Con la sentenza 4332 del 2005 la Corte di cassazione ha stabilito che, per ragioni di correttezza, il responsabile di un ufficio non può attribuirsi un aumento di stipendio senza consultare preventivamente il suo superiore. La fattispecie sulla quale la corte si è pronunciata riguarda una lavoratrice che è stata licenziata per essersi concessa, approfittando del suo incarico di coordinatrice dell’amministrazione del personale, un incremento del superminimo.
La donna, pur ammettendo di aver sbagliato sul piano formale, non avendo prima consultato il direttore del personale, impugnava il provvedimento dinanzi al tribunale, adducendo che l’aumento le era stato precedentemente concesso dalla società, subordinatamente a condizioni che si erano verificate.
L’azienda ha negato che l’aumento fosse “automatico”, che fossero stati raggiunti gli obiettivi e, soprattutto, che fosse la stessa dipendente a verificarne la sussistenza. Sia in primo che in secondo grado, il Tribunale e la Corte d’appello hanno respinto l’impugnazione proposta dalla lavoratrice.
In particolare, la Corte d’appello ha rilevato che, in base al tenore letterale degli accordi già intervenuti con la società, “l’automatismo” dell’aumento doveva essere escluso. La stessa corte rilevava, inoltre, come proprio in base ai principi di correttezza e buona fede, era escluso che la lavoratrice potesse decidere se gli obiettivi fossero stati o meno raggiunti, senza interpellare il datore di lavoro.
Chiamata in causa, la Corte di cassazione ha rigettato l’impugnazione della donna, ritenendo condivisibile il principio in base al quale il lavoratore non può utilizzare le posizioni di responsabilità di cui è investito nell’ambito aziendale per autotutelare un proprio preteso diritto di natura patrimoniale, senza rendere edotta la controparte di tale iniziativa.
Questo vale, a maggior ragione, quando tale omissione non derivi da una “mera trascuratezza”, ma dipenda “dal timore di esporsi al diniego della controparte”. In sostanza, per la Corte, il comportamento della lavoratrice costituisce un grave inadempimento degli obblighi a cui è tenuta per via della sua posizione di responsabilità nella realtà aziendale, insieme alla violazione dell’obbligo di “protezione” del datore di lavoro, che grava sul lavoratore in base al principio di correttezza.
Per la Cassazione, quindi, la lavoratrice si era attribuito un aumento utilizzando una posizione che di fatto le consentiva di farlo. Vi è stato un inadempimento, sostiene la Corte, dal momento “a nessuno è consentito attribuire un incremento retributivo non concordato” o di cui non vi siano i presupposti.
Il comportamento, in seconda istanza, andava a violare il dovere di correttezza, dovere che costituisce una componente ineludibile del rapporto di lavoro, nel senso che il prestatore di lavoro deve astenersi dal tenere condotte che possano arrecare danno al datore di lavoro.
Con la sentenza 4332 del 2005 la Corte di cassazione ha stabilito che, per ragioni di correttezza, il responsabile di un ufficio non può attribuirsi un aumento di stipendio senza consultare preventivamente il suo superiore. La fattispecie sulla quale la corte si è pronunciata riguarda una lavoratrice che è stata licenziata per essersi concessa, approfittando del suo incarico di coordinatrice dell’amministrazione del personale, un incremento del superminimo.
La donna, pur ammettendo di aver sbagliato sul piano formale, non avendo prima consultato il direttore del personale, impugnava il provvedimento dinanzi al tribunale, adducendo che l’aumento le era stato precedentemente concesso dalla società, subordinatamente a condizioni che si erano verificate.
L’azienda ha negato che l’aumento fosse “automatico”, che fossero stati raggiunti gli obiettivi e, soprattutto, che fosse la stessa dipendente a verificarne la sussistenza. Sia in primo che in secondo grado, il Tribunale e la Corte d’appello hanno respinto l’impugnazione proposta dalla lavoratrice.
In particolare, la Corte d’appello ha rilevato che, in base al tenore letterale degli accordi già intervenuti con la società, “l’automatismo” dell’aumento doveva essere escluso. La stessa corte rilevava, inoltre, come proprio in base ai principi di correttezza e buona fede, era escluso che la lavoratrice potesse decidere se gli obiettivi fossero stati o meno raggiunti, senza interpellare il datore di lavoro.
Chiamata in causa, la Corte di cassazione ha rigettato l’impugnazione della donna, ritenendo condivisibile il principio in base al quale il lavoratore non può utilizzare le posizioni di responsabilità di cui è investito nell’ambito aziendale per autotutelare un proprio preteso diritto di natura patrimoniale, senza rendere edotta la controparte di tale iniziativa.
Questo vale, a maggior ragione, quando tale omissione non derivi da una “mera trascuratezza”, ma dipenda “dal timore di esporsi al diniego della controparte”. In sostanza, per la Corte, il comportamento della lavoratrice costituisce un grave inadempimento degli obblighi a cui è tenuta per via della sua posizione di responsabilità nella realtà aziendale, insieme alla violazione dell’obbligo di “protezione” del datore di lavoro, che grava sul lavoratore in base al principio di correttezza.
Per la Cassazione, quindi, la lavoratrice si era attribuito un aumento utilizzando una posizione che di fatto le consentiva di farlo. Vi è stato un inadempimento, sostiene la Corte, dal momento “a nessuno è consentito attribuire un incremento retributivo non concordato” o di cui non vi siano i presupposti.
Il comportamento, in seconda istanza, andava a violare il dovere di correttezza, dovere che costituisce una componente ineludibile del rapporto di lavoro, nel senso che il prestatore di lavoro deve astenersi dal tenere condotte che possano arrecare danno al datore di lavoro.