ARBITRATO E CONCILIAZIONE NEL PUBBLICO IMPIEGO SECONDO IL CCNQ 23 GENNAIO 2001
a cura di Maurizio Danza Arbitro Pubblico Impiego-Lazio
Con il CCNQ del 23/1/2001 si è introdotto in Italia, in occasione del processo di “privatizzazione” del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, l’istituto dell’arbitrato e della conciliazione come altra tipologia di procedimento stragiudiziale, con lo scopo precipuo di evitare ,o quantomeno contenere, la congestione degli uffici giudiziari . L’Istituto dell’arbitrato nel pubblico impiego prevede un iter alternativo rispetto a quello adottato dal codice di procedura civile, utilizzabile anche per la risoluzione delle controversie di lavoro.
Fonte normativa del suddetto CCNQ è principalmente l’art.412 ter c.p.c che stabilisce che i CCNL possano prevedere la facoltà per le parti di deferire ad arbitri la decisione su una controversia di lavoro, in alternativa al ricorso al giudice del lavoro. Tale disposizione ,applicabile tanto ai rapporti di lavoro privati quanto a quelli pubblici “contrattualizzati”, è stata inserita nel corpus del codice di procedura civile per effetto della disposizione contenuta nell’articolo 39 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80: non è certamente casuale che, proprio con il medesimo provvedimento normativo che ha reso concretamente operante la devoluzione al giudice ordinario del contenzioso del pubblico impiego, sia stato altresì ridefinito e potenziato un rilevante strumento deflattivo del carico di lavoro dei magistrati togati definite e chiamati a pronunziare una decisione vincolante per i contendenti, nota con la denominazione di “lodo”previamente autorizzato a livello di contrattazione collettiva. Ebbene, per quanto riguarda il pubblico impiego, ad oggi, l’unico accordo sindacale che permette un generalizzato ricorso a procedure arbitrali è il “Contratto Collettivo Nazionale Quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato ai sensi degli artt. 59-bis, 69 e 69-bis del d.lgs. n. 29/1993, nonché dell’art. 412-ter c.p.c.”, sottoscritto dall’A.R.A.N. e dalle Organizzazioni sindacali in data 23 gennaio 2001 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 36 del 13 febbraio 2001.
Nell’ambito del contenzioso del lavoro privato, l’arbitrato ha fatto il suo ingresso in via generale in occasione della riforma della disciplina delle controversie individuali di lavoro attuata con l’emanazione della legge 11 agosto 1973, n. 533, i cui articoli 4 e 5 consentirono -in via alternativa all’esperimento dell’azione giudiziale- il ricorso a procedure arbitrali, sia rituali che irrituali, ma soltanto in quei casi in cui tale ricorso fosse espressamente ammesso da contratti o accordi collettivi di lavoro e ferma restando, comunque, la facoltà delle parti di rinunciare all’arbitrato e di rivolgersi all’autorità giudiziaria ordinaria. Con specifico riguardo agli arbitrati rituali, la normativa in questione sancì esplicitamente la nullità della clausola compromissoria, ove questa autorizzasse gli arbitri a pronunciare secondo equità, ovvero dichiarasse il lodo non impugnabile.
Con l’adozione del decreto legislativo n. 80/1998 cit., proprio in ossequio a quelle finalità di deflazione del contenzioso giurisdizionale peraltro tra le finalità dell’accordo ed espressamente richiamate nell’art.1 “norme di organizzazione” , il legislatore ha inteso promuovere maggiormente lo strumento dell’arbitrato irrituale nelle controversie giuslavoristiche e, pertanto, di tale procedimento ha incisivamente rimodellato la disciplina.
Infatti, oltre a disporre le abrogazioni di cui sopra, il decreto legislativo de quo ha inserito nell’articolato del codice di procedura civile gli articoli 412-ter e 412-quater, rubricati, rispettivamente, “Arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi” e “Impugnazione ed esecutività del lodo arbitrale”. Entrambe le norme, pochi mesi appena dopo la loro entrata in vigore, sono state modificate per effetto dell’articolo 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387, che ha avuto il merito, tra l’altro, di fugare ogni perplessità circa la possibilità di applicare gli articoli 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile.
Vale altresì puntualizzare che secondo taluna dottrina non sembra che le disposizioni del codice di procedura civile abbiano dato forma ad una procedura arbitrale irrituale differente ed ulteriore rispetto a quella di cui all’articolo 5 della legge n. 533/1973; nonostante la mancanza di qualsivoglia raccordo a livello normativo l’interpretazione più valida appare, infatti quella che coordina e legge in chiave unificatrice le norme in questione, giungendo a concludere che l’articolo 412-ter c.p.c. ha dettagliato quanto già stabilito dalla legge n. 533/1973, imponendo l’obbligo di regolare con gli accordi collettivi anche le varie fasi del procedimento arbitrale irrituale ed esplicitando la necessità del previo svolgimento del tentativo di conciliazione. Si evince dunque da una lettura coordinata delle disposizioni fin qui riportate che,fatte salve le ipotesi di norme speciali di legge, qualunque tipologia di devoluzione in arbitri del contenzioso giuslavoristico è ammissibile soltanto se previamente autorizzato a livello di contrattazione collettiva.
Venendo ad una sintetica descrizione degli aspetti maggiormente salienti del CCNQ 23 gennaio 2001 all’indomani dell’accordo, si segnala in primo luogo la peculiarità della durata biennale del contratto collettivo de quo data la sua natura sperimentale. La procedura da esso disciplinata, coerentemente con il quadro legislativo tratteggiato fin qui,denota la facoltatività e l’alternatività dell’istituto, rispetto all’esperimento della causa innanzi al giudice ordinario in funzione del lavoro
La dottrina ovviamente recente si sofferma sulla caratteristica più saliente del CCNQ 23 gennaio 2001.che appare essere un elemento che emerge dal contenuto degli articoli 2 e 3 del documento in discorso, vale a dire la monocraticità dell’arbitro su cui ci soffermeremo più avanti. Potendo scegliere tra l’opzione dell’arbitro unico e quella del collegio arbitrale (spesso prediletta, tanto in ambiti legislativi, quanto in sede di pattuizioni collettive), l’A.R.A.N. e le Organizzazioni sindacali firmatarie hanno preferito indirizzarsi verso la previsione di un arbitro monocratico, optando così per una soluzione più snella, celere ed economica, che ha il pregio di impedire ab origine l’insorgenza di talune questioni problematiche, quali, ad esempio, quelle derivanti da eventuali divergenze d’opinione all’interno del collegio. La decisione assunta non sembra peraltro pregiudicare in alcun modo l’efficienza del procedimento, visti i requisiti di preparazione e professionalità che sono inderogabilmente richiesti in capo agli arbitri dall’articolo 5, comma 4, del contratto collettivo. L’arbitro chiamato a decidere la lite viene nominato dalle parti litiganti stesse, di comune intesa, ovvero -in caso di mancato accordo- è scelto per mezzo di un’estrazione a sorte dalla lista di cui all’articolo 5, comma 2, del contratto, che così recita: “Presso ogni camera arbitrale stabile è depositata la lista dei designabili in ciascuna Regione come arbitri unici in caso di mancato accordo diretto tra le parti, articolata, ove possibile, per comparti o aree”. La camera arbitrale cui fa riferimento l’articolo 5, comma 2, cit. è quella che -in esecuzione di quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 412-ter del codice di procedura civile- il CCNQ 23 gennaio 2001 ha costituito presso ogni Direzione regionale del lavoro, con la finalità di formare e aggiornare le liste degli aspiranti arbitri e, più in generale, di sovrintendere a tutte le procedure arbitrali instaurate ai sensi del contratto collettivo de quo, dal momento che “l’atto di accettazione dell’incarico da parte dell’arbitro deve essere depositato, a cura delle parti, presso la camera arbitrale stabile entro 5 giorni dalla designazione comunque effettuata, sotto pena di nullità del procedimento. Le parti possono concordare che il procedimento si svolga presso la camera arbitrale regionale di cui all’art. 5, comma 1, oppure, dandone immediata comunicazione alla medesima, presso l’amministrazione a cui appartiene il dipendente” (cfr. articolo 3, commi 4 e 5) e che l’ufficio di segreteria di ciascuna camera arbitrale è tenuto, tra l’altro, a “…conservare anche tutti gli atti concernenti arbitrati che si costituiscano in sedi diverse” (cfr. articolo 5, comma 4).
Oltre alla camera arbitrale di cui s’è fatto cenno, l’articolo 1 del CCNQ ha altresì istituito, presso l’A.R.A.N., un gruppo di lavoro permanente, destinato ad operare in funzione di cabina di regia sia per “…sostenere l’avvio degli istituti definiti nel presente accordo nonché monitorare tutte le fasi attuative del medesimo” sia per progettare percorsi di formazione per gli arbitri.
Per quanto riguarda le modalità di svolgimento della procedura di arbitrato, che saranno approfonditi nei paragrafi successivi cui si fa espresso rinvio, i primi studiosi hanno posto in evidenza in particolare, tre elementi degni di particolare rilievo.
In primo luogo, occorre evidenziare che le parti stipulanti il CCNQ 23 gennaio 2001, nel dare attuazione ai precetti normativi che impongono il tentativo obbligatorio di conciliazione quale condizione di procedibilità anche del giudizio arbitrale, hanno colto l’occasione di sfruttare la possibilità offerta dall’ordinamento di definire per mezzo della contrattazione collettiva procedimenti di conciliazione alternativi rispetto a quello attualmente regolato dagli articoli 65 e 66 del decreto legislativo n. 165/2001. L’articolo 4, comma 1, del contratto quadro prevede, infatti, che “Quando le parti decidano di ricorrere alle procedure di conciliazione e arbitrato disciplinate dal presente contratto, l’arbitro è obbligatoriamente tenuto ad espletare un tentativo di conciliazione che sostituisce e produce i medesimi effetti di quello previsto dall’art. 69 bis D.lgs. 29/93, salvo che questo non sia già stato espletato ai sensi del citato articolo”.
Ecco dunque che, qualora le parti si siano accordate per l’attivazione del meccanismo deflattivo de quo, il tentativo obbligatorio di conciliazione (ove non già effettuato secondo le modalità definite ex lege) viene fatto rientrare nell’ambito del procedimento arbitrale, dal momento che è posto in essere e gestito direttamente dall’arbitro, preliminarmente all’avvio della fase di trattazione contenziosa della vertenza, fase che -logicamente- ha luogo soltanto nell’ipotesi di esito negativo della conciliazione.
Nel riconoscere l’evidente e meritoria semplificazione degli oneri procedurali gravanti a carico dei litiganti e nel prendere atto che i sottoscrittori del CCNQ 23 gennaio 2001 hanno indubbiamente cercato di promuovere con ogni mezzo il raggiungimento di soluzioni transattive delle controversie, non può, tuttavia, non essere formulata qualche riserva in merito alle reali possibilità di concreto successo del tentativo di conciliazione condotto dall’arbitro, in quanto appare piuttosto difficile che le parti assumano atteggiamenti totalmente collaborativi ed “aperti” nei confronti di colui il quale sanno che, verosimilmente, diventerà immediatamente dopo il “giudice” della loro diatriba.
Il secondo aspetto procedurale su cui si rivela utile una brevissima riflessione è il seguente: l’articolo 4, comma 10, del contratto collettivo in esame statuisce che “Nel corso della procedura di conciliazione ed arbitrato le parti possono farsi assistere, a proprie spese, da esperti di fiducia…”, esperti che potrebbero essere avvocati, altri professionisti oppure, in ipotesi, anche soggetti indicati dalle associazioni sindacali. Ne consegue che -a differenza di quanto normalmente accade nel giudizio innanzi alla magistratura ordinaria- per i lavoratori dipendenti che siano parti litiganti non vi è l’obbligo di patrocinio legale: tale peculiarità del procedimento arbitrale, grazie al contenimento dei costi di instaurazione della lite che ne consegue, potrebbe risultare rilevante per l’affermazione del meccanismo deflattivo in discorso, anche se la portata della norma pattizia testé illustrata è immediatamente, in parte, attenuata dal fatto che soltanto le indennità spettanti all’arbitro sono liquidate secondo la regola della soccombenza, mentre le spese di difesa restano sempre a carico di colui che le ha sostenute (cfr. articolo 4, commi 10 e 13, CCNQ cit.).
Il terzo elemento sul quale, infine, si richiama l’attenzione è quello che traspare dalla lettura del comma 12 dell’articolo 4 dell’accordo collettivo, in base al quale “Nel giudicare, gli arbitri sono tenuti all’osservanza delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo”. Dalla disposizione si desume che il procedimento delineato dal CCNQ 23 gennaio 2001 ha natura di arbitrato irrituale di diritto: A.R.A.N. e Organizzazioni sindacali stipulanti hanno dunque ritenuto di dover escludere la possibilità di decisioni secondo equità, possibilità che, invece, è stata astrattamente concessa dal legislatore nel momento in cui (con la norma di cui all’articolo 43 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80) ha provveduto all’abrogazione del secondo comma dell’articolo 5 della legge n. 533/1973, già precedentemente citato.
IL PROCEDIMENTO DI CONCILIAZIONE ED ARBITRATO IN SINTESI
L’arbitrato così come è stato introdotto presenta le caratteristiche dell’istituto facoltativo, atteso che la previsione della sua esperibilità fa salva la possibilità alternativa del ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria. Le parti dunque possono concordare di deferire la controversia ad un arbitro unico ( cfr.art. 2 all.1) o, in alternativa, agire in giudizio.Questa regola generale ha una sola eccezione limitata sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo. Infatti, nella circoscritta materia dell’impugnazione delle sanzioni disciplinari e allorchè la sanzione impugnata sia di tipo conservativo, la richiesta di ricorso all’arbitro unico è vincolante per la P.A.. In tale eventualità soltanto il lavoratore, in caso di mancato accordo sulla designazione dell’arbitro, ha facoltà di rinunciare all’espletamento della procedura arbitrale. La designazione per concorde scelta delle parti deve intervenire nell’apposito termine (art. 3, comma 1). In difetto di accordo ciascuna delle parti può revocare il consenso ad attivare la procedura (art. 3, comma 2). Se ciò non accade, se cioè le parti intendono dare comunque corso alla procedura, l’art. 3, comma 2, prevede la possibilità che alla designazione si pervenga mediante sorteggio. La concorde designazione dell’arbitro è libera, nel senso che le parti possono liberamente designare chicchessia a condizione che appartenga "ad una delle categorie di cui all’art. 8 comma 4" (art. 1, penultimo comma, e art. 2). La designazione per sorteggio avviene invece mediante estrazione a sorte nell’ambito dell’apposita lista dei designabili. Le liste saranno istituite su base regionale: una per ciascuna regione (art. 5). Ai sensi dell’art. 3, comma 3,: "ciascuna delle parti può rifiutare l’arbitro sorteggiato, qualora il medesimo abbia rapporti di parentela o affinità entro il quarto grado con l’altra parte o motivi non sindacabili di incompatibilità personale. Un secondo rifiuto consecutivo comporta la rinuncia all’arbitrato, ferma restando la possibilità di adire l’autorità giudiziaria".Una volta intervenuta la designazione, comunque effettuata, le parti, acquisita l’accettazione dell’incarico arbitrale da parte del designato, devono provvedere al deposito del rispettivo atto di accettazione con le modalità e nel termine previsto dall’art. 3, comma 4, "sotto pena di nullità del procedimento". Dalla data di accettazione della designazione decorrono: il termine per il deposito della "documentazione contenente la completa esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa" che deve essere curato dalla parte istante entro il decimo giorno, il termine per il deposito della "memoria difensiva" della parte resistente che deve provvedervi entro il ventesimo giorno ed il termine per lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti davanti all’arbitro che deve aver luogo entro il trentesimo giorno (art. 4, commi 2 e 3). Tale udienza può non coincidere con la prima udienza per la trattazione contenziosa. Non vi coincide allorchè sia necessario che l’arbitro proceda preliminarmente, in funzione di conciliatore, allo svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione non preventivamente espletato. Il tentativo deve esaurirsi entro 10 giorni (art. 4, comma 3). Se la conciliazione riesce, viene redatto il verbale ai sensi dell’art. 411, commi 1 e 3, c.p.c. e la procedura si conclude. Alla conciliazione può pervenirsi anche in adesione alla proposta che l’arbitro, in funzione di conciliatore, è tenuto a formulare, con gli effetti di cui al comma 8 dell’art. 64 del d. leg.vo 165/01[1], in funzione promozionale dell’accordo conciliativo (art. 4, comma 6) non altrimenti raggiunto. Se il tentativo ha esito negativo l’ulteriore corso della procedura è finalizzato alla trattazione contenziosa e, cioè, allo svolgimento del giudizio arbitrale. Allo scopo viene fissata dall’arbitro la prima udienza per la trattazione contenziosa (art. 4, comma 7). Nel corso della procedura arbitrale, l’arbitro può sentire testi e disporre l’esibizione di documenti. Nel giudicare è tenuto all’osservanza delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo (art. 4, comma 12). La decisione arbitrale (lodo) deve essere sottoscritta entro 60 giorni dalla prima udienza di trattazione. Su consenso delle parti è possibile una proroga del termine non superiore a 30 giorni. Il lodo deve essere comunicato con raccomandata a.r. alle parti a cura dell’arbitro entro 10 giorni dalla sua sottoscrizione (art. 4, comma 11). L’inosservanza di tali termini da parte dell’arbitro, per cause a lui imputabili, determina la perdita del diritto all’indennità normalmente spettantegli (art. 4, comma 15). L’impugnazione e l’esecutività del lodo arbitrale sono regolati dall’art. 412 quater c.p.c. il quale prevede che sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale decide, in unico grado, il tribunale in funzione di giudice del lavoro. L’art. 4, comma 9, del CCNQ detta la procedura da applicare in presenza di questioni pregiudiziali concernenti l’efficacia, la validità o l’interpretazione di clausole di contratto o accordo collettivo nazionale. L’arbitro è tenuto ad informarne le parti sospendendo il procedimento. Quest’ultimo si estingue se le parti, entro 10 giorni, non dichiarano per iscritto di rimettere la questione all’arbitro e di accettarne la decisione in via definitiva.