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La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 6326 del 23 marzo 2005 ha ammesso la contestazione anche retroattiva del mobbing, che puo’ essere fatto valere anche nel corso del giudizio.
Nel caso in esame il lavoratore, nell’atto introduttivo del giudizio, non ha ricondotto esplicitamente il comportamento del datore di lavoro alle fattispecie di mobbing, e tuttavia questo puo’ comunque essere rilevato dal giudice. In particolare quando, come nel caso esaminato, il dipendente ha posto la lesione della sua integrità psicofisica in relazione non solo al demansionamento, ma al “ globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”.
Il concetto di mobbing, all’epoca della sentenza impugnata, aveva una valenza meta-giuridica senza un riconoscimento di natura giuridica.
Il mobbing era stato preso in considerazione solo dopo il deposito della sentenza impugnata da un istituto di credito, avente ad oggetto il riconoscimento del danno subito da un dipendente per dequalificazione e comportamenti vessatori da parte dei colleghi, tollerati dall’azienda.
La mancanza di una specifica disciplina normativa di rango primario non puo’ comunque oscurare l’inserimento del mobbing nel Piano sanitario nazionale 2003-2005 e, per quanto riguarda gli atti comunitari, nella risoluzione del Parlamento europeo con la quale si invitava la Commissione ad estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro al fine di combattere il fenomeno delle molestie
Cassazione, sezione lavoro, 23 marzo 2005 n. 6326 – Pres. Mattone – Rel. Figurelli –
Banco Popolare di Verona e Novara, soc. cooperativa a r.l. e Banca Popolare di Novara
SpA (avv. M. e G. Contaldi) c. L.A (non costituito).
Prospettazione nel ricorso introduttivo di danni risarcibili per effetto di
demansionamento e di un globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro -
Qualificazione successiva quali danni da mobbing - Non costituisce domanda nuova -
Legittimità - Spetta, infatti e comunque, al giudice la qualificazione giuridica della
natura dei danni.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.1. Con ricorso depositato il 21 giugno 2000 il signor L.A. proponeva appello avverso la
sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Roma in data 4 febbraio 2000 n. 7106/2000,
con cui, in parziale accoglimento della domanda proposta nei confronti della Banca Popolare di
Novara, era stata dichiarata la sua illegittima adibizione a mansioni, inferiori a quelle
originariamente svolte, dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998, con condanna della resistente
a risarcire nei suoi confronti il danno liquidato, in via equitativa, in misura pari al 30% del
trattamento economico corrisposto nello stesso periodo, oltre accessori, e rigettata la domanda
di risarcimento del danno biologico e quella volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità delle
note caratteristiche del 1996. Deduceva, al riguardo, che, a seguito di incorporazione dell INCE
nella banca resistente, il 12 dicembre 1995 era divenuto dipendente della società convenuta e
che, dopo aver avuto dei buoni giudizi per gli anni 1991-1995 (culminati nel 1994 e 1995 in
distinto), aveva ricevuto, per l’anno 1996, il giudizio di mediocre. Deduceva, altresì, che, per
quasi quattro anni, era stato adibito a mansioni dequalificanti, rispetto a quelle originarie.
Censurava l impugnata sentenza in ordine alla quantificazione del danno professionale - non
avendo il primo giudice tenuto debitamente conto del demansionamento subito, sia sotto il
profilo quantitativo che qualitativo -, al mancato riconoscimento del danno biologico ed al
rigetto della domanda concernente le note caratteristiche per il 1996.
Concludeva: a) in via preliminare per la revoca dell ordinanza del giudice di primo grado in data
29 ottobre 1999, con la quale era stato dichiarato inammissibile il deposito dei documenti allegati
alla memoria depositata nella data predetta (e venuti ad esistenza dopo l inizio della causa), in
quanto portatori di una domanda nuova nel presente giudizio, e con la quale era stata negata
l ammissione della CTU sulla persona del ricorrente al fine di quantificare il danno biologico;
b) nel merito, "condannare la BPN a risarcire il danno professionale da dequalificazione per
illegittimo esercizio dello "jus variandi, derivato al dipendente L. dall illegittima assegnazione a
mansioni inferiori, da liquidarsi in misura non inferiore ad una mensilità di retribuzione,
calcolata al lordo, per ogni mese di declassamento (dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998,
giorno di effettiva reintegra in posizione equivalente), oltre interessi e rivalutazione calcolati sul
periodo considerato; condannare la B.P.N. al risarcimento del danno biologico e del danno
psichico derivato al ricorrente per stato ansioso depressivo insorto nel 1994, sovrapponibile al
codice 300.40 del DSM III-R con complicazioni ansiose, danno da determinarsi in via equitativa
e comunque in misura non inferiore a lire 50.000.000; accertare e dichiarare la illegittimità
delle note caratteristiche espresse dalla società per l anno 1996 e, conseguentemente, revocare
il provvedimento ordinando la ripetizione del procedimento di valutazione, con vittoria di
entrambi i gradi del giudizio.
L appellata chiedeva il rigetto dell appello di controparte e proponeva a sua volta appello
incidentale, volto al rigetto integrale anche della domanda di risarcimento del danno da
dequalificazione.
1.2.1. Con sentenza in data 4 aprile 2002 - 14 aprile 2003 la Corte d Appello di Roma, non
definitivamente pronunciando, in accoglimento per quanto di ragione dell appello principale e,
così, in riforma della sentenza gravata, condannava la Banca Popolare di Novara al risarcimento
del danno da dequalificazione professionale cagionato all appellante in misura pari al 50% -
anziché al 30%, come statuito in I grado - del trattamento economico corrisposto per il periodo
20 gennaio 1994 - 12 gennaio 1998, oltre ad interessi dalle scadenze al soddisfo e rivalutazione
dalle scadenze "ad oggi", così assorbito l appello incidentale; dichiarava la nullità delle note
caratteristiche relative al ricorrente per l’anno 1996, e disponeva con separata ordinanza in
ordine alla prosecuzione del giudizio.
1.2.2. Osservava la Corte territoriale:
a) Il motivo di appello principale relativo alla quantificazione del danno da demansionamento e
l appello incidentale, volto alla sua esclusione, andavano esaminati congiuntamente.
b) La sentenza impugnata aveva accertato l avvenuta adibizione a mansioni inferiori del L. per il
periodo "de quo" (successivamente al quale il lavoratore era stato assegnato all Ufficio Servizi
Contabili, con mansioni pacificamente corrispondenti a quelle in precedenza svolte), sulla base
dell espletata istruzione.
c) Tale accertamento non meritava censura, poiché era emerso che il lavoratore, assunto
dall I.N.C.E. nel giugno del 1991, con contratto di formazione e lavoro, aveva svolto la sua
attività fino al giugno del 1993 presso l Ufficio Sistemi Informatici, provvedendo alla
registrazione informatica di dati, alla predisposizione di prospetti e tabulati e, successivamente
al giugno 1993, presso l Ufficio Ragioneria, dove si occupava dell inserimento dei dati relativi al
pagamento delle rate di mutuo da parte della clientela, dei censimenti anagrafici, del rilascio
delle informazioni contabili, relative alla istruttoria delle pratiche dei clienti mutuatari (teste T.).
d) A partire dal gennaio 1994, e per circa quattro anni, fu destinato, invece, all Ufficio Corriere,
dove la sua scrivania "era completamente sgombra"(teste C.). La sua attività consisteva, in
mancanza di altri colleghi, nell apertura e timbratura e successivo smistamento della
corrispondenza in arrivo, cui fu aggiunta successivamente quella di prelievo pratiche
dall archivio e fotocopiatura dei documenti (testi M. e C.).
e) Trattavasi di mansioni meramente esecutive, sicuramente deteriori rispetto a quelle svolte in
precedenza, e non corrispondenti ali inquadramento contrattuale del L. (impiegato di 1^
categoria), sia che si rapportassero con quelle svolte presso l Ufficio Sistemi Informatici, sia che
si rapportassero con quelle espletate presso l Ufficio Ragioneria.
f) Il demansionamento, come accertato all esito dell’istruttoria e rimarcato dal lavoratore in
sede di gravame, aveva avuto sia carattere qualitativo (mansioni inferiori) che quantitativo,
essendo emerso che l appellante era rimasto di fatto senza alcuna mansione, provvedendo alla
sostituzione dei colleghi in caso di assenza.
g) Come affermato dalla Corte di Cassazione, il disposto dell’art. 2103 c.c., concernente il
diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni corrispondenti alla propria qualifica, è
violato, non soltanto quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori, ma anche quando
veda modificate le proprie mansioni con una imponente riduzione in termini quantitativi delle
stesse (Cass. n. 10405/95).
h) A fronte di tali risultanze, la Banca Popolare di Novara s.c. a r.l. (di seguito indicata, per
brevità, quale BPN) - oltre a ribadire la sostanziale equivalenza delle mansioni - sosteneva da
un lato che il mutamento nell ufficio di assegnazione del lavoratore era stato comunque
determinato da una "situazione di crisi", dall altro che era stato lo stesso L. a richiedere lo
spostamento all Ufficio Protocollo.
Tali contraddittorie deduzioni erano comunque prive di pregio: esclusa l equivalenza delle
mansioni (quelle da ultimo svolte non comportanti attività di concetto e di applicazione
intellettuale), la dedotta "situazione di crisi" non aveva, invece, influenzato la posizione
lavorativa di altri dipendenti (teste C. ), che avevano continuato a svolgere le stesse mansioni
svolte in precedenza, mentre le mansioni svolte in precedenza dal L. erano state poi assegnate
ad altro dipendente. Quanto alla richiesta di trasferimento da parte del L. - peraltro non
espressamente indirizzata verso l ufficio di nuova assegnazione -, essa non avrebbe certamente
giustificato l adibizione a mansioni inferiori.
i) Alla luce di tali risultanze, il risarcimento, così come limitato nella sentenza impugnata al 30%
della retribuzione, appariva non integralmente satisfattivo delle lagnanze del lavoratore e,
stante la necessità di una valutazione equitativa ed onnicomprensiva del danno risarcibile,
tenuto conto del periodo in cui si era protratta la lamentata situazione di illegittimità (circa
quattro anni) e di tutte le circostanze del caso, esso andava riconosciuto nella più congrua
maggior misura del 50% della retribuzione per il corrispondente periodo.
l) L impugnata sentenza aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, per
mancanza di prova del nesso di causalità fra la dedotta patologia ansioso-depressiva ed il
demansionamento. Tale impostazione non era condivisibile, avendo il lavoratore, nell atto
introduttivo del giudizio, posto la lesione alla sua integrità psico-fisica in relazione non solo al
subito demansionamento, ma al "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro"
(pag. 14), e segnalato una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo,
che avrebbero contribuito a determinare l insorgere della denunciata patologia.
m) Anche se la qualificazione di detto "comportamento globale" quale "mobbing" era successiva
all introduzione del giudizio, non trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di
"mobbing" aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione
normativa. Fermo restando l approfondimento di tale tematica in sede di pronuncia definitiva,
gli episodi denunciati erano stati sostanzialmente confermati nel corso dell espletata istruttoria,
da cui era emersa una situazione lavorativa per il L. quanto mai difficile, in quanto i rapporti
personali con gli altri dipendenti erano diventati "particolarmente tesi" (teste S.) ed il lavoratore
era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitisi nel tempo
e di cui era "certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò
perché cessassero" (teste C. ).
n) Andava quindi ammessa, sul punto, la richiesta CTU medico-legale, essendo la situazione
lavorativa del L. astrattamente idonea a determinare l insorgere della patologia di cui trattavasi.
All uopo andava disposta l acquisizione dei documenti di cui al verbale di udienza del
29.10.1999 - non ammessi dal primo giudice -, trattandosi di documenti successivi ( o
comunque successivamente venuti in possesso dell appellante) all introduzione del giudizio.
o) Quanto al motivo di appello, relativo alle note di qualifica per il 1996, l appellante aveva
dedotto, al riguardo, che il giudice avrebbe dovuto sindacare la legittimità dei criteri adottati
nella fattispecie in esame, perché non attinenti esclusivamente alle specifiche qualità di
prestatore d opera -bensì relativi alla disamina di motivi inerenti la sfera privata, quali i rapporti
con i colleghi, l atteggiamento verso il proprio lavoro -, e perché il datore dì lavoro aveva fatto
riferimento a categorie, quali i già richiamati rapporti con i colleghi, nonché al comportamento e
senso di responsabilità, che non attengono alla prestazione, ma alla persona.
Premesso che la valutazione espressa dal datore di lavoro, all atto della formazione delle note di
qualifica, è una prerogativa di potere - connotata da una larga disponibilità discrezionale -, che
caratterizza la figura dell imprenditore nell ambito del rapporto di lavoro, sta di fatto che
l esercizio di tale potere imprenditoriale è assoggettato alle regole generali di correttezza e
buona fede, fissate dagli artt. 1175 e 1375 c.c., di modo che i dipendenti possano controllare
l attività dell imprenditore, relativa allo svolgimento del rapporto di lavoro, provocando il
sindacato giurisdizionale sull osservanza di quelle regole fissate dall ordinamento. Nella
fattispecie in esame detti principi erano stati violati, atteso che la valutazione espressa con le
note di qualifica non era improntata ad un obiettivo apprezzamento qualitativo e - per quanto
emergeva "ex actis"- era stata espressamente adottata per ragioni attinenti non alle qualità
lavorative del L. (e, in ogni caso, la valutazione era stata comunque falsata dal fatto di riferirsi
alle mansioni "dequalificanti" svolte nel corso del 1996 e non a quelle proprie della rivestita
qualifica).
Si leggeva, infatti, nella motivazione del Comitato di valutazione: "...il signor L. è stato invitato
ad assumere questa valutazione come elemento di reciproca utilità per migliorare la prestazione
lavorativa, evidenziando il fatto che le ansie che esprime, al di là dei motivi delle stesse,
possono avere influenze negative".
Ciò esauriva la controversia sul punto, dovendosi escludere "in nuce" che la valutazione
contestata fosse stata "ancorata a dei criteri chiari e trasparenti, ed immune da qualsiasi
censura", come affermato dal Tribunale.
"Ad abundantiam" non erano condivisibili le osservazioni della società, secondo cui il giudizio
"de quo" sarebbe stato determinato dal mutamento della metodologia di valutazione.
Pur, infatti, a fronte di un "generale abbassamento dei giudizi espressi in relazione alla
generalità dei dipendenti" (teste P.), il giudizio assegnato al L., senza apparente motivazione,
era stato inferiore di ben tre
livelli di voto su sei (da distinto a mediocre) ed era stato l’unico - fatta eccezione per un altra
dipendente poi licenziata per giusta causa -.
In riforma della sentenza gravata, pertanto, le note caratteristiche espresse dalla società nei
confronti del L. per l anno 1996 andavano annullate, essendo, al giudice investito della relativa
controversia, concesso solo tale potere, con esclusione di quello relativo all attribuzione di una
diversa qualifica, ritenuta conforme alla situazione accertata.
1.3. Avverso detta sentenza le società indicate in epigrafe hanno proposto ricorso per
cassazione, affidato a 5 motivi, e depositato memoria ex art.378 c.p.c. L intimato L. non si è
costituito in giudizio, ed ha depositato istanza per una sollecita decisione della causa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1.Con il primo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2095 e 2103
c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria
motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, le società ricorrenti richiamata la
motivazione della sentenza impugnata, di cui sub 1.2.2.e) della narrativa della presente
sentenza, deducono che - come già riconosciuto dal 1° giudice - la c.d. prima categoria
impiegatizia definisce un quadro del tutto generico e prossimo a quello iniziale, cioè a quello di
impiegato di seconda categoria, per cui la qualifica assegnata al L. si collocava "come del tutto
prossimale alla stessa"; che l attività del L. indicata al punto 1.2.2.d) della presente sentenza,
di smistamento della corrispondenza, realizzava funzione di concetto, in quanto nessun altro
ufficio curava l arrivo dei pieghi nel giusto luogo di destinazione, ed a tale attività era adibito
l Ufficio Protocollo (c.d. "corriere"), appositamente concepito, come risultava dalle deposizioni
dei testi C. , T. , M., C. ; che, in altre parole, si trattava di individuare il contenuto della
corrispondenza, di selezionarla in ragione di detto suo contenuto e di inviarla all impiegato o alla
funzione appropriata (servizio legale, ufficio tecnico, servizi di accensione delle ipoteche), tutti
compiti di sintesi, basati su una chiara visione del modo di maturarsi delle pratiche e, in più, vi
erano compiti di addestramento nei confronti di personale meno esperto; che con ciò si voleva
individuare quell indice di "sviamento del potere", preso in considerazione dai criteri
coinvolgenti la struttura motivazionale della sentenza, tenuto anche conto che l ufficio era
composto oltre che da un capo reparto, da due impiegati di prima categoria e da due di seconda
- troppi per svolgere un compito meramente esecutivo -, ed il capo reparto e l altro impiegato
di prima categoria non si erano mai sentiti sminuiti, nella loro professionalità, per le mansioni
loro affidate; che, in definitiva, sussistevano palesi indici di insufficiente motivazione in ordine
alla valutatone delle prove ed all attribuzione di carattere meramente esecutivo delle prestazioni
espletate dal L. - che svolgeva, comunque, mansioni di carattere impiegatizio, e doveva
escludersi un intento di demansionamento ascrivibile alla parte datoriale; che la Corte non
aveva valutato la rispondenza di detti compiti allo svolgimento delle corrispondenti mansioni
dell impiegato.
1.2. Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha accertato il "demansionamento" del L. rispetto alle precedenti mansioni.
Trattasi di giudizio di fatto, congruamente e logicamente motivato.
Le ricorrenti, comunque, non precisano neppure - sebbene deducano la prossimità" tra la 1^ e
la 2^ categoria - quali siano i diversi profili delle categorie stesse. E, in relazione a ciò, la
censura presenta aspetti di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza del
ricorso. Comunque, indipendentemente dalle mansioni corrispondenti alla qualifica, lo "jus
variandi" del datore di lavoro non può attribuire mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte
dal lavoratore, e ciò è, invece, avvenuto, come, nella specie, accertato nella sentenza
impugnata. La equivalenza dette mansioni, che condiziona la legittimità dell esercizio dello "ius
variandi", a norma dell art. 2103 cod. civ. - e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto
(nella specie, come si è detto, congruamente e logicamente motivato dalla Corte di Appello, e
pertanto incensurabile in cassazione) - va verificata, infatti, sia sul piano oggettivo, e cioè sotto
il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di
quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due
mansioni siano "professionalmente affini", nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità
professionali già acquisite dall interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori
affinamenti e sviluppi (Cass. n. 11457/2000).
2.1. Con il secondo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2095 e
2103 c.c., in relazione anche all art. 1218 c.c., e degli artt. 2082 e 2086 c.c. (art, 360 n. 3
c.p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a
punti decisivi della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.), le società ricorrenti, richiamata la
motivazione della sentenza impugnata, di cui ai punti 1.2.2.f) e g), cioè demansionamento del
lavoratore sia qualitativo che quantitativo, deducono che sussisteva profondo stato di crisi
incidente sull ex INCE, per la crisi del sistema bancario, seguita da drastiche cure dimagranti,
nell ultimo decennio - stato di crisi verificatosi anche per la B.P.N., confermato dalla fusione
dell INCE nella B.P.N., cui aveva fatto poi seguito la successiva analoga operazione, che aveva
coinvolto quella che a suo tempo era stata l’incorporante -; che i testi S. e M., proprio con
riferimento al numero dei "plichi in arrivo", avevano precisato che da un giro di trenta-quaranta
pratiche "pro die" si era giunti a livello zero - non solo, dunque, diminuzione di incarichi, ma
azzeramento pure dei pieghi postali -; che la situazione dimostrava il crollo dell attività e
l impegno della parte datoriale -INCE - nel mantenere integro il posto di lavoro a favore di tutti i
collaboratori, per evitare sfoltimenti selvaggi; che non andavano quindi imposte soluzioni rigide,
ove non oggettivamente attuabili, ed andava negata la responsabilità datoriale, ove risultasse
accertato che alcune opzioni concrete non dipendevano da colpa del datore di lavoro - in tal
senso andavano intese Cass. nn. 12692/2002, 11624/2002, 9852/2002, che rispondevano ad
orientamenti equilibrati e funzionali per trovare il punto di equilibrio tra i diversi diritti -; che le
riduzioni dell attività lavorativa erano state imposte dal momento economico o dalla situazione
di crisi, e, sul punto, i responsabili della struttura avevano attestato che, per tempi assai
consistenti, le sopravvenienze commerciali erano scese a livello zero; che, in tale ottica,
l orientamento della Corte territoriale non era giustificato e corretto, allorché aveva addebitato
alla parte datoriale un decremento dell attività lavorativa, trascurando l indagine sulla
sussistenza della crisi - emergente dalle deposizioni testimoniali, anche di parte attrice, e dalle
scelte d impresa (incorporazioni) - e che, per l effetto delle circostanze, il lavoro poteva ridursi
anche "a macchia di leopardo" (e tanto veniva dedotto dalle ricorrenti in relazione alla
motivazione della sentenza impugnata, di cui ai punti sub 1.2.2. g) e h); che la Corte
territoriale non aveva accertato se la minor quantificazione della prestazione fosse giustificabile
rispetto alto stato dell impresa.
2.2. Il motivo è infondato. La Corte territoriale ha, invero, accertato che al posto del L. era
stato assegnato altro lavoratore.
Gli argomenti addotti dalle ricorrenti sono, comunque, generici - e, in quanto tali, inammissibili
- e non escludono, peraltro, l’illegittimità del "demansionamento", ravvisato dalla Corte
territoriale.
3.1. Con il terzo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 163, 414 e
112 c.p.c. (art 360 n. 4 c.p.c.), le società ricorrenti, richiamata la motivazione della sentenza
impugnata, di cui al punto 1.2.2.d), deducono che l affermazione contrasta con quanto esposto
nel ricorso introduttivo del L. , giusta il quale egli sarebbe stato assegnato al medesimo "ufficio
corriere" nel 1995 e quivi sarebbe rimasto fino ai primi di gennaio del 1998; che sul punto
specifico (periodo di assegnazione a quello ufficio) non erano insorte contestazioni e non era
stata espletata alcuna diversificante istruttoria; che alla pag. 7 di detto ricorso poteva invero
leggersi che, dopo il giugno 1995, il L. aveva "svolto.... e svolge tuttora (siamo al 1996) i propri
compiti presso l ufficio protocollo" (o "corriere", che dir si voglia) - si trattava dunque di vizio di
motivazione e violazione del disposto dell art. 112 c.p.c.-.
3.2. Il motivo è infondato.
Si tratta di un motivo inammissibile, a fronte di congrua e logica motivazione della Corte
territoriale, che ha preso atto (v. in narrativa, al punto 1.1.) che il primo giudice aveva
accertato e dichiarato la illegittima adibizione del L. a mansioni, inferiori a quelle
originariamente svolte, "dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998” e ha altresì accertato (punto
1.2.2.d) che, "a partire dal gennaio 1994 e per circa quattro anni" il L. "fu destinato, invece,
all Ufficio Corriere, dove la sua scrivania era completamente sgombra (teste C.)".
Le stesse ricorrenti, poi, deducono che sul punto specifico - periodo di assegnazione del L.
all Ufficio protocollo - "non erano insorte contestazioni", né deducono di aver in precedenza
sollevato la questione - a seguito della pronuncia del Tribunale - e denunziato la violazione
dell art. 112 c.p.c.
Ma è, comunque, decisivo il fatto che, contraddicendo quanto dedotto con la presente censura
(pagg. 28 e s. del ricorso), nel trattare il quarto motivo, a pag. 35 del ricorso, le ricorrenti
espressamente "ammettono" che gli "eventi" si sono verificati dopo il 20 gennaio 1994, allorché
erano cessate le prestazioni del L. presso l Ufficio Ragioneria "per effetto di migrazione verso
l Ufficio Protocollo".
4.1. Con il quarto motivo, denunziando violazione e o falsa applicazione degli artt. 163, 414 e
112 c.p.c., nonché degli artt. 188, 189 e 190 c.p.c., e degli artt. 420 e 345 c.p.c. (art. 360 a 4
c.p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a
punti decisivi della controversia (art 360 n. 5 c.p.c.), le società ricorrenti deducono che,
modificando le opzioni del primo giudice, i giudici di appello hanno ritenuto ammissibile una
CTU, non ammessa dal primo giudice (pag. 7 sentenza impugnata); che si tratta di
determinazione, che va attentamente sceverata sul piano processuale, anche per definire le
componenti dell accertamento, eventualmente caratterizzabili come "sentenza", dalle altre
confinabili in un assetto di "ordinanza" ( e che, secondo tale qualificazione, non sarebbero
attualmente neppure suscettibili di impugnazione); che il capo di pronunzia gravato "potrebbe"
avere natura di sentenza, laddove nega la ragione di inammissibilità individuata dal primo
giudice (novità della domanda), e "sembra" rivestire l assetto di ordinanza, allorché si sofferma
a discorrere del nesso di causalità e della eventuale responsabilità della parte datoriale, e ciò
anche per la riserva contenuta nella motivazione - "fermo restando l’approfondimento di tale
tematica in sede di pronunzia definitiva"-; che è, infine, decisamente ordinanza la
determinazione della Corte territoriale, laddove dispone per la CTU (Cass. n. 1503/2001); che,
ad ogni modo - e pur nella consapevolezza della temporanea "limitabilità" dell impugnazione,
nei sensi sopraddetti -, vengono impugnate le diverse proposizioni contenute alla pag. 7 della
sentenza.
4.2. Sulla esclusione della qualificazione del "mobbing" quale domanda nuova da parte della
Corte territoriale, e sulla eventuale responsabilità della parte datoriale in ordine allo stesso, di
cui alla motivazione della sentenza impugnata - v. punto 1.2.2.m) della narrativa della presente
sentenza -, le ricorrenti deducono che esattamente il primo giudice aveva ritenuto
improponibile la domanda, come prospettata al momento della decisione, non per mere ragioni
"nominalistiche", ma per più complesse ragioni sostanziali, in quanto l oggetto della domanda,
quale prospettato dal L. nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, era ben definito -
nella conclusione d) a pag. 16 del ricorso -, nel senso della richiesta di condanna della BPN "al
risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al ricorrente per stato
ansioso/depressivo insorto nel 1994..."; che la domanda formulata con detto ricorso, depositato
nel giugno del 1996, non contemplava e non poteva contemplare fatti successivi al tempo del
deposito; che ciò che configura il "mobbing" non è solo l individualità degli episodi, ma la loro
considerazione finalistica, che finisce per farne una categoria separata, caratterizzata nel senso
di comportamenti compositi unificabili e “finalizzati”, laddove, nel ricorso introduttivo (pagg. 12
e 13) era stata solo denunciata "un illegittima mutatio in pejus delle mansioni del L., in
violazione del divieto di cui all’art. 2103 c.c., con il demansionamento del lavoratore; che certa
era la novità della domanda "per la diversa qualificazione del fatto giuridico posto a suo
fondamento"; che era rilevante la circostanza che, di fronte ad un azione risarcitoria, in
concreto esercitata, l indagine era stata rivolta a comportamenti considerati singolarmente,
mentre, in ipotesi di "mobbing", la rilevanza "andrebbe assegnata alle classi comportamentali e
non ai singoli episodi"; che erroneamente, pertanto, la Corte territoriale - contrariamente al
primo giudice - aveva escluso che si trattasse di domanda nuova.
4.3. In ordine all ammissione della CTU medico legale - di cui al punto 1.2.2.n) della narrativa
della presente sentenza -, le società ricorrenti deducono che mancava, nella sentenza
impugnata, ogni discussione ed ogni accertamento sui singoli episodi (non si identificava il tipo
di azione proposta e non si configurava, in funzione di questa, la fonte della responsabilità della
parte datoriale), laddove era solo indicato quanto riportato al punto 1.2.2.m), relativamente
alla situazione lavorativa "quanto mai difficile" per il L., in relazione agli episodi di "mobbing",
neppure contrastati dal capo contabile della ragioneria; che la difficile situazione lavorativa del
L. esprimeva un concetto ben diverso rispetto alla configurazione di un "mobbing"; che la
motivazione fornita era quella tipica di un mezzo istruttorio, che non poteva in alcun modo
comportare un accertamento definitivo, atto alla formazione di un giudicato; che l unico
elemento rivolto verso la parte datoriale sembrava fondato sulla consapevolezza della
situazione da parte di un capo contabile della ragioneria, che non si sarebbe adoperato per la
cessazione di alcuni scherzi, ma i fatti si sarebbero verificati dopo il 20 gennaio 1994, allorché
le prestazioni del L. presso l Ufficio Ragioneria erano cessate, per effetto del trasferimento del
medesimo all Ufficio Protocollo, con la conseguenza che detto capo contabile del Servizio di
Ragioneria - "con un grado di un certo rilievo" - non era più un superiore del L., e non era,
pertanto, tenuto ad assumere alcuna iniziativa nei confronti di detto lavoratore; che,
comunque, l eventuale comportamento emissivo del capo contabile non era atto a coinvolgere
la parte datoriale.
4.4.1. In ordine alla censura relativa all ammissione di CTU, la statuizione ha effettivamente
natura di ordinanza, e come tale non impugnabile con ricorso per cassazione. E , pertanto, in
conseguenza, inammissibile la relativa censura, proposta tuzioristicamente dalle ricorrenti. Ha
invece natura di sentenza, come indicato successivamente, la statuizione della Corte relativa al
"nesso di causalità" ed alla "responsabilità della parte datoriale", in ordine alla domanda di
risarcimento del danno dovuto a comportamento integrante "mobbing".
4.4.2. In ordine alla dedotta novità della domanda relativa al "mobbing" - rilevato che, come è
pacifico, la diversa qualificazione del fatto giuridico non comporta "domanda nuova" - si osserva
che la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha innanzi tutto, evidenziato (v., in
narrativa, punto 1.2.2.lett.l) che il lavoratore , nell atto introduttivo dei giudizio, ha posto la
lesione della sua integrità psico-fisica in relazione non solo al subito demansionamento, ma al
"globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro" (pag. 14).
E, successivamente (punto 1.2.2.m), ha evidenziato che anche se la qualificazione di detto
"comportamento globale", quale "mobbing" era successiva alla introduzione del giudizio, non
trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di "mobbing" aveva carattere
metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa.
Deve, peraltro, al riguardo, precisarsi che, successivamente alla sentenza impugnata
(pronunziata il 4.4.2002 e depositata il 14.3.2003), come evidenziato dalla sentenza della Corte
Costituzionale in data 19 dicembre 2003, n. 359 - pur in assenza di una specifica disciplina a
livello di normazione di rango primario - per quel che riguarda gli atti interni statali,
l inserimento del mobbing trova conferma sia nel punto 4.9 del d.P.R. 22 maggio 2003, con il
quale è stato approvato il Piano sanitario nazionale 2003-2005, sia nel punto BS11 della
delibera, sempre del 22 maggio 2003, contenente l accordo tra il Ministro della Salute, le
regioni e le province autonome sul "bando di ricerca finalizzata per l’anno 2003 per i progetti ex
art. 12-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502". Ma già, in precedenza, per quel che riguarda
gli atti comunitari, la risoluzione del Parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre
2001, avente ad oggetto "Mobbing sul posto di lavoro", al punto 13, esortava la Commissione
ad "esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva
quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro,
come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie.
E la richiamata sentenza del giudice di legittimità delle leggi - dopo aver osservato che la
giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di "mobbing" nella
previsione dell ari. 2087 c.c. (v., in tema, Cass. n. 143/2000, in motiv.) - ha affermato che "la
disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli
effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell ordinamento civile (art. 117, co. 2, Cost.) e,
comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti
fondamentali del lavoratore (arti. 2 e 3, co. 1, Cost.)".
4.4.3. Sul "nesso causale" e sulla “responsabilità datoriale” il provvedimento impugnato, come
si è già anticipato, ha - contrariamente a quanto assumono le ricorrenti - che, comunque,
hanno tuzioristicamente impugnato la relativa statuizione - natura di "sentenza", peraltro, con
le precisazioni di seguito indicate, con riferimento al “nesso causale”.
Non vi è dubbio che la Corte territoriale ha accertato e dichiarato che era stato posta in essere
una condotta, imputabile all azienda, che era elemento costitutivo della fattispecie del
"mobbing".
Il giudice del merito ha, infatti accertato non solo il "demansionamento" del L. , ma che vi era
stato un "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro", consistito in una serie di
comportamenti ed episodi, verificatisi nell ambito lavorativo, denunziati e sostanzialmente
confermati nel corso dell istruttoria espletata. Da questa era emersa - come indicato in
narrativa (punto 1.2.2,m) - una situazione lavorativa per il L. quanto mai difficile, in quanto i
rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati "particolarmente tesi" - come riferito
dal teste S. -, ed il lavoratore era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo,
via via appesantitisi nel tempo e di cui era "certamente a conoscenza il capo contabile della
ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero" - come riferito dal teste C.
A fronte di tali precise risultanze probatorie, evidenziate nella sentenza sono del tutto
inconsistenti i rilievi delle ricorrenti, che, nel dedurre, come già in precedenza indicato, che "gli
eventi si sono comunque verificati dopo il 20.01.1994, allorquando cioè le prestazioni del sig. L.
presso l Ufficio Ragioneria erano venute a cessare per effetto di migrazione verso l Ufficio
Protocollo", assumono di non essere coinvolte in tali episodi - che, a loro avviso, non
configuravano, comunque, una condotta propria del "mobbing" -, in quanto imputabili ai
"collaboratori", sebbene tra questi vi fosse anche un collaboratore "con un grado di un certo
rilievo", indicato in ricorso quale "appartenente" al Servizio di Ragioneria (di fatto "capo
contabile della ragioneria", come leggesi nella sentenza del Tribunale, v. sopra), già superiore
del L. L inconsistenza della censura è di tutta evidenza, in quanto per la molteplicità degli
episodi, a conoscenza anche di un funzionario "di un certo rilievo" - che non si era adoperato
perché tali comportamenti vessatori cessassero - non solo i responsabili aziendali non potevano
non essere a conoscenza di tali fatti - il che le ricorrenti stesse non sembrano dedurre, allorché
affermano che gli eventi si "sono" comunque verificati dopo il 20.01.1994 -, ma essi erano
pienamente "coinvolti" dai comportamenti scorretti dei loro collaboratori, sia per la richiamata
norma dell art. 2087 c.c. (sulla tutela delle condizioni di lavoro), che obbliga l imprenditore ad
adottare, nell esercizio dell impresa, le misure che sono necessarie a tutelare "l integrità fisica e
la personalità morale" del prestatore di lavoro, sia in base ai richiamati principi di cui agli artt.
117, co. 2, e 2 e 3, co. 1, Cost, con particolare riguardo alla salvaguardia sul luogo di lavoro
della "dignità" e dei "diritti fondamentali" del lavoratore. A nulla pertanto rileva, ai fini
dell accertata condotta integrante elemento costitutivo del "mobbing" - "che indica l aggredire la
sfera psichica altrui" (così sinteticamente, ma efficacemente, la citata Cass. n. 143/2000, in
motiv.) - l inciso, contenuto nella sentenza impugnata (“Fermo restando l approfondimento di
tale tematica in sede di pronuncia definitiva”), che, all evidenza, costituisce un "obiter", che non
può infirmare (o rinviare al definitivo) quanto è stato dalla Corte già accertato e dichiarato.
In ordine al "nesso causale" tra condotta integrante elemento costitutivo del "mobbing" ed
insorgenza della denunciata patologia ansioso-depressiva (con lesione dell integrità psico-fisica
del lavoratore) risulta, inequivocabilmente, dalla sentenza impugnata (v, punto 1.2.2.n), che la
Corte si è limitata ad affermare che "la situazione lavorativa del L. " (sia per il
"demansionamento" sia per il "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro",
richiamati alla lettera l) era "astrattamente idonea" a determinare l insorgere della patologia di
cui trattavasi, con necessità di espletamento, “sul punto”, della richiesta CTU medico-legale.
Chiaramente pertanto la Corte ha rimesso al definitivo l accertamento "in concreto"
dell esistenza e della entità della denunciata patologia, e del "concreto nesso causale" tra
(eventuale) patologia e comportamento complessivo antigiuridico ascrivibile alla parte datoriale,
e, pertanto, la risarcibilità o meno del "danno biologico".
4.4.4. E riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 16819/2003; e v., pure,
Cass. n. 7546/2002) che il danneggiato possa far valere nel corso di tutto il giudizio di primo
grado, la modificazione quantitativa del risarcimento del danno in origine richiesto, intesa
anche come richiesta dei danni, provocati dallo stesso fatto che ha dato origine alla causa, che
si manifestano solo nel corso del giudizio, e quindi anche per i danni maturati per la persistenza
di tale fatto, dopo l inizio della lite, in quanto i termini della contestazione rimangono inalterati
(nella specie, invero, il risarcimento del danno è stato richiesto per il perpetuarsi del fatto
antigiuridico, dopo la proposizione della domanda nel giugno 1996, fino al 12 gennaio 1988).
Le ricorrenti si limitano peraltro a tale infondato rilievo solo in relazione alla domanda proposta
dal L. per il "risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al ricorrente per
stato ansioso/depressivo insorto nel 1994 ..." (conclusione d) a pag. 16 del ricorso al Pretore di
Roma), ma nulla deducono al riguardo in ordine all accoglimento della domanda, in primo
grado ed in appello, relativa al risarcimento del danno per dequalificazione, liquidato in
percentuale del trattamento economico corrisposto nel periodo "dal 20 gennaio 1994 al 12
gennaio 1998".
Risulta infatti dalla sentenza impugnata che “l appellata ... proponeva a sua volta appello
incidentale, volto al rigetto integrale della domanda di risarcimento del danno da
dequalificazione”.
Di tal che, non risultando che sulla questione relativa al periodo determinato dal giudice di
primo grado, per la liquidazione del danno, sia stata proposta impugnazione, e risultando invece
che per lo stesso periodo la Corte territoriale ha determinato una maggiore percentuale del
danno risarcibile, in relazione al trattamento economico corrisposto, "così assorbito l appello
incidentale", sulla questione - sollevata, peraltro, di sfuggita, dalle ricorrenti - si è formato il
giudicato interno, valido anche per l eventuale liquidazione del danno biologico (v,, in tema,
Cass. n. 4612/1999, 822/2000, sulla impossibilità di dedurre per la prima volta in sede di
ricorso per cassazione la violazione dell ari. 112 c.p.c., quando essa non abbia formato oggetto
di uno specifico motivo di appello).
5.1. Con il quinto ed ultimo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt.
2103 e 1418 c.c., nonché degli artt. 1427 e ss. e 1441 e ss. c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), ed
omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della
controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.), le società ricorrenti, con riferimento al punto 1.2.2.o) della
narrativa della presente sentenza, relativo alle c.d. "note di qualifica deducono che: a) nel
dispositivo la Corte romana ha ritenuto di "dichiarare la nullità delle note" - con espressione che
dovrebbe essere frutto di un "lapsus calami" -, laddove tutta la motivazione confluisce verso un
enunciato “capo”rivolto a supportare una pronuncia di annullamento (le note
caratteristiche...per l anno 1996 vanno annullate..."); in tal modo, integrando il dispositivo con
la motivazione, sembra alle ricorrenti, che la fattispecie realizzi una pronuncia di annullamento
e non una declaratoria di nullità; laddove si pervenisse, invece, all opposta affermazione -
dichiarazione, da parte della Corte, "proprio" della nullità delle note -, la sentenza impugnata
andrebbe cassata per assoluto difetto di motivazione, in quanto non identificante alcuna ipotesi
di nullità; non si intendevano le ragioni del pronunciato annullamento, avendo la Banca fissato
un criterio - quanto più possibile uniforme ed esteriorizzabile, correlato al comportamento dei
propri collaboratori -, che facilitava il percorso dell organismo chiamato a configurare le note di
qualifica, che muovevano dalla proposta del capo servizio, secondo criteri uguali per tutti i
collaboratori; tale percorso era stato regolarmente seguito, con l attribuzione di punteggi
numerici, in relazione ai singoli comportamenti: ogni voce era stata corredata da un commento
esplicativo ed il colloquio con l interessato aveva fornito risposte altrettanto esaustive; il
giudizio di mediocrità - diverso da quello di insufficienza – non comportava conseguenze
economiche, in occasione della sua prima attribuzione, e prevedeva una modesta incidenza
sulla gratifica in occasione di una prima reiterazione, e comportava la perdita della gratifica
soltanto con il terzo giudizio di mediocrità; sul complessivo assetto dei colloqui era stato sentito
il teste P. - già sindacalista, e che aveva assistito il L. nel colloquio esplicativo - , che aveva
confermato gli assunti della Banca; quanto alla motivazione della sentenza impugnata, riportata
nel primo periodo del punto 1.2.2.o) - illegittimità dei criteri adottati per la redazione delle note
qualifica per il 1996 -, per le ricorrenti doveva dissentirsi dall apprezzamento della Corte
territoriale, stanti gli aspetti di discrezionalità, propri del datore di lavoro, anche in sede di
giudizio relativo alla redazione di note caratteristiche del lavoratore; il giudizio era circoscritto
alla qualità della prestazione, ma correlato anche ad eventuale comportamento scostante del
lavoratore con clienti e colleghi (rapporti interpersonali verso i colleghi e la clientela; e, in
particolare, nei confronti della clientela, doveva essere apprezzato il modo di atteggiarsi del
lavoratore); non si intravedeva, quindi, alcuna ragione di annullamento delle predette note di
qualifica, essendo state ben ponderate le specifiche componenti della prestazione del
lavoratore, che non aveva neppure dimostrato - come avrebbe dovuto - spettargli una
votazione più elevata; quanto all invito rivolto al L.- per il miglioramento della prestazione
lavorativa (quarto periodo del punto sub 1.2.2.o), la Corte territoriale era caduta in errore, ben
potendo le note di qualifica coniugarsi con un colloquio con il lavoratore, comportante
incoraggiamenti e moniti; la motivazione era, quindi, insufficiente e/o contraddittoria; b)
quanto ai non specifici accenni di ragioni di "annullabilità", sparsi nella pronunzia, essi non
fornivano fattori aggiuntivi per supportare la sentenza impugnata, perché: 1) il preteso
demansionamento appariva estraneo alla fattispecie; 2) l affermazione, secondo cui la
valutazione non sarebbe stata "ancorata a dei criteri chiari e trasparenti, ed immune da
qualsiasi censura" (quinto periodo del punto sub 1.2.2.o), non era condivisibile, perché carente
nel ragionamento e sostanzialmente apodittica (dovendo il vizio, in materia di annullamento,
essere dimostrato dalla parte "attrice", e dovendo l eventuale annullamento dell atto essere
disposto "titolatamente" dal giudice); 3) quanto alla motivazione "ad abundantiam" della
sentenza impugnata - in relazione al mutamento della metodologia di valutazione (periodi sesto
e settimo di cui sub 1.2.2.o) -, le vicende della Banca avevano comportato che soltanto nel
1997 si era pervenuti ad una calibratura diretta dei singoli collaboratori (divenuti ormai, da
poche centinaia, circa settemila dipendenti), ricevendo ognuno il voto che gli spettava, con
scarti significativi per i meno meritevoli (e così "distinti" di basso conio avevano subito
contrazioni motto consistenti); il L. aveva subito un decremento di tre livelli (ed anche il P.
aveva subito una contrazione di ben due livelli), ma con esplicitazione della situazione, con un
ampio colloquio informatore ed altrettanto utili esortazioni; il discorso proposto era, quindi,
orientato a dimostrare che un paio di livelli potevano andare persi per la semplice mutazione
dei criteri di valutazione; era inefficace la comparazione tra due diversi collaboratori, non
potendo il raffronto essere condotto tra due soggetti diversi, avendo ciascuno diritto alla
valutazione personale.
5.2.1. Le ricorrenti non spiegano, innanzi tutto, quali siano le conseguenze derivanti dalla
diversa "terminologia", usata dalla Corte territoriale nel dispositivo della sentenza impugnata -
"nullità delle note caratteristiche" -, e nella motivazione della stessa "le note caratteristiche
vanno annullate" -, poiché la qualificazione giuridica (di nullità o annullamento), usata
promiscuamente dalla Corte (in dispositivo e motivazione), intende, comunque, riferirsi alla
"invalidità" dell atto datoriale, contrario alle norme di correttezza e buona fede. E, sulla
"invalidità" di tale atto - alla quale la Corte intende sostanzialmente ed inequivocabilmente
riferirsi - v. la ritenuta "invalidità" dell atto datoriale, in tema di promozione alla qualifica
superiore, allorché contrario ai principi generali di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375
c.c.(Cass. n. 11291/2000).
Di regola, peraltro, in relazione agli atti datoriali, contrastanti con i principi di correttezza e
buona fede, la giurisprudenza usa il termine di "illegittimità" dell atto. E, sulla "illegittimità per
abuso del comportamento della parte, in violazione dei canoni ermeneutici del principio di
buona fede, v., tra le altre, Cass. n. 11271/1997 (e, in particolare, sulla "legittimità" del
trasferimento del lavoratore secondo i principi generali di correttezza e buona fede, v. Cass. n.
11957/2003.
Il termine “illegittimità” dell’atto datoriale è mutuato anche dall’esercizio “illegittimo” della
funzione pubblica (v. Cass. Sez. Un. n.500/1999).
In tema di «note caratteristiche» v., sulla “illegittimità” delle stesse, per violazione delle
prescrizioni di lealtà e correttezza, Cass. n. 206/2001 (in particolare, nella motivazione, per il
richiamo alla “illegittimità”, in tal caso, della nota di qualifica).
E’ chiaro dunque che, quale sia stata la terminologia usata, la Corte territoriale ha inteso
riferirsi alla “invalidità/illegittimità” delle note caratteristiche, relative al L. per l’anno 1996.
5.2.2. Comunque, le ricorrenti non censurano adeguatamente la motivazione della Corte
territoriale (punto 1.2.2. o) sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede (e, sul
rispetto dell’obbligo generale di correttezza e buona fede, in tema di “note di qualifica” del
dipendente v., pure, tra le altre Cass. n. 5289/1996). Risulta, infatti, secondo la Corte
territoriale romana, “ex actis” che la nota di qualifica, relativa al L., per l’anno 1996, era stata
adottata non per ragioni attinenti alle qualità lavorative del medesimo, essendo, tra l’altro, la
valutazione datoriale falsata dal “demansionamento” e dalle conseguenti mansioni inferiori
svolte dal L., che non era stato valutato in relazione alle mansioni corrispondenti alla qualifica a
lui spettante.
E, del resto, le stesse ricorrenti evidenziano le conseguenze negative, anche sotto il profilo
economico (sia pure non immediate), derivanti da eventuale reiterazione del giudizio di
“mediocre”, assegnato al L. per l’anno 1996, giudizio che aveva comportato per il medesimo un
decremento di ben tre livelli (da “distinto” a “mediocre”), sulle note di qualifica; e ciò, pur “a
fronte di un generale abbassamento dei giudizi espressi in relazione alla generalità dei
dipendenti”, dedotto dalle ricorrenti. La Corte territoriale evidenzia, però, che il giudizio
assegnato al L. per l anno 1996, "senza apparente motivazione , era stato l unico (ad eccezione
di altra dipendente, valutata "insufficiente", e poi licenziata).
5.2.3. In definitiva, anche il quinto ed ultimo motivo di ricorso è infondato.
6.1. Consegue il rigetto del ricorso.
6.2. Nulla per le spese del giudizio, non essendo l intimato L. costituito nel presente giudizio di
cassazione.
10
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in
Roma il 17 febbraio 2005 (depositato il 23 marzo 2005).