lavoroprevidenza

domenica 30 ottobre 2005

IMPUGNAZIONE LICENZIAMENTO DISCIPLINARE ED ALTRE SANZIONI

Sentenza del Tribunale ordinario di Crotone - Sezione Lavoro- de G.L. Dott.ssa Francesca Romana Pucci



N________/_______ Reg. Sent


N________/_______ Reg. Cron


N_______/_______ Ruolo Cont


Oggetto: Controversia di Lav / Prev


Decisa il 29.4.04


Depositata il _____________



TRIBUNALE DI CROTONE


REPUBBLICA ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO



La Dott.ssa Francesca Romana Pucci, in funzione del giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente


SENTENZA


Nella causa promossa da


X, unitamente al Consigliere di Parità Dott.ssa Maria Teresa Fagà, ai sensi dell’art. 8 D.lvo 196/00


Con il proc. Dom. Avv. Maria Francesca Cosco del foro di Catanzaro c/o Avv. Rosalba Malena in Crotone V.le Regina Margherita 5


RICORRENTE


Contro


COMUNE DI SAN NICOLA DELL’ALTO in persona del sindaco pro tempore;


Con il proc. Dom. Avv. Francesca Sorrentino in Crotone V. XXV Aprile 17


RESISTENTE


Oggetto: IMPUGNAZIONE LICENZIAMENTO DISCIPLINARE ED ALTRE SANZIONI


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con ricorso depositato in data 13.9.03, la ricorrente, premesso di essere dipendente dell’ente resistente sin dal 2.6.82 con inquadramento nel profilo D (ex 7^ qualifica funzionale di istruttore direttivo) e di essere adibita presso l’Ufficio Tributi dell’ente in qualità di “addetta”; ha convenuto in giudizio l’amministrazione comunale, impugnando le sanzioni disciplinari irrogate con i procedimenti nn. 370, 371, 372 e 598, ed ha chiesto che il Tribunale previa declaratoria della nullità ed inefficacia delle citate sanzioni, condannasse il Comune alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno patito nella misura di cui all’art. 18 stat. Lav. nonchè al risarcimento dell’ulteriore danno biologico, all’immagine ed alla professionalità nella misura di € 50.000,00. In subordine la ricorrente ha chiesto la conversione della sanzione espulsiva con altra conservativa prevista dal codice disciplinare.


In particolare la ricorrente ha impugnato le sanzioni disciplinari citate deducendo svariati profili di legittimità, che di seguito si esamineranno, ed assumendo altresì il carattere discriminatorio di dette sanzioni in ragione del sesso; circostanza che ha legittimato la proposizione della domanda da parte della Consigliera Regionale di Parità, all’uopo legittimata ex art. 8 D.lvo 23.5.00 n. 196.


Ritualmente costituitosi in giudizio, l’ente ha resistito all’avversa domanda della quale ha chiesto il rigetto in virtù di puntuali e specifiche difese ed eccezioni.


Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, interrogate liberamente le parti, esperite le prove testimoniali ritenute rilevanti, all’udienza del 29.4.04, invitati i procuratori alla discussione la causa è stata decisa come da separato dispositivo pubblicamente letto.


MOTIVI DELLA DECISIONE


Le sanzioni disciplinari impugnate sono le seguenti:


a) Procedimento n.370 culminato con la sanzione della multa corrispondente al trattenimento di n. 4 ore di retribuzione, irrogata con provvedimento del 3.2.03 comunicato alla ricorrente il 27.2.03, per aver la ricorrente nelle date del 3.9.02 e 5.9.02 tenuto un comportamento irriguardoso nei confronti del superiore Scarpino Vincenzo, turbando la regolarità degli uffici e ledendo l’immagine dell’amministrazione (i comportamenti così riassunti dal giudicante vengono diffusamente descritti nelle contestazioni dell’addebito a cui si rinvia);


b) Procedimento n. 371 culminato con la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per n. 10 giorni, irrogata con provvedimento del 3.2.03 comunicato alla ricorrente il 27.2.03, per aver la ricorrente rifiutato di eseguire gli ordini di servizio specificatamente indicati nella contestazione disciplinare nonché per aver rifiutato di ricevere le comunicazioni interne datate 20.8.02, 5.9.02, 18.9.02, così creando gravi disservizi ed intralcio al lavoro ed, infine, per aver affisso alla porta del proprio ufficio un cartello ove la ricorrente si qualificava con il titolo di ragioniera.


c) Procedimento n. 372 culminato con la sanzione della multa corrispondente a n. 4 ore di retribuzione, irrogata con provvedimento del 3.2.03 comunicato alla ricorrente il 27.2.03, per aver la ricorrente, in data 3.9.02, utilizzato il materiale in dotazione dell’ufficio e per aver impiegato l’orario di lavoro per dattiloscrivere rivendicazioni di carattere personale;


d) Procedimento n. 598 culminato con la sanzione del licenziamento per giusta causa irrogato con provvedimento del 24.2.03 comunicato alla ricorrente il 27.2.03, per aver, in data 18.9.02, rifiutato di ricevere comunicazioni di servizio pretendendo di essere appellata con il titolo di ragioniera; per aver, in pari data, sottratto tempo al proprio lavoro d’ufficio ed utilizzato materiale in dotazione dell’amministrazione per dattiloscrivere rivendicazioni di carattere personale ed infine, per aver rifiutato di relazionare sull’eventuale attività lavorativa svolta attesa l’assenza di ogni riscontro circa il lavoro svolto dalla dipendente dal luglio 2002.


Ciò posto, la ricorrente deduce svariati profili di nullità/inefficacia/illegittimità che di seguito di esamineranno.


1. Sulla natura discriminatoria in ragione del sesso delle sanzioni impugnate.


Preliminarmente deve disattendersi l’eccezione proposta dall’ente resistente, avente ad oggetto l’inammissibilità dell’azione promossa dalla Consigliera Regionale di Parità. L’eccezione è infatti motivata non già in rito, bensì nel merito, sulla scorta dell’assoluto difetto di allegazioni probatorie – anche per via presuntiva, ai sensi dell’art. 8 comma 5 comma 6 D.lvo 196/00 – da parte della ricorrente e della Consigliera.


Ciò nondimeno la carenza degli elementi di cui all’art. 414 comma 5 c.p.c. (quand’anche nella forma semplificata di cui alla citata normativa), lungi dal determinare la nullità della domanda (a differenza della carenza degli elementi di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 414 c.p.c.), determina il rigetto nel merito.


Deve pertanto ritenersi ammissibile l’azione promossa dalla consigliera regionale di parità, ritualmente legittimata, ai sensi dell’art. 8 D.Lvo citato.


Ciò nondimeno, l’azione è destituita di ogni fondamento, considerato che con il corposo ricorso introduttivo (composto da ben 109 pagine) ci si limita ad asserire la natura discriminatoria in ragione del sesso delle sanzioni disciplinari impugnate, senza poi coltivare in alcun modo la relativa domanda.


Ai sensi dell’art. 5 comma 6 D.lvo 196/00 “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l onere della prova sull insussistenza della discriminazione”. Ebbene parte ricorrente non solo non fornisce alcun dato statistico a fondamento della presunzione semplice di cui alla normativa citata, ma neppure allega alcun elemento di fatto a sostegno dell’esistenza di discriminazioni in ragione del sesso perpetrate ai suoi danni.


Che anzi dalla narrativa del ricorso, si evince che l’asserita natura ritorsiva dei provvedimenti datoriali non dipenderebbe da ragioni di sesso bensì dall’esistenza di rapporti particolarmente conflittuali fra la dipendente (ed il proprio marito, pure dipendente comunale) da un lato e l’amministrazione.


2. Omesso avviso dell’avvio dei procedimenti disciplinari ai sensi dell’art. 7 L. 241/90


La censura è infondata attesa l’inapplicabilità al caso di specie della disciplina invocata dalla ricorrente (Legge 241/90).


Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 comma 1, 5 comma 2 e 63 comma 1 T.U. 165/01, i provvedimenti adottati dall’ente pubblico si distinguono in provvedimenti di natura amministrativa (art. 2 comma 1) - che cioè attengono alla determinazione dei principi fondamentali inerenti l’organizzazione degli uffici ed in relazione ai quali difetta la giurisdizione del giudice ordinario che ne potrà conoscere solo in via incidentale e cioè laddove siano “rilevanti ai fini della decisione” (art. 63 cit.) – e provvedimenti di natura privatistica (art. 5 T.U. citato) – che hanno ad oggetto le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici, e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro che vengono assunti dagli organi preposti alla gestione con le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro” ed in relazione ai quali non possono valere le categorie dei vizi tipici degli atti amministrativi (carenza di potere, eccesso di potere...) essendo tali atti di natura privatistica (gius-lavoristica) assoggettati esclusivamente alle disposizioni di cui al capo I, titolo II, del libro V c.c., alle leggi sui rapporti di lavoro subordinati nell’impresa nonchè ai contratti collettivi (art. 2 comma 2 e 3 T.U.).


E’ evidente che il procedimento disciplinare afferendo alla gestione del rapporto di lavoro ha natura tipicamente privatistica, sicchè è inconferente il richiamo alla normativa di cui alla L. 241/90 che attiene invece al procedimento amministrativo.


Del resto, l’art. 55 D.lvo 165/01, in materia di procedimento disciplinare, richiama espressamente l’art. 7 Stat. Lav., norma (peraltro) ben più garantista, applicabile al caso di specie, e ritualmente osservata dall’amministrazione mediante la preventiva comunicazione delle specifiche contestazioni di addebito.


3. Violazione del principio di immediatezza della contestazione ai sensi dell’art. 26 Codice Disciplinare.


La norma regolamentare invocata dalla ricorrente sancisce che il Responsabile dell’Ufficio personale provveda a contestare l’addebito entro 20 giorni dalla data in cui è venuto a conoscenza dei fatti.


Premesso che con la locuzione “il responsabile del personale” si debba correttamente intendere il Responsabile del procedimento disciplinare giusto il disposto di cui al precedente articolo 25 del codice disciplinare, si osserva che dalla documentazione in atti emerge che tale termine è stato ritualmente osservato dall’ente datoriale.


Ed infatti le contestazioni di addebito afferenti i procedimenti nn. 370-371-372 sono state comunicate alla ricorrente in data 7.10.02 laddove i fatti addebitati erano stati compiutamente rappresentanti al responsabile del procedimento Avv. Gangale - professionista esterno all’uopo nominato giusto il disposto di cui all’art. 25 comma 5 citato, (per essersi ritualmente astenuti tutti i soggetti indicati ai commi 1 e 3) -, in data 18.9.02. Del pari la contestazione di addebito afferente il procedimento n. 598 è stata comunicata alla ricorrente in data 28.10.2002 laddove i fatti contestati erano stati compiutamente rappresentati al medesimo avv. Gangale in data 9.10.02.


4. Omesso svolgimento delle indagini preliminari alla contestazione degli addebiti. Nessuna norma positiva sancisce detto incombente, neppure desumibile dall’ordinamento penale attesa la specialità dei relativi procedimenti. L’eccezione è pertanto infondata.


5. Omessa lettura dell’addebito alla dipendente. Il giudicante non condivide la tesi sostenuta dalla ricorrente in virtù della quale, a fronte del rifiuto della dipendente di ricevere la missiva contenente l’addebito, la relativa comunicazione avrebbe dovuto effettuarsi mediante lettura, alla presenza di testimoni, del contenuto della missiva stessa.


Di contro, ritiene il giudicante l’illegittimità del rifiuto opposto dalla ricorrente alla ricezione della comunicazione di addebito, poiché ritualmente indirizzata alla “dipendente Mustacchio” ovvero “all’Ufficio Tributi” impersonificato esclusivamente dalla ricorrente; ne segue che la (eventuale) mancata conoscenza della contestazione di addebito è imputabile esclusivamente al comportamento ostruzionistico della Mustacchio che non può pertanto poi dolersi delle conseguenze. Né è ipotizzabile alcun obbligo a carico del datore di lavoro di indicare - all’esterno della missiva - il contenuto della stessa al fine di indurre la dipendente al ritiro, considerato, anzi, che l’eventuale indicazione esterna avrebbe violato il principio della riservatezza.


6. Omessa indicazione del termine a difesa. Si osserva che contrariamente a quanto lamentato, le contestazioni di addebito indicavano espressamente la data della convocazione della ricorrente, ai sensi dell’art. 26 del citato Codice disciplinare.


7. Non corrispondenza fra il soggetto che ha proceduto alle contestazioni di addebito (Avv. Gangale) e quello che ha irrogato le sanzioni disciplinari (Avv. Marano); nullità e/o inesistenza delle contestazioni di addebito per incompatibilità dell’Avv. Gangale. Emerge documentalmente che gli addebiti disciplinari sono stati contestati alla ricorrente dal professionista esterno Avv. Gangale il quale, nelle more del procedimento disciplinare, ed in particolare in data 11.11.02, a seguito della seduta del 30.10.02, sospendeva il procedimento e provvedeva ad astenersi, per aver in precedenza patrocinato un soggetto costituitosi parte civile nell’ambito di un procedimento penale nei confronti della Mustacchio (si veda il doc. 17 di parte ricorrente); veniva pertanto successivamente nominato altro professionista esterno che, eseguita l’istruttoria, provvedeva all’irrogazione delle sanzioni.


Da tale incompatibilità dell’Avv. Gangale la ricorrente fa discendere la inesistenza della contestazione di addebito e l’illegittimità della successiva sanzione.


La tesi non appare condividibile. Sia infatti l’art. 26 comma 5 del codice disciplinare (ufficio competente) sia i successivi articoli 35 e 36 (astensione e ricusazione) regolamentano la materia riferendosi espressamente al soggetto che deve irrogare la sanzione disciplinare e, dunque, esclusivamente alla fase di adozione della sanzione. La normativa mira in sostanza a garantire che il soggetto che deve irrogare la sanzione e che, pertanto, deve giudicare l’illecito disciplinare non versi in situazioni di incompatibilità tali da pregiudicare il ruolo di terzietà e la correttezza del relativo giudizio. Di contro, nessuna incompatibilità è prevista per la fase di contestazione dell’addebito che, essendo meramente rappresentativa di fatti storici ed essendo peraltro finalizzata a consentire la difesa del dipendente, non solo non ha carattere vincolante (se non in favore del lavoratore, non essendo ammesso alcun mutamento in peius del fatto storico addebitato) ma è altresì caratterizzata dall’assenza di giudizi e poteri valutativi. Ne segue che l’esistenza di ragioni di incompatibilità in capo al soggetto che formula la contestazione non può determinare l’inesistenza o l’inefficacia del relativo addebito.


Le medesime argomentazioni devono esprimersi in relazione alla censura relativa alla non coincidenza della persona fisica che ha contestato gli addebiti e quella che ha eseguito l’istruttoria e l’adozione delle sanzioni impugnate.


8. Omessa comunicazione della sospensione del procedimento disposta dall’Avv. Gangale ai fini dell’astensione. Omessa comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento incaricato a seguito dell’astensione dell’Avv. Gangale. Trattasi di mere irregolarità che non possono inficiare la legittimità del procedimento disciplinare, considerato che nessuna norma di legge o regolamentare individua alcuna conseguenza per detta inosservanza. L’eventuale illegittimità del procedimento potrebbe invero configurarsi laddove tali omissioni avessero pregiudicato, in concreto, il diritto di difesa del dipendente (argomentazione desunta dai principi generali ed in particolare dalla ratio del procedimento di cui all’art. 7 Stat. Lav.); nella fattispecie tuttavia, parte ricorrente non ha allegato alcunché neppure in via istruttoria, sicchè nessun accertamento in tal senso è consentito al giudicante in forza dei principi di corrispondenza fra chiesto e pronunciato e del rispetto del contraddittorio.


9. Estinzione dei procedimenti disciplinari. Anche detta eccezione è infondata. Parte ricorrente fa riferimento ad un termine finale di 120 giorni che tuttavia non si rinviene nella normativa applicabile al caso di specie, né può mutuarsi dal CCNL comparto ministeri, essendo diverso il contratto applicato al rapporto di lavoro dedotto in giudizio (e cioè appunto quello degli enti locali). Di contro, l’art. 33 del Codice disciplinare stabilisce che il procedimento si estingue di diritto quando siano decorsi 90 giorni dall’ultimo atto senza che alcun altro atto sia stato compiuto. Trattasi in sostanza di una ipotesi codificata di perenzione che mira a sanzionare il comportamento di inerzia dell’amministrazione.


Ebbene, nel caso di specie nessuna estinzione si è potuta verificare considerato che dalla documentazione in atti si evince che non vi è mai stato un periodo di inerzia dell’ente per la durata di 90 giorni, considerando quali validi atti interruttivi sia la nomina del professionista esterno Avv. Marano in sostituzione del precedente Avv. Gangale astenutosi, sia la convocazione della ricorrente e degli altri dipendenti a fini istruttori, essendo dette attività valida espressione dell’esercizio del potere istruttorio funzionale a quello disciplinare.


10. Omessa assegnazione del termine alla dipendente per proporre la riduzione, in violazione del disposto di cui all’art. 34 Codice Disciplinare. La norma invocata dalla ricorrente prevede un particolare meccanismo che consente, con il consenso di entrambe le parti, di rendere definitiva la sanzione disciplinare irrogata pur se in misura ridotta. In sostanza il dipendente ha la facoltà di chiedere, entro il termine di 5 giorni dall’irrogazione della sanzione che la stessa venga ridotta, impegnandosi in caso di accoglimento della richiesta di riduzione da parte dell’amministrazione a non impugnarla. E’ evidente che l’esercizio di tale facoltà da parte del dipendente deriva direttamente dalla norma pattizia e non già dall’avviso che l’amministrazione rivolge al dipendete, la cui omissione, pertanto, comporta una mera irregolarità che non può certo né elidere la facoltà del dipendente di chiedere la riduzione né, in caso di omesso esercizio della facoltà da parte del dipendente, determinare una qualunque illegittimità della sanzione irrogata.


11. Omessa sospensione del procedimento disciplinare 598 (culminato con il licenziamento) malgrado la comunicata malattia della ricorrente. La ricorrente deduce l’illegittimità della sanzione del licenziamento disciplinare poiché, convocata per difendersi nella seduta del 7.2.03, l’amministrazione, pur a conoscenza dello stato di malattia della dipendente, non avrebbe provveduto alla sospensione del procedimento in ossequio al disposto di cui all’art. 29 comma 2 del Regolamento comunale (che appunto sancisce la sospensione di tutti i termini in pendenza della malattia del lavoratore). Ritiene al riguardo il giudicante che l’amministrazione non fosse tenuta a sospendere il procedimento ed abbia correttamente proceduto all’istruttoria, essendosi la ricorrente avvalsa di un procuratore speciale, nella specie l’avv. Garruba, al fine di rappresentare le proprie difese nella seduta del 7.2.03. V’è infatti in atti la missiva datata 6.2.03 ed inviata dal citato professionista all’avv. Marano, responsabile del procedimento, con la quale, evidenziato di aver ricevuto mandato dalla dipendente Mustacchio per rappresentarla e difenderla nell’ambito del citato procedimento, chiedeva il rinvio della seduta del 7.2.03 ad altra data per impegni pregressi. Il responsabile Marano ritualmente rinviava la seduta del 7.2.03 alla data del 11.2.03, quando compariva il procuratore speciale Avv. Garruba che, compiutamente, nel corso della seduta rappresentava le difese della ricorrente nonché le doglianze della stessa anche ponendo specifici quesiti agli altri dipendenti convocati in via istruttoria. In sostanza: poiché la ratio della sospensione del procedimento in pendenza di malattia del lavoratore è quella di garantire l’effettività della difesa e poiché, nel caso di specie, la ricorrente ha inteso avvalersi di un professionista al fine di svolgere le proprie difese, conferendo all’Avv. Garruba il mandato a rappresentarla e difenderla nella seduta del 7.2.03 alla quale era stata convocata, ritiene il giudicante che nessuna violazione del diritto di difesa si sia verificata.


12. Omessa affissione del codice disciplinare e conseguente nullità delle relative sanzioni. E’ pacifico fra le parti che il codice disciplinare è affisso nella bacheca dell’albo pretorio chiusa a chiave; è altresì pacifico che di detta affissione l’amministrazione ha dato contezza a tutti i dipendenti e che, infine, la ricorrente non è in possesso delle chiavi della bacheca, custodite invece dal messo comunale, dal vigile e dal dipendente Vulcano in caso di assenza dei primi due. Ritiene al riguardo il giudicante che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, tale modalità di affissione sia, nel caso di specie, idonea a garantire la pubblicità del codice disciplinare e la conseguente conoscibilità da parte dei dipendenti, considerate le dimensioni dell’ente, il numero limitato dei dipendenti (8 compreso il messo ed il vigile), e tenuto altresì conto che non è emerso che la ricorrente si sia mai attivata per visionare l’atto e/o che gli sia mai stato opposto alcun rifiuto all’apertura della bacheca ove il codice disciplinare è custodito.


13. Violazione del termine dilatorio di cui all’art. 27 Codice disciplinare. La norma sancisce che il dipendente possa presentare delle giustificazioni scritte entro il termine di 15 giorni dalla data di convocazione stabilita per la difesa; detto termine può essere prorogato per gravi motivi e per non oltre 15 giorni dal Responsabile del procedimento; la normativa prevede inoltre che il lavoratore possa rinunciare a detta facoltà purchè lo comunichi espressamente per iscritto; ed infine che, trascorso inutilmente il termine indicato senza che il dipendente abbia presentato controdeduzioni a sua difesa, possa essere adottata la sanzione disciplinare.


In sostanza la normativa garantisce al dipendente un ulteriore diritto di difesa consentendogli di presentare delle controdeduzioni difensive per iscritto, nei 15 giorni successivi alla convocazione stabilita per la difesa. Trascorso inutilmente tale termine può essere adottata la sanzione disciplinare.


Non è condivisibile la tesi sostenuta dall’ente resistente secondo cui tale termine dilatorio si applicherebbe solo laddove il dipendente abbia rinunciato a difendersi nel corso della convocazione stabilita per la difesa, considerato il tenore letterale della normativa citata che fa appunto riferimento alle “controdeduzioni difensive” senza peraltro indicare l’ipotesi di omessa presentazione alla convocazione.


Ebbene, dalla documentazione in atti emerge che la sanzione de licenziamento è stata irrogata e comunicata alla dipendente quando non era ancora spirato tale termine dilatorio e dunque in pendenza del termine volto a garantire l’ulteriore difesa della ricorrente. Ed infatti: rinviata la convocazione difensiva della ricorrente alla data del 11.2.03, la sanzione del licenziamento le è stata comunicata in data 24.2.03, quando la ricorrente avrebbe ancora potuto esercitare il proprio diritto di difesa presentando controdeduzioni difensive per iscritto non avendovi formalmente rinunciato ai sensi del comma 3 dell’art. 27.


La violazione del termine dilatorio essendosi tradotta in una violazione del diritto di difesa contrattualmente garantito, determina la illegittimità della sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa.


14. Violazione del termine finale di cui al combinato disposto degli artt. 29 comma 1, 27 commi 1 e 4 codice disciplinare e dell’art. 55 comma 5 D.lvo 165/01. Ai sensi dell’art. 55 comma 5 D.lvo 165/01, trascorsi inutilmente 15 giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione deve essere applicata entro i successivi 15 giorni. In attuazione di tale principio, l’art. 29 comma 1 del codice disciplinare stabilisce che il responsabile del procedimento commina la sanzione entro 15 giorni da quello in cui sono pervenute le giustificazioni, altrimenti dichiara il non luogo a provvedere. Tale disposizione deve essere correlata con l’art. 27 comma 1 che prescrive che il lavoratore ha la facoltà di presentare giustificazioni scritte entro 15 giorni dalla convocazione per la difesa, nonché con il successivo comma 4 a mente del quale, trascorso inutilmente tale termine (di 15 giorni) senza che il lavoratore abbia presentato le controdeduzioni difensive, deve essere adottato il provvedimento per la irrogazione della sanzione.


L’articolo 29 comma 1 del codice disciplinare, nella parte in cui prevede (espressamente) che il responsabile adotti la sanzione nel termine indicato laddove ritenga il caso sufficientemente istruito, altrimenti dichiara il non luogo a provvedere, deve correttamente interpretarsi nel senso di escludere la facoltà del datore di lavoro di prolungare l’istruttoria oltre il termine di 15 giorni sopra indicato, con la conseguenza che se entro detto termine il caso non risulti adeguatamente istruito, dovrà dichiararsi il non luogo a provvedere. Tanto si desume dal tenore letterale dell’art. 29 comma 1, e dell’art. 27 commi 1 e 4.


Si introduce in sostanza nell’ambito del pubblico impiego, accanto al generale principio di immediatezza della contestazione disciplinare, di cui all’art. 7 Stat. Lav., funzionale al diritto la difesa del lavoratore, anche quello di immediatezza della reazione datoriale che trova evidentemente la sua ratio nell’esigenza di assicurare l’effettività della sanzione disciplinare e la tempestiva definizione del procedimento, in linea con i più generali principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione.


Tali considerazioni inducono il giudicante a ritenere la natura perentoria di detto termine finale.


Ciò posto, si osserva che dalla documentazione in atti si evince che le sanzioni afferenti i procedimenti disciplinari nn. 370 e 371 sono state irrogate successivamente allo spirare del termine finale di cui alla citata normativa.


Ed infatti, quanto al procedimento n. 370, contestato l’addebito l’ente convocava a difesa la ricorrente per la seduta del 21.10.2002, nel corso della quale la lavoratrice non si presentava, sicchè la stessa avrebbe potuto presentare le giustificazioni scritte entro il termine del 5.11.02; il procedimento veniva tuttavia sospeso in data 11.11.02 per la verifica di eventuali ipotesi di incompatibilità del responsabile Avv. Gangale che, poco dopo dichiarava la propria astensione; i termini così sospesi ricominciavano a decorrere in data 14.1.03 quando veniva nominato il nuovo responsabile del procedimento Avv. Marano che avrebbe dovuto adottare la sanzione disciplinare ovvero dichiarare il non luogo a provvedere entro il termine del 24.1.03 (residuavano infatti ancora 10 giorni). Emerge invece che la sanzione della multa pari a 4 ore di retribuzione è stata adottata con la missiva del 3.2.03 comunicata alla ricorrente in data 27.2.03.


Del pari, in relazione al procedimento n. 371, la ricorrente veniva convocata per la difesa nella seduta del 28.10.02; il termine per la presentazione delle giustificazioni scritte sarebbe pertanto scaduto il 12.11.02; sennonché in data 11.11.02 il procedimento veniva sospeso per i medesimi motivi sopra evidenziati e riprendeva in data 14.1.03 con la nomina dell’avv. Marano quale professionista esterno responsabile del procedimento; sicchè entro la data del 30.1.03 (cioè 15 giorni + 1 giorno residuo per la ulteriore difesa), avrebbe dovuto adottarsi la sanzione disciplinare ovvero disporsi il non luogo a provvedere. Anche in tal caso, la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per n. 10 giorni è stata adottata in data 3.2.03 e comunicata alla ricorrente in data 27.2.04.


Alla luce delle considerazioni esposte deve dichiararsi l’illegittimità delle due sanzioni disciplinari sopra indicate essendo state adottate oltre il termine perentorio previsto dalla legge e dal codice disciplinare.


Quanto infine al procedimento n. 372, disattese tutte le superiori eccezioni, se ne deve esaminare il merito.


Con la missiva del 4.9.02 l’ente contestava alla dipendente di aver utilizzato, in data 3.9.02, le attrezzature ed il materiale in dotazione dell’ufficio e di aver utilizzato il normale orario di lavoro per usi personali ed in particolare per redigere la comunicazione avente ad oggetto “stipendio errato”, protocollata in pari data al n. 2424; contestava inoltre alla ricorrente di aver abbandonato il posto di lavoro, sempre in data 3.9.02, per recarsi a controllare i cartellini di presenza del dott. Scarpino e della dipendente Chiarelli.


Con successiva comunicazione del 3.2.03 ricevuta dalla ricorrente in 27.2.03, il responsabile del procedimento Avv. Marano, preso atto che la ricorrente non aveva inteso presentarsi alla convocazione per la difesa del 30.10.02 né aveva presentato giustificazioni scritte e, rilevato che dall’esperita istruttoria sarebbe effettivamente emerso che la ricorrente aveva sottratto tempo al normale orario di lavoro per redigere la comunicazione personale “stipendio errato”, irrogava la sanzione della multa per n. 4 ore di retribuzione in relazione a detto fatto e, contestualmente, dichiarava il non luogo a provvedere in relazione all’ulteriore addebito dell’abbandono del posto di lavoro per controllare la presenza dei due colleghi nonché dell’utilizzo delle attrezzature in dotazione dell’ufficio per scopi personali.


Al riguardo la ricorrente si difende con il presente ricorso deducendo di aver redatto la missiva contenente “comunicazione stipendio errato” nella pausa del pranzo ed assumendo a tal fine di aver protocollato la missiva non già nel corso della mattinata, bensì del rientro pomeridiano.


Esperite le prove testimoniali, il teste Acquaviva, segretario comunale dell’ente e del comune di Carfizi ha dichiarato di aver ricevuto la missiva sottoscritta dalla ricorrente e protocollata al n. 2424 intorno alle ore 12.00/12.30 del 3.9.02, al rientro dal comune di Carfizi. Anche il teste Scarpino ha confermato la medesima circostanza escludendo di aver ricevuto la missiva nelle ore pomeridiane considerato che il 3.9.02 coincideva con un martedì, giorno in cui il teste non effettua il rientro pomeridiano.


Le concordi dichiarazioni dei due testi, avvalorate dalla circostanza pacifica che lo Scarpino non effettuava il rientro pomeridiano al martedì e che non risultano smentite dalla testimonianza del Serleti (che pur avendo provveduto a protocollare materialmente la missiva, non ricordava se ciò fosse avvenuto nel corso della mattinata ovvero nel pomeriggio), inducono il giudicante a ritenere che, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la missiva sia stata effettivamente protocollata nel corso della mattinata sicchè è stata necessariamente redatta durante il normale orario di lavoro.


Il fatto addebitato rientra nelle ipotesi di “violazione di doveri di comportamento” di cui all’art. 7 comma 6 lett. g) Cod. Disciplinare sanzionabile con i provvedimenti dal rimprovero verbale alla multa sino a 4 ore di retribuzione, a seconda della gravità. Sotto il profilo della proporzionalità della sanzione applicata, si osserva che appare congrua la sanzione irrogata, per quanto coincida con la più grave applicabile, considerati i criteri di cui all’art. 6 e specificatamente, dell’intenzionalità della condotta, della prevedibilità dell’evento, del grado di responsabilità connesso alla posizione lavorativa della ricorrente (responsabile dell’Ufficio Tributi), dell’aggravante di aver utilizzato la missiva “comunicazione stipendio errato” per lamentare in realtà comportamenti asseritamente discriminatori del datore di lavoro nei propri confronti e di quelli del marito nonché collega Bresci Carmine, utilizzando toni irriguardevoli e latamente minacciosi.


La sanzione deve pertanto essere confermata.


Alla dichiarata illegittimità ed inefficacia delle sanzioni adottate con i procedimenti n. 370 (multa corrispondente a 4 ore di retribuzione) e n. 371 (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni) consegue la condanna dell’ente resistente a corrispondere alla ricorrente la retribuzione trattenuta in virtù delle citate sanzioni oltre interessi dalla data delle trattenute al saldo effettivo.


Deve inoltre dichiararsi, in virtù delle motivazioni sopra esposte, l’illegittimità della sanzione del licenziamento adottato in data 24.2.03 e comunicato alla ricorrente il 27.2.03 con conseguente condanna dell’ente, ai sensi dell’art. 18 L. 300/70 per come richiamato dall’art. 51 comma 2 D.lvo 165/01, all immediata reintegra della ricorrente nel posto di lavoro con le mansioni svolte in precedenza o con altre equivalenti, ovvero, in sostituzione, a scelta della ricorrente, a corrispondere un indennità pari a 15 mensilità della retribuzione di fatto percepita nel corso del rapporto, ai sensi dell art. 18 comma 4 L. 300/70; nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dovuti per la ricorrente dal giorno del licenziamento sino all’effettiva reintegra.


Quanto poi al risarcimento del danno patito la ricorrente chiede la condanna dell’ente datoriale sia all’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 Stat. Lav., sia all’ulteriore somma, quantificata in € 50.000,00 a titolo di danno biologico, esistenziale ed all’immagine.


Ebbene, rilevato che l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 Stat. Lav. nella misura eccedente le 5 mensilità di retribuzione è volta a quantificare presuntivamente il danno complessivamente patito per effetto del licenziamento illegittimo (dunque: tale indennità quantificata sul parametro della retribuzione globale ha la funzione di risarcire non solo il danno patrimoniale ma anche quello biologico, morale ed alla professionalità) con la conseguenza che il lavoratore ben può chiedere il risarcimento del danno in misura ulteriore laddove provi detto maggior danno; ritenuto pertanto, in sostanza, che le due domande risarcitorie sono proponibili solo in via alternativa e non già cumulativa; ritiene il giudicante che il prospettato maggior danno non sia stato adeguatamente provato dalla ricorrente. Dalla perizia depositata in atti (si veda l’allegato 38 di parte ricorrente) emerge invero che la Mustacchio è affetta da “importante disturbo depressivo con contrazione dello spazio esistenziale ed impegno somatico”, ma emerge altresì che detta situazione patologica è connessa, non già al licenziamento, bensì proprio “alla pregressa e protratta situazione occupazionale avversativa”. Effettivamente la ricorrente lamenta nell’atto introduttivo di essere vittima di condotte datoriali persecutorie continuative finalizzate all’emarginazione, e riserva ad apposito giudizio l’azione di accertamento del mobbing e di risarcimento del danno patito. Ritiene pertanto il giudicante che le conclusioni peritali sopra citate siano riconducibili a tale prospettazione e non già alle sanzioni disciplinari per cui è causa.


Concludendo dunque, si ritiene che il risarcimento del danno debba essere quantificato con l’indennità di cui all’art. 18 Stat. Lav., corrispondente alla somma delle retribuzioni mensili (secondo i parametri di cui all’art. 14 comma 3 del regolamento comunale) non percepite dalla data del licenziamento sino a quella dell effettiva reintegrazione, oltre gli interessi di legge, da computarsi sulle somme via via rivalutate dal dovuto al saldo effettivo.


Da ultimo, quanto alla regolamentazione delle spese di lite, la parziale soccombenza della ricorrente (con riferimento all’impugnazione della sanzione adottata con il procedimento 372, ed alla domanda di risarcimento del maggior danno quantificato in € 50.000,00), la temerarietà della domanda afferente la natura discriminatoria in ragione del sesso prospettata ai sensi del D.lvo 196/00, ed infine l’assoluta infondatezza dei profili di illegittimità formale dedotti a sostegno del ricorso, rendono opportuna la compensazione delle spese di lite in ragione di 2/3, mentre il residuo 1/3 deve porsi a carico dell’ente soccombente e si liquida, in considerazione delle questioni trattate, in € 400,00 (di cui € 180.00 per diritti ed il residuo per onorari) oltre c.p.a. ed i.v.a..


P.Q.M.


In parziale accoglimento del ricorso, dichiara l’illegittimità e l’inefficacia delle sanzioni disciplinari irrogate alla ricorrente con i procedimenti nn. 370 (multa corrispondente a 4 ore di retribuzione), 371 (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni) e 598 (licenziamento disciplinare) e per l’effetto condanna l’ente resistente a corrispondere alla ricorrente la retribuzione trattenuta in virtù delle sanzioni di cui ai procedimenti nn. 370 e 371, oltre interessi dalla data delle trattenute al saldo effettivo;


condanna altresì l’ente resistente, in relazione al procedimento n. 598, ai sensi del combinato disposto degli artt. 51 comma 2 D.Lvo 165/01 e 18 L. 300/70:


1. all immediata reintegra della ricorrente nel posto di lavoro con le mansioni svolte in precedenza o con altre equivalenti, ovvero, in sostituzione, a scelta della ricorrente, a corrispondere un indennità pari a 15 mensilità della retribuzione di fatto percepita nel corso del rapporto, ai sensi dell art. 18 comma 4 L. 300/70;


2. al risarcimento del danno in favore della ricorrente pari ad un indennità corrispondente alla somma delle retribuzioni mensili (secondo i parametri di cui all’art. 14 comma 3 del regolamento comunale) non percepite dalla data del licenziamento sino a quella dell effettiva reintegrazione, con gli interessi di legge, da computarsi sulle somme via via rivalutate dal dovuto al saldo effettivo;


3. condanna l’ente al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dovuti per la ricorrente dal giorno del licenziamento all’effettiva reitegra;


rigetta le residue domande;


compensa per 2/3 le spese di lite condannando l’ente alla rifusione di 1/3 delle spese che si liquidano in € 400,00 oltre i.v.a. e c.p.a..


Crotone 29.4.04


Il G.L.


Dott.ssa F. R. Pucci






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