratore emigrante si trovi nell impossibilità di esercitare il proprio mestiere, a condizione che la malattia o l infortunio siano sopravvenuti dopo il suo arrivo, a meno che la persona interessata lo desideri o che lo stabiliscano degli accordi internazionali che vincolano lo stato membro interessato". Al secondo comma si precisa che "Quando i lavoratori emigranti siano, sin dal loro arrivo nel paese di immigrazione, ammessi a titolo permanente, l autorità competente di questo paese può decidere che le disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo non abbiano effetto che dopo un periodo ragionevole che non sarà, in alcun caso, superiore a cinque anni, a partire dalla data di ammissione di tali migranti". La stessa Convenzione prevede quindi che eventuali limitazioni al principio di non discriminazione e di parità di trattamento possono essere stabilite legittimamente dalle legislazioni interne degli Stati, ma non oltre il limite dei cinque anni di residenza nel territorio. La Convenzione n. 97 del 1949, non considerava la differenza tra il permesso di soggiorno e la carta di soggiorno, ma è ovvio che ponendo questa limitazione ad una arco di tempo massimo di cinque anni, non vi è alcun interesse a stabilire se lo straniero sia titolare di una carta di soggiorno o di un normale pds, dovendosi verificare esclusivamente l anzianità del soggiorno. Quindi, per tutelare la posizione degli ex lavoratori (persone che per 5 anni hanno soggiornato regolarmente in Italia) che si trovino, a causa di malattia, infortunio o limiti di età, nella impossibilità di lavorare, è opportuno sottoporre alla valutazione del giudice la compatibilità tra la norma interna rispetto ai principi richiamati dal diritto internazionale. Ed è quello che si è verificato con il ricorso presentato avanti il Giudice del lavoro di Milano e di cui si è accennato sopra, con cui è stata richiesta l emanazione di provvedimenti urgenti che sono stati puntualmente adottati dal Tribunale con un ordinanza di tipo cautelare, ovverosia a carattere urgente, che ha disposto nei confronti dell’INPS l’obbligo di ripristinare immediatamente il trattamento economico previsto per gli invalidi civili, con decorrenza retroattiva. L’argomento forte proposto da questo ricorso è la compatibilità tra le norme internazionali (cui l’Italia ha dato adesione) e la normativa interna. L’eventuale incompatibilità della normativa interna conseguente alla violazione di principi stabiliti dal diritto internazionale costituirebbe infatti violazione dell art. 10 della Costituzione sopra menzionato e dell art. 38, che garantisce tra gli altri, il diritto dei lavoratori a che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia e invalidità. Ci si può, quindi, immaginare che il Giudice di Milano solleverà la questione di legittimità costituzionale della norma stessa e, quindi, trasmetterà gli atti alla Corte Costituzionale affinchè stabilisca la compatibilità della normativa sopra menzionata con i principi fondamentali stabiliti in Accordi internazionali cui l’Italia ha aderito. Naturalmente sarà nostra cura fornire ulteriori informazioni relativamente agli sviluppi della causa suddetta. Chi fosse interessato ad utilizzare le argomentazioni appena delineate per proporre in altre sedi la medesima questione, può contattarci attraverso il sito internet. |