lavoroprevidenza

venerdì 1 luglio 2005

NEL CASO IN CUI IL LAVORATORE SOSTENGA DI ESSERE STATO LICENZIATO VERBALMENTE, CON CONSEGUENTE CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO, INCOMBE ALL’AZIENDA PROVARE CHE IL RECESSO SIA INVECE AVVENUTO PER DIMISSIONI

Casaszione Sezione Lavoro n. 10651 del 20 maggio 2005





NEL CASO IN CUI IL LAVORATORE SOSTENGA DI ESSERE STATO LICENZIATO VERBALMENTE, CON CONSEGUENTE CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO, INCOMBE ALL’AZIENDA PROVARE CHE IL RECESSO SIA INVECE AVVENUTO PER DIMISSIONI – In base all’art. 2697 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 10651 del 20 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti).




Domenico N. ha convenuto in giudizio la società Bosa di B. davanti al Giudice del Lavoro di Catania, sostenendo che, dopo avere lavorato alle dipendenze di tale azienda per circa due anni come operaio verniciatore, era stato licenziato oralmente il 10 marzo; egli ha chiesto la dichiarazione di inefficacia e comunque di illegittimità del licenziamento, con ripristino del rapporto di lavoro e risarcimento del danno. L’azienda si è difesa sostenendo che il rapporto di lavoro era cessato per dimissioni o volontario abbandono del posto da parte del lavoratore. Questi ha fatto presente che due giorni dopo la cessazione del rapporto aveva comunicato, con lettera raccomandata all’azienda “di impugnare a tutti gli effetti di legge il licenziamento in tronco intimatogli senza alcuna comunicazione scritta e senza giusta causa o giustificato motivo il 10 marzo 1997”e aveva chiesto la revoca del licenziamento, senza ricevere alcuna risposta. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Catania hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. La Corte ha rilevato che il lavoratore avrebbe dovuto dare la prova dell’avvenuto licenziamento orale. Domenico N. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte d’Appello di Catania per violazione dell’art. 2 della legge n. 604/66 (obbligo della forma scritta per il licenziamento) e dell’art. 2697 cod. civ. (onere della prova) e rilevando in particolare che: a) nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel rapporto di lavoro è quella della sua estromissione dal rapporto, mentre ricade sul datore di lavoro l’onere probatorio su asserite dimissioni del lavoratore oppure su una risoluzione consensuale del rapporto; b) nel rispetto di questo principio di diritto i giudici di appello dovevano tenere conto che risultava dagli atti di causa in modo netto ed incontroverso che il ricorrente era stato estromesso dal posto di lavoro e non aveva affatto presentato dimissioni; c) in particolare la Corte di Appello non ha tenuto conto che la società resistente, pur avendone l’onere, non ha provato in giudizio – e neanche chiesto di provare – le pretese dimissioni o il presunto volontario abbandono del lavoro; d) i giudici di appello hanno del tutto ignorato la lettera di impugnativa del licenziamento inviata dal ricorrente alla società resistente il 13 marzo (e cioè dopo 2 giorni dal licenziamento) e prodotta tempestivamente in giudizio assieme al ricorso introduttivo.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10651 del 20 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti) ha accolto il ricorso. Come in tutti i rapporti di durata – ha osservato la Corte – anche in quello di lavoro subordinato, la parte è tenuta, ove ne deduca l’estinzione, a dimostrare in conformità al principio relativo alla ripartizione dell’onere probatorio sancito dall’art. 2697 cod. civ., la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione; inoltre, a norma dell’art. 2 della legge n. 604/1966, il licenziamento deve essere intimato per iscritto e la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam. La Corte ha ricordato la giurisprudenza di legittimità secondo cui nell’affrontare il problema dell’onere della prova – allorquando il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni fino alla riammissione in servizio, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza invece di dimissioni del lavoratore – l’indagine del giudice di merito deve essere particolarmente rigorosa, data la rilevanza dell’accertamento rimessogli (incidente su beni giuridici formanti oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento) e tenere adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie significative ai fini in esame, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 cod. civ., relativo alla prova dei fatti costituitivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte, regola che deve ritenersi violata nel caso in esame trattandosi di un rigetto della domanda basato in sostanza sulla valorizzazione dell’ipotesi delle dimissioni del lavoratore, privilegiata solo per la ritenuta insufficienza della prova del licenziamento.
Il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, cod. civ.; segnatamente, ai fini della prova delle dimissioni, va verificato che la dichiarazione o il comportamento cui si intende attribuire il valore negoziale di recesso del lavoratore contenga la manifestazione univoca dell’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che questa volontà sia stata comunicata in modo idoneo alla controparte, considerando – ai fini di tale ultima indagine – che le dimissioni costituiscono un atto a forma libera, a meno che sia convenzionalmente pattuita la forma scritta ad substantiam.
Questo orientamento giurisprudenziale, che si basa su una corretta applicazione dei principi relativi all’applicazione dell’onere probatorio nei rapporti di durata – ha affermato la Corte – non è sostanzialmente contraddetto da decisioni di segno opposto (cioè, che la prova del licenziamento debba essere offerta dal lavoratore) se non riferite a peculiari fattispecie processuali; in ogni caso, anche considerando i cennati “precedenti”, si conferma il summenzionato indirizzo giurisprudenziale di carattere generale sulla distribuzione dell’onere della prova, precisando che la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo (cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro ovvero, più correttamente sotto il profilo terminologico-giuridico, la mancata accettazione, da parte del datore di lavoro, della prestazione lavorativa messagli a disposizione dal lavoratore), mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente-datore di lavoro ex art. 2697, secondo comma, cod. civ..Ciò vale – ha precisato la Corte – specie con riguardo al licenziamento che costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia “subito” il recesso) provare una circostanza attinente la sfera volitiva del recedente; pure sotto tale aspetto, riferito ai principi in materia di recesso – ha concluso la Corte – deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro, sicché – atteso che dalla Corte di Appello di Catania è stato definitivamente accertato (e su tale limitato punto la decisione assunta riveste valore di “giudicato”) che “Domenico N. ha terminato di aver prestato la propria attività lavorativa il 10 marzo 1997” senza che, poi, la società datrice di lavoro abbia provveduto a licenziare per iscritto il lavoratore – la sentenza impugnata deve essere cassata. La Suprema Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Messina.



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