lavoroprevidenza

sabato 23 aprile 2005

LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DELLE RICHIESTE DI RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI RIFUGIATO

su gentile segnalazione dell Avv. Mario Pavone (Avvocato del Foro di Brindisi - Patrocinante in Cassazione - Presidente ANIMI - Responsabile della sezione "Lavoro & Immigrazione" della Rivista telematica giuslavoristica LavoroPrevidenza.com)


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Ministero dell’Interno


Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo






LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE



DELLE RICHIESTE DI RICONOSCIMENTO



DELLO STATUS DI RIFUGIATO














a cura dei Viceprefetti


Dr.ssa Simonetta Sonnino


Dr. Mauro Denozza



PREMESSA





I vari aspetti dell’interpretazione della Convenzione di Ginevra del 1951 rivelano l’importanza che pratica e esperienza hanno per interpretare la Convenzione, recepita in diverse giurisdizioni. Tali variazioni non presentano necessariamente dei problemi nella misura in cui sono confermati gli obblighi contenuti nella Convenzione, benché abbia certamente valore la promozione di più chiare intese comuni sui problemi di interpretazione. In definitiva, il diritto internazionale del rifugiato, più che una scienza esatta, è un sistema giuridico che deve rispondere a circostanze individuali.


E’ pericoloso tentare di incorporare uno schema troppo rigido e formalistico nell’interpretazione della definizione di rifugiato. Un paradigma fisso non può prendere in considerazione la diversità dell’esperienza umana e delle circostanze sempre mutevoli. Da qui proviene la necessità di una valutazione globale che risponda alla situazione particolare dell’individuo in questione. La Convenzione del 1951 fornisce un largo schema incorporato nel contesto generale del diritto internazionale e, in particolare nel diritto internazionale relativo ai diritti umani e nel diritto umanitario internazionale. Le conclusioni del Comitato Esecutivo, le linee-guida dell’ACNUR e le pratiche statuali, inclusa la giurisprudenza, forniscono concrete indicazioni sul modo in cui i casi individuali potrebbero e dovrebbero essere trattati, ma ogni caso è necessariamente unico.


L’efficacia della protezione internazionale del rifugiato negli anni a venire dipenderà dalla capacità degli Stati e della comunità internazionale di affrontare le varie sfide attualmente poste dai rifugiati, le quali implicano diverse strategie: separare gli elementi armati nei campi per rifugiati, gestire complessi flussi migratori, attuare durevoli soluzioni che superino lo stato precario dei rifugiati stessi.


A loro volta, tali iniziative costituiscono parte dell’intricato mosaico della cooperazione internazionale, che ha bisogno di essere rafforzata, se la comunità internazionale deve affrontare più vasti problemi economici, sociali e politici nei paesi che producono rifugiati, iniquità su scala globale, piccolo commercio di armi e così via, tutte cose che possono condurre a spostamenti forzati di popolazione all’interno e al di là dei confini nazionali. Per avere successo, tali sforzi di cooperazione internazionale richiedono il coinvolgimento di tutti i soggetti operativi dei governi, della società civile, delle organizzazioni internazionali, della professione legale e delle ONG fino ai rifugiati stessi.


Come già detto, dal punto di vista giuridico si può ottenere un reale beneficio da una maggiore interazione del diritto internazionale del rifugiato con altri settori del diritto, inclusi soprattutto il diritto internazionale e i diritti regionali relativi ai diritti umani e quello umanitario internazionale.


Anche gli sviluppi nel diritto penale internazionale negli anni recenti, che hanno compiuto notevoli progressi nel portare di fronte alla giustizia gli autori di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra, si dirigono verso la possibilità di porre termine all’impunità per almeno alcuni dei crimini che possono costringere le persone a fuggire.


In conclusione quali migliori parole potrebbero essere scelte del discorso introduttivo al Convegno Ministeriale degli Stati Parti della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 pronunciato dal presidente Vaira Viki-Freiberga della Lituania, che fuggì dal suo Paese quand’era bambino dopo la seconda guerra mondiale:


“Nessuno lascia la propria dimora volontariamente o lietamente. Quando le persone lasciano la loro terra, il luogo di nascita, il luogo in cui risiedono, ciò significa che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nelle circostanze in cui il loro paese si trova. E non dovremmo mai sottovalutare tale situazione difficile dei rifugiati che fuggono attraverso i confini. Essi sono segni, sono sintomi, sono la prova di qualcosa di molto errato da qualche parte della scena internazionale. Quando giunge il momento di lasciare la nostra casa, la scelta è penosa…Può essere una scelta che costa. Tre settimane e tre giorni dopo che la mia famiglia aveva lasciato le coste della Lituania la mia piccola sorella morì. La seppellirono al margine della strada e non potemmo mai ritornare a mettere fiori sulla sua tomba.


E mi è grato pensare che io sto qui come sopravvissuto che parla per tutti coloro che sono morti al margine della strada, alcuni seppelliti dalle loro famiglie, altri no.


E per tutti quei milioni che oggi attraverso il mondo non hanno voce, non possono essere ascoltati. Anch’essi sono esseri umani, anch’essi soffrono, anch’essi hanno le loro speranze, i loro sogni e le loro aspirazioni. La maggior parte sogna una vita normale….


Vi prego, quando pensate al problema dei rifugiati, di pensare ad essi in modo non astratto. Non pensate ad essi nel linguaggio burocratico di “decisioni”e “dichiarazioni”e “priorità”. Vi prego pensate agli esseri umani che sono investiti dalle vostre decisioni. Pensate alle vite in attesa di aiuto".














ORIGINI


della


CONVENZIONE DI GINEVRA
















LO SVILUPPO DELLA DEFINIZIONE DI RIFUGIATO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE




Lo stato giuridico del rifugiato è un prodotto della storia occidentale recente. Prima del Novecento non si sentiva la necessità di una definizione giuridica dello status di rifugiato, poiché in Europa gli immigrati erano considerati come un fattore di arricchimento.


I Paesi europei generalmente scoraggiavano o vietavano l’emigrazione, mentre favorivano l’immigrazione, considerata dagli Stati come strumento di selezione di nuovi abitanti che, con le loro competenze, potevano contribuire al benessere nazionale.


Tale orientamento dei governanti nella prima parte del XX secolo venne a scontrarsi con le enormi dimensioni dei trasferimenti di popolazione all’interno dell’Europa: più di 1 milione di Russi emigrarono in Europa tra il 1917 e il 1922 e centinaia di migliaia di Armeni nei primi anni ‘20. A causa del nuovo fenomeno della emigrazione forzata, le politiche di selezione degli immigranti in base al vantaggio nazionale dovettero essere sostituite da politiche più restrittive, che implicavano una definizione giuridica internazionale del rifugiato.


Gli accordi internazionali sui rifugiati entrati in vigore tra il 1920 e il 1959 manifestavano 3 distinti approcci sulla definizione di rifugiato.



Approccio giuridico


Dal 1920 al 1935 i rifugiati furono definiti in termini giuridici, essendo trattati come rifugiati solo in quanto rappresentanti di un gruppo di persone private della protezione formale da parte dello stato di origine. Lo scopo era quello di accordare protezione a persone che si trovavano all’estero e non potevano sistemarsi in quanto nessuna nazione se ne prendeva la responsabilità.


Il sistema giuridico internazionale era inceppato dal ritiro della protezione de jure da parte degli stati di origine: ritiro della cittadinanza (denaturalization), negazione dei servizi diplomatici, quali il passaporto o la rappresentanza consolare.


Il diritto internazionale dell’epoca non riconosceva gli individui come soggetti di diritti e obblighi internazionali, quindi la responsabilità internazionale per tali individui ricadeva sugli stati sovrani, che di fatto li proteggevano. Le definizioni di rifugiato adottate tra il 1920 e il 1935 intesero porre rimedio a tale situazione. La Lega delle Nazioni estese la protezione ai gruppi di persone private della cittadinanza e a coloro che non potevano ottenere un passaporto valido.


Entrambi i gruppi ricevettero dalla Lega delle Nazioni documenti di identità che gli Stati contraenti considerarono equivalenti al passaporto. La definizione allora fornita di rifugiato conteneva un criterio di origine etnica o territoriale accoppiato a quello del mancato godimento de jure della protezione nazionale.



L’approccio sociale


Gli accordi sullo status di rifugiato adottati tra il 1935 e il 1939 seguivano l’approccio sociale, in quanto i rifugiati erano definiti da una prospettiva sociale come vittime non protette di vasti eventi politici o sociali, che li avevano distaccati dalla società di origine.


Lo scopo non era più quello di correggere un’anomalia del sistema giuridico internazionale, bensì quello di assicurare la sicurezza e il benessere dei rifugiati.


Questo secondo approccio nella definizione di rifugiato mirava ad assistere coloro che avevano perso de facto, se non de jure, la protezione dello stato di origine. Lo scopo principale era quello di proteggere gli esuli provenienti dalla Germania nazista.



L’approccio individualista


La terza fase della legislazione internazionale sui rifugiati comprende gli accordi adottati nel periodo 1938-1950 ed è caratterizzata dal rifiuto di determinare lo status di rifugiato secondo criteri di gruppo. Nell’approccio individualista un rifugiato è una persona in cerca di una via di scampo da un’ingiustizia percepita o da una fondamentale incompatibilità con lo stato di origine.


Lo scopo perseguito dalla nuova definizione è quello di assecondare il movimento di persone alla ricerca della libertà personale.


L’approccio individualista ha avuto conseguenze anche sulla procedura: gli accordi presi nell’immediato dopoguerra prevedevano un esame nel merito di ciascun caso individuale.


Nel dibattito presso le Nazioni Unite nel 1946 gli Stati Socialisti si opposero all’inclusione dei dissidenti nell’ambito dei rifugiati protetti dal diritto internazionale, ma la forza preponderante dell’Alleanza occidentale condusse all’adozione di un criterio di valutazione personalizzata dell’incompatibilità tra lo stato di origine e il richiedente asilo in cerca di libertà personale.















CONVENZIONE DI GINEVRA















La Convenzione ONU del 1951 è importante per due aspetti. In primo luogo la Convenzione stabilisce una definizione generale di “rifugiato”, definendolo come colui che, trovandosi fuori dal suo Paese, non può farvi ritorno a causa di un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale. In secondo luogo, la Convenzione riconosce che quanti rispondono alla definizione debbono beneficiare di taluni diritti e che l’assistenza ai rifugiati non va semplicemente vista in chiave di carità internazionale.


La Convenzione impone agli Stati firmatari alcuni obblighi, di cui quello fondamentale è il principio del “non respingimento” (non refoulement), in base al quale il Paese di asilo non può respingere con la forza una persona in situazioni in cui questa avrebbe un fondato timore di essere perseguitata.


La concessione dello status di rifugiato non deve essere vista come tale da implicare una presa di posizione verso gli affari interni del Paese dal quale la persona è fuggita.. Pertanto nessuno Stato può esitare a garantire lo status di rifugiato per considerazioni di natura politica solo perché teme l’effetto negativo che tale concessione potrebbe avere sulle relazioni tra lo Stato di rifugio e quello di origine.


Il Protocollo di New York del 1967 rimuove le limitazioni temporali e geografiche fissate nel testo originario della Convenzione, che essenzialmente consentiva di fare richiesta per lo status di rifugiato esclusivamente ai cittadini europei coinvolti in eventi antecedenti il 1° gennaio 1951.


Per comprendere lo spirito della Convenzione è opportuno partire dalla considerazione che la “eleggibilità”, termine usato dalla Convenzione stessa, viene riconosciuta a chi nel proprio Paese ha ragione di temere di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche e che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva la residenza abituale, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra. Nel caso di una persona con più di una cittadinanza, il timore di essere perseguitato può essere riferito a ciascuno dei Paesi di cui è cittadino.


Dunque, essendo questo l’ambito di applicazione del concetto, se ne evince che un soggetto è rifugiato quando soddisfa i criteri enunciati nell’articolo 1° della Convenzione.


Questa condizione precede necessariamente il riconoscimento formale dello status di rifugiato. Quindi il riconoscimento di tale status non ha l’effetto di conferire qualità di rifugiato, ma constata semplicemente l’esistenza di detta qualità.


Anche la direttiva europea 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione,a cittadini di paesi terzi o apolidi,della qualifica di rifugiato di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta al punto 14 del preambolo cita”il riconoscimento dello status di rifugiato.


Si riconosce in generale che gli estensori della Convenzione hanno intenzionalmente lasciato non definito il concetto di persecuzione, in quanto erano consapevoli dell’impossibilità di enumerare in anticipo tutte le forme di maltrattamento che potrebbero attribuire legittimamente alle persone il diritto di beneficiare della protezione di uno Stato estero.


In primo luogo bisogna ricordare che gli estensori della Convenzione intesero il concetto di persecuzione come tale da comprendere l’intera gamma dei fenomeni che avevano causato le migrazioni involontarie durante o immediatamente dopo la seconda guerra mondiale.


Gli estensori ritenevano che si dovesse intervenire nei casi in cui il maltrattamento poteva dimostrare un “crollo della protezione nazionale”.


Tale limitazione derivava dal fatto che il rifugiato veniva considerato come persona che necessita della protezione internazionale poiché priva di quella del suo Paese.


Lo status di rifugiato va messo inoltre in relazione con la negazione di quei diritti fondamentali così come sono stabiliti nei diversi strumenti internazionali.


Infatti nel preambolo della Convenzione del 1951 si fa esplicito riferimento al rapporto tra la protezione del rifugiato e il diritto internazionale relativo ai diritti umani.


La determinazione dello status di rifugiato è dunque un processo che da un punto di vista logico si sviluppa in due fasi. La prima consiste nello stabilire i fatti rilevanti nel caso in esame, la seconda nell’applicare a tali fatti il regime previsto dalla Convenzione di Ginevra e dalle singole legislazioni nazionali. Il cuore della definizione dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato è tutto nella locuzione “temendo a ragione di essere perseguitato”.


Queste parole pongono come elemento centrale da porre a base della decisione l’idea di un “timore” ispirato ad un fondato motivo. Poiché il timore è, ovviamente, un fatto soggettivo, questa locuzione sortisce l’effetto di incentrare l’intera procedura di riconoscimento sulla valutazione di un elemento soggettivo. Posto che si basa essenzialmente sulla valutazione di un elemento soggettivo qual è il timore di essere perseguitato, la determinazione della qualità di rifugiato si fonderà principalmente sulla valutazione delle dichiarazioni rese dall’interessato, oltre che naturalmente su un giudizio fondato sulla situazione politica esistente nel suo Paese di origine.


Va precisato che l’elemento soggettivo del timore viene subito mitigato dall’espressione “a ragione”, che introduce un importante elemento di oggettività, in grado di temperare l’altrimenti eccessiva soggettività del presupposto. Dunque il richiedente deve temere, ma questo timore deve essere fondato su un qualche elemento oggettivo di realtà.


Va posta pertanto particolare attenzione alla valutazione della personalità del richiedente, nel senso che l’accertamento della sua credibilità dovrà necessariamente tener conto anche dei suoi precedenti personali e familiari, della sua appartenenza ad un determinato gruppo etnico, della sua militanza politica, del suo credo religioso, ecc.


Per quanto attiene all’elemento oggettivo, invece, si rende necessario valutare attentamente le dichiarazioni rese dal richiedente. E’ allora di fondamentale importanza essere sufficientemente informati sulle condizioni politiche esistenti nel Paese o nell’area di provenienza del richiedente, per non correre il rischio di valutare soltanto in astratto le dichiarazioni rese dallo stesso e per poterle, invece, inserire nel contesto della situazione reale del Paese.


Un altro importante elemento presente nella Convenzione e di fondamentale importanza, è costituito dal carattere assolutamente individuale che la vicenda di persecuzione deve rivestire. Ciò vale ad escludere dall’ambito di applicazione della Convenzione quelle persone costrette a lasciare il proprio Paese a causa di disastri naturali, calamità o anche a causa di violenti rivolgimenti politici o crisi belliche, quando da tali fatti e situazioni non siano derivati, per l’individuo, fatti persecutori strettamente inerenti alla sua persona.


Queste altre situazioni (calamità naturali, situazioni di guerre e rivoluzioni violente, ecc) allorché si dovessero verificare in determinate aree del globo, possono essere valutate dai singoli legislatori nazionali per altri fini e prevedendo altre forme e misure di protezione o di accoglienza. L’ambito di applicazione della Convenzione è dunque limitato ai casi di persecuzione individuale, mentre gli altri casi vengono generalmente affrontati con strumenti legislativi particolari e specifici per le singole situazioni. Così è accaduto per i cittadini della ex Jugoslavia, per i Somali, per gli Albanesi, ecc..














LEGISLAZIONE


ITALIANA















Dopo la ratifica della Convenzione di Ginevra il primo organismo in Italia che si è occupato della procedura di eleggibilità e del riconoscimento dello status di rifugiato è stata la Commissione Paritetica di Eleggibilità: la CPE.


Tale organismo è stato istituito con uno scambio di note tra il Governo Italiano e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati il 22 luglio 1952 ed ufficialmente sancito con un decreto interministeriale del 24 novembre 1953.


La Commissione era composta da un rappresentante del Ministero degli Affari Esteri, da uno del Ministero dell’Interno, da uno dell’Alto Commissariato: essi disponevano di voto deliberante a pari titolo, alternandosi alla presidenza della Commissione.


In caso di respingimento della richiesta era allora consentito soltanto l’appello alla Commissione stessa.


Agli stranieri cui era stato riconosciuto lo status di rifugiato si presentavano due possibilità: se desideravano emigrare potevano soggiornare in uno dei Centri di Assistenza profughi stranieri (CAPS) gestiti dal Ministero dell’Interno a Patriciano (TS), Latina e Capua(CE). Se, invece, desideravano restare in Italia, potevano stabilirsi fuori dei Centri. Occorre precisare che la maggioranza optò per emigrare in altri Paesi (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda).


All’atto della firma della Convenzione di Ginevra (23 luglio 1952) e del deposito della ratifica (15 novembre 1954), il Governo Italiano pose la limitazione geografica.


Detta limitazione è stata mantenuta anche all’atto della adesione al Protocollo di New York del 31 gennaio 1967 ed è rimasta in vigore per altri 18 anni fino alla emanazione della legge 39/90.


Tale limitazione era una opzione prevista dagli estensori della Convenzione per consentire agli Stati di limitare gli obblighi alle persone divenute rifugiate in seguito ad “avvenimenti verificatisi in Europa”. Detta limitazione rispondeva al timore da parte degli Stati di assumere obblighi difficilmente prevedibili.


Nel corso degli anni, comunque, sono state numerose le deroghe a detta limitazione che facevano riferimento alla Raccomandazione contenuta nella lettera E dell’Atto finale della Conferenza dei Plenipotenziari delle Nazioni Unite sullo Status dei Rifugiati e degli Apolidi riunita a Ginevra il 28 luglio 1951, che recitava “La Conferenza esprime la speranza che la Convenzione relativa allo status dei rifugiati inciterà tutti gli Stati ad accordare quanto più possibile alle persone che si trovano sul loro territorio in qualità di rifugiati e che non rientrerebbero nei termini della Convenzione stessa, il medesimo trattamento da questo previsto per coloro che saranno formalmente riconosciuti come rifugiati. (Di tale deroga hanno beneficiato 3.336 indocinesi, in maggioranza vietnamiti ma anche cambogiani e laotiani, 35 Afgani, 41 vietnamiti trasferiti dalle Filippine, 110 iracheni caldei provenienti dalla Turchia e infine 43 iracheni di etnia curda da anni esuli in Italia).


Dal 25 agosto 1952 all’8 marzo 1991 la Commissione Paritetica di Eleggibilità, in quasi 40 anni di attività, ha esaminato circa 125.000 casi riconoscendo a 26.500 persone lo status di rifugiato.


Per i richiedenti asilo “non europei” (provenienti in massima parte dall’Africa, dall’Asia e dall’America meridionale), la procedura di eleggibilità e l’esame della domanda avveniva da parte della delegazione ACNUR in Italia, istituita con Accordo Governo Italiano-Alto Commissariato del 2 aprile 1952 e avente sede a Roma (c.d. rifugiati sotto mandato). A costoro dopo la comunicazione veniva rilasciato un permesso di soggiorno provvisorio in attesa di emigrazione.


Dal 15 aprile 1952 al 31 dicembre 1989 le richieste di riconoscimento sotto il mandato ACNUR sono state 15.000 di cui 8.000 circa accolte.


A questi vanno aggiunti i rifugiati in transito, cioè gli ebrei nati in Unione Sovietica, che, previa rinuncia forzata della cittadinanza, ottenevano il permesso di lasciare l’URSS per trasferirsi in Israele.


In seguito, il decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990 n. 39 recante “Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato” (comunemente conosciuta come legge Martelli dal nome del Vice Presidente del Consiglio che ne è stato il promotore) ha fatto cessare nell’ordinamento interno gli effetti della dichiarazione della limitazione geografica ed ha inoltre disposto che il Governo entro sessanta giorni procedesse al riordino degli organi e delle procedure per l’esame delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato.


In ottemperanza a quanto sopra è stato approvato il decreto del Presidente della Repubblica 15 maggio 1990, n. 136 che ha istituito la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato.


La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta congiunta del Ministero dell’Interno e degli Affari Esteri, è presieduta da un Prefetto ed è composta da un funzionario dirigente in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da un funzionario del Ministero degli Affari Esteri con qualifica non inferiore a Consigliere di Legazione, da due funzionari del Ministero dell’Interno, di cui uno appartenente al Dipartimento di Pubblica Sicurezza ed uno alla Direzione Generale dei Servizi Civili (oggi Dipartimento per le Libertà Civili e Immigrazioni) con qualifica non inferiore a Primo Dirigente o equiparata. Alle sedute della Commissione partecipa con funzioni consultive un rappresentante del Delegato in Italia dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sempre con decreto del Presidente del Consiglio possono essere costituite più sezioni anche per aree geografiche di provenienza dei richiedenti asilo. In questo caso viene istituito un Consiglio di Presidenza che fissa le direttive e i criteri di massima per le attività delle sezioni.


Le attività relative al riconoscimento dello status di rifugiato esercitate dalla Commissione Paritetica di Eleggibilità cessarono al momento dell’entrata in vigore della Commissione.


Attualmente la legge 30 luglio 2002, n. 189 (Legge Bossi-Fini) recante il titolo “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, al capo II “Disposizioni in materia di asilo” apporta sostanziali modifiche alla precedente normativa.


Innanzitutto la Commissione Centrale per il riconoscimento dello Status di Rifugiato è trasformata in Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo.


La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta congiunta dei Ministri dell’Interno e degli Affari Esteri. La Commissione è presieduta da un Prefetto ed è composta da un Dirigente in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da un funzionario della carriera diplomatica, da un funzionario della carriera prefettizia in servizio presso il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e da un Dirigente del Dipartimento di Pubblica Sicurezza. Alle riunioni partecipa un rappresentante del Delegato in Italia dell’ACNUR. La Commissione ha compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni Territoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle medesime Commissioni, di raccolta di dati statistici oltre che poteri decisionali in tema di revoche e cessazioni di status concessi.


Inoltre la legge, modificando radicalmente la precedente procedura, opera un decentramento dell’esame delle richieste di asilo istituendo le Commissioni Territoriali.


Tali Commissioni, nominate con decreto del Ministro dell’Interno, sono presiedute da un funzionario della carriera prefettizia e composte da un dirigente della Polizia di Stato, da un rappresentante dell’Ente Territoriale designato dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali e da un rappresentante dell’ACNUR.


Al fine di scoraggiare le domande fraudolente viene regolamentata una procedura, durante la quale il richiedente asilo viene trattenuto in centri di identificazione, e che, pur mantenendo le dovute garanzie, viene espletata in tempi più rapidi.


E’ previsto inoltre, in sede normativa la possibilità di concessione di un permesso di soggiorno a carattere umanitario.


La nuova normativa prevede due procedure :una ordinaria ed una semplificata.


La procedura semplificata di esame delle domande di asilo avviene in due casi disciplinati dal nuovo art.1 ter .


La prima ipotesi in cui si attiva la procedura semplificata per l’esame delle domande di asilo è quella della presentazione della domanda da parte di uno straniero fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo,o,comunque, in condizioni di soggiorno irregolare. In tale ipotesi,appena ricevuta la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato il questore competente per il luogo in cui la richiesta è stata presentata dispone il trattenimento dello straniero interessato in uno dei centri di identificazione ed entro due giorni dal ricevimento dell’istanza provvede alla trasmissione della documentazione necessaria alla commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato,la quale entro quindici giorni dalla data di ricezione della documentazione,provvede all’audizione e adotta la decisione entro i successivi tre giorni.


La seconda ipotesi in cui si attiva la procedura semplificata per l’esame delle domande di asilo è quella della presentazione della domanda di asilo da parte di uno straniero già destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento .In tali ipotesi appena ricevuta la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato , il questore competente per il luogo in cui la richiesta è stata presentata dispone il trattenimento dello straniero interessato in uno dei centri di permanenza temporanea istituiti ai sensi dell’art.14 T:U: e,qualora sia già in corso il trattenimento chiede al tribunale in composizione monocratica la proroga del periodo di trattenimento per ulteriori trenta giorni per consentire l’espletamento della procedura semplificata di esame della domanda di asilo. .Entro due giorni dal ricevimento dell’istanza,il questore provvede alla trasmissione della documentazione necessaria alla commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato che,entro quindici giorni dalla ricezione della documentazione,provvede all’audizione. La decisione è adottata entro i successivi tre giorni.


Entro cinque giorni dalla comunicazione della decisione lo stesso straniero può presentare alla medesima commissione territoriale una richiesta di riesame della decisione e in tale caso la commissione territoriale ,integrata da un componente della commissione nazionale per il diritto di asilo,procede,entro dieci giorni,al riesame delle decisioni.


La richiesta di riesame ha per oggetto elementi sopravvenuti ovvero preesistenti non adeguatamente valutati in prima istanza,che siano determinanti al fine del riconoscimento dello status di rifugiato.


La nuova normativa è stata completata con l’entrata in vigore del regolamento di attuazione, D.P.R. "Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato " pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica in data 22 dicembre 2004.


Tale regolamento disciplina le varie fasi della procedura, il funzionamento dei Centri di identificazione, le funzioni della Commissione Nazionale per il diritto di asilo e delle Commissioni territoriali.












NORMATIVA EUROPEA







Il 29 Aprile 2004 il Consiglio dell’Unione Europea approva la Direttiva recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,nonché di norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.


Nel Preambolo si chiarisce che una politica comune nel settore dell’asilo costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà,sicurezza e giustizia aperto a chi cerca legittimamente protezione nella comunità, secondo quanto previsto dalle conclusioni del Conclusioni del Consiglio europeo di Tampere.


Le conclusioni di Tampere inoltre precisano che lo status di rifugiato deve essere completato da misure relative a forme sussidiarie di protezione che offrono uno status appropriato a chiunque abbia bisogno di protezione internazionale.


Scopo della presente Direttiva è quello di assicurare che gli stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale di assicurare d’altro canto che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli stati membri.


La direttiva richiama i diritti fondamentali e i principi riconosciuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,assicurando il pieno rispetto della dignità umana,il diritto di asilo dei richiedenti asilo e dei loro familiari.


La Direttiva è composta da 40 articoli suddivisi in nove capi


Nel capitolo I vengono poste le definizioni dei termini usati: protezione internazionale, convenzione di Ginevra, rifugiato, status di rifugiato, persona ammissibile alla protezione sussidiaria, status di protezione sussidiaria, domanda di protezione internazionale, familiari, minore non accompagnato, permesso di soggiorno, Paese di origine.


Nel capitolo II viene affrontata la valutazione delle domande di protezione internazionale. Lo Stato deve cooperare con il richiedente per esaminare tutti gli elementi significativi della domanda. L’esame della domanda è individuale e prevede la valutazione della situazione del paese di origine, della dichiarazione e della documentazione presentata,della situazione individuale,l’aver subito persecuzioni o danni gravi o minacce costituisce un serio indizio della fondatezza della richiesta. Non è indispensabile la conferma tramite prove documentali ma la conferma deriva dalla credibilità complessiva del richiedente. L’articolo 5 parla di rifugiato “sur place”ovvero di richiedenti già presenti sul territorio dello Stato membro. L’articolo 6 definisce gli agenti di persecuzione comprendendo anche quelli non statali quanto lo Stato non è in grado o non vuole garantire la protezione, mentre l’articolo 7 parla dei soggetti che offrono protezione. Il capo II della possibilità dell’asilo interno cioè della possibilità per il richiedente di spostarsi all’interno del suo Paese di origine se in un’altra parte del territorio non abbia fondato motivi di temere di essere perseguitato.


Il capo III analizza i requisiti per essere riconosciuto rifugiato. L’articolo 9 definisce gli atti di persecuzione, l’articolo 10 i motivi di persecuzione (razza, religione, nazionalità, gruppo sociale e opinioni politiche). L’articolo 11 ribadisce le condizioni per la cessazione dello status di rifugiato. L’articolo 12 elenca i richiedenti a cui si applicano le clausole di esclusione per gravi motivi.


Il capo IV “Status di rifugiato” analizza la revoca, la cessazione o il rifiuto del rinnovo dello status.


Dal Capo V inizia la parte riguardante i requisiti per poter beneficiare della protezione sussidiaria. L’articolo 15 è sul “Danno grave”, l’articolo 16 sui motivi di cessazione e l’articolo 17 sulle clausole di esclusione.


Il capo VI continua sulla protezione sussidiaria, l’articolo 18 è sul riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, mentre l’articolo 19 sulla revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo dello status di protezione sussidiaria.


Il capo VII detta norme sul contenuto della protezione internazionale. L’articolo 20 “disposizioni generali” si sofferma in particolare sulle persone vulnerabili (minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale). L’articolo 21 dispone il dovere di informazione da parte dello Stato allo straniero a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato sui suoi diritti e doveri. L’articolo 23 ribadisce il principio del mantenimento dell’unità familiare. Gli articoli successivi si concentrano sui diritti dal permesso di soggiorno, al documento di viaggio, all’accesso all’occupazione, all’istruzione, all’assistenza sociale e a quella sanitaria, all’alloggio, alla libera circolazione sul territorio.


Il capo VIII conclude con la cooperazione amministrativa. L’articolo 16 si sofferma sulla necessità di formazione del personale e sull’obbligo di riservatezza. L’articolo 38 stabilisce che gli stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 10 ottobre 2006.











REQUISITI PER ESSERE CONSIDERATO RIFUGIATO











ATTI DI PERSECUZIONE



L’articolo 9 della direttiva europea dà una definizione ampia e dettagliata del concetto di persecuzione.



1. Gli atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra devono:


a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;


b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).


2. Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:


a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;


b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e\o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;


c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;


d) rifiuto di accesso ai mezzi di ricorso giuridici e conseguente sanzione sproporzionata e discriminatoria;


e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2;


f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia.



La deroga non è consentita in nessuno dei seguenti casi secondo quanto previsto dagli articoli 2, 3, 4 (1) e 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali:



Articolo 2


1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena.


2. La morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da un ricorso alla forza reso assolutamente necessaria:


a) per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale;


b) b)per eseguire un arresto legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta;


c) per reprimere in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.



Articolo 3


Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.



Articolo 4


Nessuno può essere detenuto in condizione di schiavitù o di servitù.



Articolo 7


1. Nessuno può essere condannato per una azione o per una omissione che, al momento in cui fu commessa, non costituisce reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.


2. Il presente articolo non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o d’una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.










RESPONSABILI DELLA PERSECUZIONE O DEL DANNO GRAVE












La direttiva europea, prendendo atto delle indicazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unire per i Rifugiati e della prassi ormai consolidata da parte della maggior parte degli Stati firmatari della Convenzione di Ginevra, ha riconosciuto come agenti di persecuzione non solo lo Stato ma anche gli agenti non statali purché le autorità governative non possano o non vogliano garantire protezione.



Si riporta qui di seguito l’articolo 6 della direttiva europea:


I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere:


a) lo Stato


b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;


c) Soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi come definito all’articolo 7.














MOTIVI DI RICONOSCIMENTO


O


DI NON RICONOSCIMENTO



a)










RAZZA



La prima forma di privazione dei diritti civili rientrante nel campo di azione della legge sui rifugiati è quella basata sulla razza.


Il concetto di razza va inteso in senso lato e comprende l’appartenenza ai vari gruppi etnici. Essenzialmente, la persecuzione si considera basata su motivi razziali quando l’autore delle persecuzioni considera l’oggetto di tali persecuzioni come appartenente a un gruppo razziale diverso dal suo a causa di una differenza effettiva o presunta e ciò costituisce il motivo dell’azione persecutoria.


La discriminazione fondata sulla razza è universalmente condannata come una delle violazioni più flagranti dei diritti dell’uomo.


I precedenti storici legittimano l’attribuzione di un ampio significato sociale al termine “razza” che include tutte le persone di una determinata etnia.


La nozione di razza, così come intesa nella Convenzione, non include solo persone a rischio per la loro appartenenza ad una categoria più o meno corrispondente a una di quelle enucleate nelle scienze etnografiche, ma include anche altri gruppi, come gli ebrei e persone di etnia Rom, i quali, in base a supposte differenze fisiche e culturali, sono stati e sono oggetto di pregiudizio e di persecuzione.


E’ quindi evidente la possibilità di sovrapposizione tra razza ed altri fattori come religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale particolare, ma questo non costituisce un problema poiché le domande si possono basare su uno o più tipi di privazione dei diritti civili o politici.


La nozione estesa del termine “razza” è storicamente difendibile e compatibile con il moderno uso internazionale.


La Convenzione Internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, definisce, per esempio, “discriminazione razziale” quella che include un trattamento differenziale basato su razza, colore, discendenza nazionale o origine etnica”.


L’equazione tra “razza” e “status di minoranza” deve essere vista nel contesto dell’effettivo potere politico e non solo in termini numerici dal momento che la Convenzione sui Rifugiati riguarda l’assenza di protezione, piuttosto che la condizione di “status di minoranza” in sé. Infatti anche i membri di una maggioranza etnica di un Paese possono essere protetti come rifugiati in base alla razza, se sono privati dei diritti civili in termini di rispetto dei diritti umani.


La direttiva europea 2004/83/CE all’articolo 10 tra i motivi di persecuzione precisa che il termine “razza” si riferisce, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico.




RELIGIONE



Il concetto di religione può essere inteso in senso lato, includendovi le credenze teiste, non teiste o atee.


La persecuzione per motivi religiosi si può manifestare in vari modi, che vanno dal divieto totale dell’esercizio del culto e dell’insegnamento religioso a misure gravemente discriminatorie nei confronti di persone appartenenti a un altro credo religioso.


Vi è persecuzione quando le ingerenze ed il danno sono sufficientemente gravi. Ciò si può verificare allorché lo Stato, oltre alle misure indispensabili per l’imposizione dell’ordine pubblico, proibisce o sanziona le attività di carattere religioso persino in ambito privato.


Ci si può trovare in presenza di persecuzioni ispirate da motivi religiosi quando tali attacchi riguardano una persona che non intende professare alcuna religione o che si rifiuta di abbracciare una determinata religione o che non intende sottomettersi a tutti i riti e gli usi connessi con una religione, o anche a una parte di essi: infatti la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ed il Patto relativo ai Diritti Civili e Politici proclamano il diritto alla libertà di pensiero.


La religione, come definita nella legge internazionale, consiste di due elementi. Secondo il primo principio gli individui hanno il diritto di esercitare o non esercitare ogni forma di teismo, di monoteismo o di credo ateistico.


Questa decisione è interamente personale: nè lo Stato nè i suoi ufficiali o agenti indiretti possono interferire con il diritto individuale di accogliere o rifiutare un credo, né possono con una loro decisione cambiare il credo di una persona.


Per il secondo principio, il diritto individuale di professare una religione implica la possibilità di vivere in conformità con il credo scelto, inclusa la partecipazione o non partecipazione al normale svolgimento dell’attività formale e rituale, il compimento di ogni altro atto religioso, l’espressione di opinioni, e gli ordini di comportamento personale.


Poichè una religione comprende sia il credo che si sceglie, sia il comportamento che ne deriva, la religione come fondamento per richiedere lo status di rifugiato include le due dimensioni.


In primo luogo vi è la protezione di persone che si trovano in serio pericolo in quanto aderenti ad una particolare religione.


Non è necessario che un richiedente abbia ricoperto un qualche ruolo attivo nella promozione del suo credo e neppure che sia particolarmente osservante dei precetti e dei rituali.


Siccome la religione include anche un comportamento che nasce dal credo, è appropriato riconoscere rifugiati le persone a rischio per aver scelto di vivere secondo le loro convinzioni. Questa affermazione è vincolata soltanto dai limiti espressi dall’accordo internazionale sui diritti civili e politici: “La libertà di manifestare la propria religione o credo può essere soggetta soltanto a quelle limitazioni previste dalla legge che sono necessarie per proteggere la sicurezza pubblica, l’ordine, la salute, la moralità o i fondamentali diritti di libertà degli altri”.


Il comportamento religioso include più dell’atto formale della preghiera e può comprendere per esempio l’obiezione di coscienza al servizio militare, nel qual caso la protezione come rifugiato è autorizzata.


La pacifica manifestazione del proprio credo religioso, inclusa la pratica religiosa con un eventuale impegno, e pertanto il proselitismo può motivare, se vietato, un bisogno di protezione.


La direttiva europea stabilisce che il termine “religione” include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione o l’astensione da riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte.




NAZIONALITA’



La nazionalità non va intesa esclusivamente nel senso di cittadinanza, ma designa anche l’appartenenza ad un determinato gruppo caratterizzato da una specifica identità culturale o linguistica o dalla sua affinità con la popolazione di un altro Stato.


Come nel caso della razza, i precedenti scritti della Convenzione non offrono una specifica definizione di nazionalità.


Un’estesa interpretazione di cittadinanza suggerisce un numero di situazioni in cui è concepibile che la privazione dei diritti civili si basi su un formale status politico.


La persecuzione per motivi di nazionalità può consistere in atteggiamenti ostili ed in misure pregiudizievoli dirette contro una minoranza nazionale (etnica e linguistica).


Primo: persone residenti internazionalmente non protette come i rifugiati e gli apolidi possono essere oggetto di abusi in materia di diritti umani a causa del loro status di stranieri non legalizzati.


Secondo: persone alle quali è stata negata la completa cittadinanza (come i palestinesi) si possono qualificare come rifugiati in base alla nazionalità.


Terzo: alcuni Stati possono privare dei diritti civili una parte della loro popolazione attribuendo loro una nazionalità differente e creando un regime che non garantisce i diritti umani di base a coloro ai quali viene assegnata questa nuova nazionalità.


Quarto: la persecuzione basata sulla nazionalità potrebbe evidenziarsi nel contesto di uno stato che faceva parte di un precedente territorio sovrano (come l’URSS).


Oltre alla nozione formale di nazionalità, è generalmente previsto che la nazionalità comprenda gruppi linguistici ed altre collettività culturalmente definite, sovrapponendosi così al concetto di razza.


Siccome molti di questi gruppi condividono un senso di comunità politica distinta da quella dello Stato-Nazione, le loro richieste di protezione come rifugiato potrebbero ragionevolmente essere determinate in base alla nazionalità così come in base alla razza.


La direttiva chiarisce che il termine “nazionalità” non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato.




GRUPPO SOCIALE



Il termine gruppo sociale è stato deliberatamente formulato in modo aperto e deve essere interpretato in modo estensivo.


Il gruppo sociale può essere definito in base a una caratteristica fondamentale (quale il sesso, le tendenze sessuali, l’età, l’appartenenza ad un nucleo familiare o le esperienze vissute) ovvero in base a un attributo talmente fondamentale per l’identità o la coscienza della persona che gli appartenenti a tale gruppo non dovrebbero essere obbligati a rinunciarvi, come, per esempio, nel caso di adesione a un sindacato o di professione dei diritti dell’uomo.


Il concetto non è confinato a limitati gruppi di persone, definiti in senso restrittivo, e non è necessaria alcuna relazione associativa su base volontaria o una coesione di fatto tra i membri.


Il riferimento al sesso e alle tendenze sessuali non implica che tale motivo di persecuzione si applichi necessariamente a tutte le donne e a tutti gli omosessuali. La sua applicazione dipenderà da particolari circostanze e dal contesto esistente nel Paese di origine, nonchè dalle caratteristiche della persecuzione e del perseguitato.


L’interpretazione dovrebbe permettere di includere gruppi di individui che sono trattati come inferiori o persone di serie B di fronte alla legge, che così facendo, tollera la persecuzione da parte di privati o altri agenti non statali o gruppi di individui ai quali lo Stato applica la legge in modo discriminatorio o che non sono tutelati perché lo Stato rifiuta di applicare la legge che dovrebbe tutelarli.


Si tratta ad esempio, della situazione in cui le donne sono vittime di violenza domestica, compresa la violenza sessuale e le mutilazioni in quegli stati nei quali non possono ottenere una tutela effettiva contro tali abusi a motivo del loro sesso o dello status sociale di donne coniugate o in quanto figlie di vedove o sorelle.


L’appartenenza ad un determinato gruppo sociale può essere all’origine di persecuzioni, perchè tale gruppo sociale non è ritenuto leale al governo ovvero perchè le opinioni politiche, i precedenti o le attività economiche dei suoi membri o l’esistenza stessa del gruppo sociale in quanto tale sono considerati di ostacolo all’attuazione delle politiche governative.


La semplice appartenenza ad un determinato gruppo sociale non sarà sufficiente per il riconoscimento dello status, se non ricorrono particolari circostanze che giustifichino il timore di persecuzioni.


Si riportano qui di seguito alcuni criteri di applicazione del motivo fondato sul gruppo sociale in riferimento al genere, all’orientamento sessuale, alla famiglia, alla classe o casta o alle associazioni volontarie.


La direttiva europea dedica particolare attenzione alla definizione di “gruppo sociale”.


Si considera che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale quando i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. Tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.



Il successivo capoverso scende ulteriormente nel dettaglio precisando che in funzione delle circostanze nel paese d’origine,un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale.A questo riguardo viene comunque.evidenziato che l’orientamento sessuale non può includere atti classificati come penali dal diritto interno degli Stati membri;possono invece valere considerazioni di genere,sebbene non costituiscano di per sé stesse una presunzione di applicabilità di questo articolo.




OPINIONI POLITICHE



Il fatto di avere opinioni politiche diverse da quelle del Governo non è in sè motivo sufficiente per rivendicare lo status di rifugiato.


Il richiedente deve dimostrare che ha ragione di temere persecuzioni a causa delle sue opinioni politiche.


E’ necessario accertare le opinioni politiche del richiedente che sono all’origine della sua condotta e verificare se queste opinioni hanno comportato o possono comportare le persecuzioni che il richiedente dichiara di temere.


Per valutare la fondatezza del timore di persecuzione occorre esaminare quali sarebbero, per il richiedente avente determinate tendenze politiche, le conseguenze di un ritorno nel proprio Paese.


Frequentemente il dissenso politico è rafforzato da restrizioni alla propria libertà personale o a quella di stretti congiunti.


In tali ipotesi si può configurare il riconoscimento dello status di rifugiato tenendo anche presente il lasso di tempo intercorso tra la persecuzione subita e l’espatrio e l’attività svolta dal richiedente in tale periodo.


Vengono spesso anche richiamate minacce ricevute, ovvero la convinzione o la sensazione di versare in stato di pericolo, a causa delle proprie opinioni o attività politiche.


In tali casi si deve accertare il rilievo della posizione assunta dal richiedente e dell’attività da lui svolta nell’ambito del contesto politico al quale appartiene, il lasso di tempo intercorso tra le minacce ricevute e l’espatrio, l’attività svolta in tale periodo, le misure di protezione che lo stesso avrebbe potuto utilmente ottenere in Patria e, infine, le circostanze dell’espatrio.


In ogni caso, per la valutazione della richiesta, occorre avere un quadro sufficientemente chiaro della situazione politica del paese di origine del richiedente: l’esistenza o meno di una pluralità di partiti o movimenti politici, se il partito o il movimento in cui militava il richiedente svolge regolarmente e liberamente le proprie attività e ha rappresentanti in parlamento e se il movimento pratica attività di violenza.


Si può, infine, configurare il riconoscimento anche nei casi in cui le minacce o i pericoli non provengano dall’Autorità al potere, purchè in questi casi sia valutata con molta attenzione l’impossibilità o la non volontà di dette autorità di offrire una adeguata protezione da altri movimenti politici di opposizione o da organizzazioni criminali o terroristiche.


Nella direttiva europea il termine “opinione politica” comprende la professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori e alle loro politiche e metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.




GUERRA



La Convenzione di Ginevra non prevede che gli Stati firmatari concedano lo status di rifugiato a coloro che abbandonano il loro Paese di origine in seguito a conflitti armati nazionali o internazionali.


La situazione infatti di generale insicurezza del Paese di origine del richiedente non costituisce di per sè sola motivo sufficiente per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma è necessaria invece la sussistenza di un fondato pericolo di persecuzione diretta e personale.


Queste situazioni sono normalmente regolamentate da provvedimenti legislativi ad hoc, che, in seguito ad afflussi massicci di profughi, concedono la protezione temporanea (vedi documento protezione umanitaria).


Se la zona da cui proviene l’interessato non era interessata da situazioni conflittuali e, pertanto, l’espatrio non può essere ricollegato a motivi di insicurezza, non ricorrono i presupposti per il riconoscimento.


Tuttavia, ove il richiedente abbia ricoperto in Patria una particolare posizione (politica, sindacale, militare, ecc) ovvero abbia acquisito, in ambito nazionale, una chiara notorietà (nel mondo dell’arte, della cultura, dello sport, ecc) può essere riconosciuto lo status in quanto maggiormente esposto, a livello individuale e in rapporto alla generalità dei connazionali, ai pericoli derivanti dalla esistente situazione conflittuale.


Va valutata caso per caso la possibilità per il richiedente di stabilirsi in un’altra zona del Paese non interessata dai conflitti, verificando le effettive condizioni di sicurezza della zona ed eventuali legami familiari (possibilità di asilo interno).


Particolare attenzione dovrà essere posta alla possibilità che il richiedente sia direttamente o moralmente responsabile di precedenti azioni efferate o disumane (vedi documento sulle clausole di esclusione).




RENITENZA ALLA LEVA E DISERZIONE



La renitenza alla leva e la diserzione non sono di per sè rilevanti ai fini del riconoscimento. Nei Paesi in cui il servizio militare è obbligatorio il fatto di sottrarsi a tale obbligo è un reato punito dalla legge.


La diserzione poi è sempre considerata come reato, sia che il servizio militare sia obbligatorio o meno. Le pene possono variare da Paese a Paese e normalmente non sono considerate come una forma di persecuzione.


Pertanto, il timore dell’incriminazione e della punizione per diserzione o renitenza alla leva non costituisce di per sé un fondato timore di persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. L’avversione al servizio militare o la paura di combattere non sono validi motivi di riconoscimento.


Si può procedere al riconoscimento qualora il richiedente dimostri che, nel suo Paese, in caso di diserzione o renitenza, si vedrebbe infliggere una pena sproporzionata a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche.


Quando il tipo di azione militare cui il richiedente non ha inteso prendere parte è condannato dalla comunità internazionale come contrario a fondamentali regole umanitarie di condotta, la diserzione o renitenza possono, alla luce di tutti gli altri requisiti, portare al riconoscimento dello status.


Se il rifiuto di compiere il servizio militare è basato su convinzioni religiose, il richiedente deve dimostrare che le sue convinzioni religiose sono sincere e che esse non vengono prese in considerazione dalle autorità del suo Paese, quando gli chiedono di compiere il servizio militare.


Diverso, invece, è il caso in cui il richiedente abbia iniziato la carriera militare per libera scelta.


La questione se l’obiezione di coscienza al compimento del servizio militare possa motivare una domanda di riconoscimento dello status va considerata sulla base dei seguenti elementi.


Numerosi Stati hanno introdotto nella loro legislazione o nei loro regolamenti amministrativi delle disposizioni che consentono a coloro che possono addurre effettive ragioni di coscienza l’esonero dall’obbligo al servizio militare o totalmente o a condizione di compiere un servizio alternativo (servizio civile).


L’autenticità delle convinzioni politiche, religiose, o morali del soggetto o la validità delle ragioni di coscienza addotte devono essere ovviamente stabilite mediante un esame approfondito della personalità e della condotta anteriore.


Nella direttiva europea al capo III “Requisiti per essere considerato rifugiato” all’articolo 9 “Atti di persecuzione”, al secondo capoverso, viene tra l’altro precisato che gli atti di persecuzione, specificati precedentemente, possono tra l’altro assumere la forma di azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione.




CAUSE SOCIO-ECONOMICHE



L’espatrio teso ad ottenere migliori condizioni di lavoro o per godere di maggiori libertà democratiche non costituisce motivo di riconoscimento.


E’ da notare al riguardo che tale argomentazione non viene generalmente addotta come unico motivo, ma congiuntamente ad altre cause (dissenso politico, situazioni di guerra civile, ecc.)











NOTE SULL’APPLICABILITA’ DELL’ART. 1D DELLA CONVENZIONE DEL 1951 SULLO STATUS DEI RIFUGIATI IN RELAZIONE AI RIFUGIATI PALESTINESI














Articolo 1D della Convenzione di Ginevra del 1951



“La presente Convenzione non potrà applicarsi a coloro che beneficiano attualmente di protezione o assistenza da parte di organi o agenzie delle Nazioni Unite diverso dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.


Qualora questa protezione o questa assistenza, per un qualunque motivo dovessero venire a cessare, senza che la situazione di queste persone sia stata definitivamente regolata in conformità con le risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, costoro avranno pieno diritto di usufruire del regime previsto dalla presente Convenzione.”


La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Status di Rifugiato prevede, al paragrafo 1 dell’art. 1 d, che siano escluse dalla categoria di Rifugiati quelle persone che non possiedono le caratteristiche di rifugiato e per le quali vi sono degli accordi separati che prevedono che esse ricevano protezione e assistenza da agenzie o organi delle Nazioni Unite diversi dall’Alto Commissariato delle nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR).


Nel contesto attuale, si escludono dai benefici della Convenzione del 1951 quei Palestinesi, rifugiati a seguito dei conflitti arabo-israeliani del 1948 e del 1967, che ricevono protezione o assistenza da parte dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East).


Sebbene il paragrafo 1 dell’art. 1 D rappresenti una clausola di esclusione, ciò non vuol dire che non vi possano mai essere dei rifugiati Palestinesi che possano beneficiare della protezione della Convenzione di Ginevra del 1951.


Il paragrafo 2 dell’art. 1 D contiene una clausola di inclusione assicurando l’automatico diritto di tali rifugiati ai benefici della Convenzione del 1951 qualora, senza che la situazione di queste persone sia stata definitivamente regolata in conformità con le risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per qualunque motivo la protezione o assistenza dovessero cessare.


La Convenzione del 1951 auspica che non si verifichi alcuna sovrapposizione di competenze tra l’UNRWA e l’ACNUR, ma, anche, che si assicuri, conformemente allo Statuto dell’ACNUR, continuità di protezione e di assistenza ai rifugiati Palestinesi, se necessaria.





I RIFUGIATI PALESTINESI CHE RIENTRANO NELL’ARTICOLO 1D DELLA CONVENZIONE DEL 1951



Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), vi sono due gruppi di rifugiati palestinesi che rientrano nei criteri stabiliti dall’art.1D della Convenzione del 1951:


- i rifugiati della Palestina, ai sensi della Risoluzione 194(III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1948 e in base ad altre Risoluzioni dell’Assemblea Generale, che provengono da quella parte della Palestina diventata poi Israele e pertanto non sono nelle condizioni di potervi tornare.


- sfollati palestinesi, ai sensi della Risoluzione 2252 (ES-V) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 4 luglio 1967 e in base a successive Risoluzioni dell’Assemblea Generale, che non possono ritornare nei territori palestinesi occupati da Israele dal 1967.


Ai fini dell’applicazione della Convenzione del 1951, in entrambe queste categorie rientrano sia coloro che erano “profughi” al tempo delle ostilità, sia i loro eredi-discendenti.


Inoltre, coloro a cui si applicano gli articoli 1c, 1e e 1f della Convenzione non rientrano nelle finalità dell’art. 1d, anche se persiste lo status di “Rifugiato della Palestina” o di “sfollato palestinese”, quando la loro posizione non sia stata ancora definita in accordo con le Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.


Vi è infine una terza categoria di Palestinesi che, non rientrando nelle due sopraindicate, temendo a ragione di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, si trovano al di fuori dei territori Palestinesi occupati da Israele dal 1967 e non vi possono fare rientro,


A questi ultimi non si applica l’art. 1d della Convenzione, ma rientrano nelle finalità dell’art. 1° (2) della Convenzione di Ginevra del 1951.




Applicabilità dell’articolo 1d della Convenzione del 1951



· Qualora si determini che un rifugiato Palestinese rientri nell’art. 1d della Convenzione, bisogna stabilire se ricade nel paragrafo 1 o 2 dell’Articolo stesso.


· Qualora la persona in questione si trovi nell’area operativa dell’UNRWA e vi è stato registrato o ha il diritto ad esserlo, è nelle condizioni di ricevere protezione ed assistenza ai sensi dell’art. 1d e pertanto è escluso dalla protezione da parte dell’ACNUR in quanto rifugiato ai sensi della Convenzione.


· Qualora una persona si trovi al di fuori dell’area operativa dell’UNRWA ovvero non goda più della protezione e dell assistenza da parte dell’UNRWA e pertanto ricada nel paragrafo due dell’art. 1d, allora ha diritto di godere dei benefici previsti della Convenzione del 1951 e rientra nelle competenze dell’ACNUR. Questo è anche il caso di persone che non abbiano mai risieduto nelle aree operative dell’UNRWA.


· Vi sono anche persone che rientrano nel paragrafo 2 art. 1d, ma per le quali non è escluso che possano rientrare nell’area operativa dell’UNRWA, nel qual caso cesserebbe la protezione della Convenzione e dell’ACNUR. Vi possono essere fondate ragioni per cui una persona non può o non vuole rientrare sotto la protezione dell’UNRWA. In particolare:


1. Non vi sia la volontà per paura di minacce contro la propria libertà e incolumità fisica, nonchè per altri problemi legati alla protezione oppure


2. Non vi possa far ritorno, poichè le autorità competenti hanno rifiutato la riammissione o il rinnovo dei documenti di viaggio.




Registrazione presso l’UNRWA



L’UNRWA nasce a seguito della Risoluzione n. 302 (IV) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’8 dicembre 1949, al fine di “portare avanti una collaborazione con i governi locali per programmi di soccorso e lavoro” per i rifugiati Palestinesi e per “operare con i Governi del Medio Oriente sulle misure da prendere nel caso in cui la protezione internazionale per il soccorso ed il lavoro non sia più disponibile”.


Dal 1967 l’UNRWA è stata autorizzata a prestare assistenza anche a persone che non erano rifugiati palestinesi.


La risoluzione 2252 del 1967 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite intensifica gli sforzi dell’UNRWA per “fornire assistenza umanitaria, sulla base dell’emergenza e come misura temporanea, ad altre persone che in quel momento erano profughi e avevano un immediato bisogno di assistenza a causa delle ostilità”.


In seguito all’UNRWA è stato concesso, con scadenza annuale, di continuare a prestare assistenza.


Secondo quanto stabilito dall’UNRWA, può definirsi “Rifugiato della Palestina” colui che aveva come luogo di residenza abituale la Palestina tra il 1 giugno 1946 e il 15 maggio 1948, e che ha perso sia la casa sia i mezzi di sussistenza come conseguenza del conflitto del 1948”.


Inoltre, le persone registrate presso l’UNRWA sono: sia i Rifugiati Palestinesi, sia le persone che fino ad oggi sono state profughi e che necessitano di assistenza a causa del conflitto del giugno 1967 e le successive ostilità; gli eredi maschi delle suddette persone; e altri.


Le aree operative dell’UNRWA sono oggi limitate a 5: Libano, Giordania, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza.


Per stabilire se un rifugiato palestinese sia registrato o abbia il diritto ad esserlo presso l’UNRWA, si esaminano individualmente tutti i casi. Infatti, non tutti i “rifugiati palestinesi” che risiedono nelle aree operative dell’UNRWA vi sono registrati.







NORMATIVA EUROPEA



Anche la direttiva europea all’articolo 12 ribadisce questo concetto citando”Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se rientra nel campo di applicazione dell’articolo 1D della convenzione di Ginevra,relativo alla protezione o assistenza di un organo o di un’agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.


Quando siffatta protezione o assistenza cessi per qualsiasi motivo, senza che la posizione di tali persone sia stata definitivamente stabilita in conformità delle pertinenti risoluzioni adottate dall’assemblea generale delle Nazioni Unite,queste persone sono ipso facto ammesse ai benefici previsti da questa direttiva.



Articolo 12:Esclusione


Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se:


a) rientra nel campo d’applicazione dell’articolo 1D della convenzione di Ginevra, relativo alla protezione o assistenza di un organo o di un’agenzia delle Nazioni unite diversi dall’Alto Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati. Quando siffatta protezione o assistenza cessi per qualsiasi motivo, senza che la posizione di tali persone sia stata definitivamente stabilita in conformità delle pertinenti risoluzioni adottate dall’ assemblea generale delle Nazioni unite, queste persone sono ipso facto ammesse ai benefici della presente direttiva.
















LE CLAUSOLE


DI ESCLUSIONE













L’Art. 1f della Convenzione di Ginevra recita: “Le disposizioni della presente Convenzione non si applicheranno a quelle persone nei confronti delle quali si hanno serie ragioni per ritenere:


a) che abbiano commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, come definito negli strumenti internazionali elaborati per stabilire disposizioni riguardo a questi crimini;


b) che abbiamo commesso un crimine grave di diritto comune al di fuori del paese di accoglimento e prima di esservi ammesse come rifugiati;


c) che si siano rese colpevoli di azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”.



Legislazione Italiana


A proposito delle clausole di esclusione, la legge 28.02.1990 n. 39 recita:


“Non è consentito l’ingresso nel territorio dello Stato dello straniero che intende chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato quando, da riscontri obiettivi da parte della polizia di frontiera, risulti che il richiedente:


a) sia stato già riconosciuto rifugiato in un altro Stato. In ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli Stati di cui all’art. 7, comma 10;


b) provenga da uno Stato, diverso da quello di appartenenza, che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, nel quale abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerandosi in questo tempo quello necessario per il transito del relativo territorio sino alla frontiera italiana.


In ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli Stati di cui all’art. 7, comma 10;


c) si trovi nelle condizioni previste dall’art. 1, paragrafo F, della Convenzione di Ginevra;


d) sia stato condannato in Italia per uno dei delitti previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 c.cp., o risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato, ovvero risulti appartenere ad associazioni di tipo mafioso o dedite al traffico degli stupefacenti o appartenere ad associazioni terroristiche”.



Il Manuale UNHCR per la determinazione dello status di rifugiato dispone che tali clausole siano da interpretarsi restrittivamente, in considerazione delle gravi conseguenze derivanti dall’esclusione dell’aspirante e in conseguenza dello standard di prova necessario più basso di quello previsto per l’espulsione ai sensi dell’art. 33, 2° della Convenzione di Ginevra.[1]


La competenza per decidere la sussistenza di tali condizioni spetta allo Stato ospitante, in base a “fondati motivi” che facciano ritenere che il richiedente sia un criminale. Motivi che possono essere desunti anche da testimonianze credibili e non contrastanti o da altre informazioni attendibili. Il richiedente può, ovviamente, respingere o confutare le accuse nei suoi confronti.



Art. 1F (a) Crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, sono definiti da numerosi trattati internazionali.


Consideriamo i singoli crimini di cui alla lettera F dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra:


Crimini contro la pace definiti dalla Carta di Londra come corrispondenti alla “Programmazione, attivazione e conduzione di una guerra di oppressione o una guerra in violazione dei trattati o accordi internazionali, o la promessa o partecipazione ad un piano o cospirazione comune contro i medesimi”. Il riferimento alla programmazione e conduzione di guerre o conflitti armati porta ad escludere i singoli. Tale clausola dovrebbe riguardare i rappresentanti o coloro che agiscono in rappresentanza di uno Stato o di un altro gruppo organizzato. La giurisprudenza nel caso è comunque scarsa.


Crimini di guerra comportano la violazione delle leggi e delle consuetudini facenti parte del diritto internazionale e delle leggi di guerra. La Carta di Londra include in tale categoria l’omicidio, il maltrattamento delle popolazioni civili o dei prigionieri di guerra, l’uccisione di ostaggi o la spietata distruzione di città, paesi o villaggi o qualsiasi devastazione non giustificata dalle necessità militari.


Crimini di guerra vengono inoltre definiti i “gravi abusi” specificati dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dal Protocollo Supplementare I, ovvero l’uccisione o tortura intenzionale o altri trattamenti disumani atti a provocare gravi sofferenze o danni al corpo o alla salute.


Nel 1993 lo Statuto del Tribunale Criminale Internazionale per la ex-Jugoslavia ha fornito un elenco delle azioni che sono considerate crimini di guerra, includendo sia quelle stabilite dalla Carta di Londra, sia i “gravi abusi” previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1949 e dai Protocolli addizionali.


Originariamente erano considerati crimini di guerra solo quelli commessi nell’ambito di conflitti armati internazionali. Oggi vengono generalmente compresi tra i crimini di guerra anche quelli commessi nell’ambito di conflitti interni.[2]


Crimini contro l’umanità definiti dalla Carta di Londra sono stati successivamente estesi nella loro portata.[3]


Attualmente i Tribunali Penali Internazionali per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda considerano crimini contro l’umanità i reati quali l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, l’imprigionamento, la tortura, il rapimento, le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi ed altri atti disumani.


Da ultimo l’art. 7 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale, approvato a Roma il 17 luglio 1998, basandosi sulle precedenti esperienze dei suddetti Tribunali ad hoc, ha ulteriormente definito la figura dei crimini contro l’umanità.


Le azioni in questione devono essere parte di una politica di persecuzione o discriminazione contro la popolazione civile, prevista ed effettuata in modo sistematico o tramite azioni di massa; anche azioni contro i singoli possono costituire crimini contro l’umanità, purchè siano parte di un sistema coerente o di una serie di azioni sistematiche. I reati isolati non si qualificano di per sè come crimini contro l’umanità. Inoltre, tali crimini possono essere commessi sia in tempo di pace che di guerra, in conflitti interni o internazionali.[4]



Art. 1F (b) Gravi crimini di diritto comune


Si definisce crimine, secondo il linguaggio comune, un’azione o un’omissione compiuta in violazione della legge. La International Law Commission definisce il crimine, secondo la legislazione internazionale, come “l’abuso commesso in violazione di una norma di legislazione internazionale accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nella loro totalità, avente carattere talmente fondamentale che la sua violazione comporta la responsabilità criminale degli individui”.


La qualificazione di tali crimini come internazionali non implica l’estradizione dei rifugiati verso un paese in cui potrebbero incorrere in persecuzione. La conclusione n. 17 (XXXI) del Comitato Esecutivo delle N.U. ha ritenuto che i richiedenti possono essere protetti, nel caso abbiano fondati motivi di temere persecuzioni da parte del paese che ha fatto richiesta di estradizione.


Grave crimine, secondo il Manuale UNHCR significa crimine capitale o azione punibile molto grave (l’omicidio, lo stupro, l’incendio doloso e la rapina a mano armata). I reati minori (piccoli furti, detenzione e uso di droghe, l’approvazione indebita), non comporterebbero l’esclusione ai sensi dell’art. 1F (b). Dottrina e giurisprudenza sono d’accordo nel considerare “gravi crimini” soprattutto quelli contro l’incolumità fisica, la vita e la libertà.


L’obiettivo dell’art. 1F(b) è quello di escludere dalla protezione solo coloro che non la meritano per il carattere criminale delle loro azioni. Diversi i fattori che contribuiscono alla definizione della “gravità” e della “non-politicità” del crimine: la natura dell’atto, la portata degli effetti e il movente. Bisogna valutare, a tal proposito:


· se i mezzi usati fossero ragionevoli o logici e se vi fossero mezzi alternativi;


· se la gravità dell’offesa è proporzionale all’obiettivo politico e se esiste un legame stretto e diretto tra offesa e obiettivo politico.


Le diverse legislazioni statali non sono univoche, né in linea con la legislazione internazionale. Si assiste ad una tendenza sempre più accreditata a “depoliticizzare” alcuni tipi di offesa quale il dirottamento, il sequestro di ostaggi, offese contro il corpo diplomatico e il terrorismo che sono state, in questo periodo storico, oggetto di profonda revisione.


Il reato deve essere stato commesso fuori del paese di asilo, in epoca anteriore all’ammissione dell’aspirante. Anche in questo caso le interpretazioni non sono univoche. Il Manuale UNHCR è però chiaro nel valutare il dettato normativo: il crimine deve essere commesso “al di fuori del paese di asilo in epoca anteriore alla richiesta di ammissione alla procedura”.


Da non confondere il grave crimine non politico dell’art. 1F con gli standard previsti ex art. 33 (2) che sancisce il principio del non-refoulement, ovviamente molto più restrittivo nella considerazione dei motivi per l’espulsione. In questo caso è richiesta una sentenza finale che attesta la pericolosità per lo Stato di asilo di ospitare quella persona sul suo territorio.



Art. 1F (c) Atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite


Si considerano scopi e principi delle Nazioni Unite quelli contenuti nei primi due articoli della Carta dell ONU. Gli obiettivi principali sono: prevenzione della guerra, riaffermazione dei diritti umani, stabilizzazione delle condizioni necessarie per il mantenimento della giustizia, rispetto degli obblighi, promozione del progresso sociale e dei più alti livelli di vita in condizioni di libertà più ampia.


Nei lavori preparatori della Convenzione di Ginevra si considerano come potenziali destinatari di questa norma le persone di potere, gli unici che avrebbero verosimilmente la possibilità di violare i princìpi ONU. Anche secondo il Manuale UNHCR l’eventuale destinatario della norma deve aver ricoperto una posizione di potere.


Il testo di Peter J. Van Krieken, “The exclusion clause”, nei cenni storici del comma, riporta invece due scuole di pensiero. A fronte di quella che vede, come sopra accennato, tra i destinatari solo persone “in posizione di potere”, capi di stato e alti ufficiali, vi è quella che estende la portata della norma anche alla responsabilità degli individui non connessi con il potere.


Lo stesso testo ammette, da ultimo, che la distinzione diventa accademica, considerando che individui che agiscono contro i principi delle Nazioni Unite ricadono più facilmente nei casi degli artt. 1 (F (a) e (b).


Si può affermare, infine che gli esclusi secondo l’art. 1F (c) sono:


· coloro che ricoprono incarichi politici o hanno responsabilità politiche, quando sono coinvolti in violazione di diritti umani o attività contrarie agli scopi delle N.U.;


· coloro che sono deputati a realizzare quelle politiche nelle medesime situazioni;


· gli individui, che facciano o meno parte di organizzazioni, che abbiano partecipato ad azioni in violazione dei diritti umani;


La portata dell’articolo 1F (c) è vasta. Dall’incontro di Vancouver del 26 aprile 2002 degli Esperti sull’Asilo del G8 è risultato infatti che l’art. F (c) viene utilizzato in modo sempre più frequente. La Risoluzione UNHCR 1373 stabilisce per detta clausola un’ampia base di applicazione.


Gli Esperti del G8 hanno inoltre stabilito che l’art. 33 (2) della Convenzione di Ginevra permette ai paesi del G8 e a tutti i paesi firmatari di allontanare dai loro territori persone che hanno collegamento con il terrorismo e che sono state riconosciute come rifugiate. Inoltre, dopo che una persona è stata riconosciuta come rifugiata, in base a nuove informazioni che indichino collegamenti o possibili collegamenti con attività o organizzazioni terroristiche, lo status di rifugiato può essere revocato o annullato. Nonostante tali disposizioni di esclusione, gli impedimenti alla restituzione o allontanamento di un individuo che ha legami con il terrorismo nel paese di origine o in un paese terzo possono essere molti (ad es., questioni umanitarie legate alla sicurezza dell’individuo, obblighi internazionali come la Convenzione contro la Tortura o altri strumenti di tutela dei Diritti Umani, ecc.).



Casi di colpevolezza per associazione


E’ un problema stabilire se le persone rientrino nelle clausole di esclusione a causa di azioni od omissioni loro imputabili o a causa di azioni o omissioni di associazioni o partiti di cui quelle persone facevano parte. Sarebbe il caso degli alti funzionari di regimi o governi repressivi, in quanto tali persone sarebbero automaticamente escluse, per l’ovvia presunzione di un loro coinvolgimento nelle politiche di repressione e la possibilità, per la carica ricoperta, di poter evitare ogni sanzione. Alcuni Stati, come ad es. il Canada, hanno già emanato leggi che stabiliscono il concetto di “colpevolezza per associazione”.


Esempi storici si sono avuti con la Somalia di Siad Barre, con la Bosnia-Erzegovina, con Haiti di Duvalier e con l’Afghanistan.


Le persone non vengono escluse automaticamente in base alla carica da loro ricoperta, ma devono in ogni caso ricorrere i giusti motivi delle clausole. Inoltre è necessario comprendere il ruolo svolto effettivamente. Non è necessario che il funzionario abbia personalmente compiuto l’atto, ma è sufficiente che ne avesse conoscenza diretta. Lo stesso dicasi per l’individuo che non si è disimpegnato dal governo.



Possibili attenuanti


Vengono spessissimo invocati come attenuanti gli “ordini superiori”. Tuttavia è principio consolidato che l’aver eseguito tali ordini non assolve dalla colpa e tale principio è stato riaffermato anche dallo Statuto del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia. E’ necessario analizzare i singoli casi per individuare il vero grado di coinvolgimento del richiedente nelle politiche del governo e la sua appartenenza o associazione ad un gruppo che commette crimini o perora la causa della violenza.[5]


Le clausole di esclusione si riferiscono a crimini effettivamente commessi e non viene fatto riferimento a coloro che solo “indirettamente” hanno contribuito al crimine. E’ necessario valutare caso per caso.


La mera appartenenza a gruppi o associazioni che praticano la violenza non è sufficiente a dar luogo all’esclusione. Nel 1988 l’UNHCR ha emesso un documento sulla “determinazione dello status di rifugiato per le persone connesse ad organizzazioni e gruppi che praticano la violenza e/o ne perorano la causa (UNHCR IOM/FOM/78/71), in cui si sottolinea che il richiedente non deve essere escluso, se è in grado di testimoniare in maniera plausibile di non aver commesso, nè di essere coinvolto direttamente o indirettamente nella perpetrazione dei crimini previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951.


L’appartenenza a gruppi terroristici può implicare l’applicazione delle clausole di esclusione.


Non vi è “automatica esclusione” ma rimane una “confutabile presunzione”. L’onere della prova cade sul richiedente, che deve essere in grado di dimostrare la sua estraneità agli atti criminosi.



Il caso dei persecutori


Persecutori sono persone di cui è evidente la colpevolezza. La domanda è: si possono proteggere queste persone in base alla Convenzione di Ginevra del ’51?


L’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati lo esclude. Alcune legislazioni nazionali hanno legiferato la loro esclusione. Ad es., gli Stati Uniti. Inoltre l’art. 1F (a) sembra escludere i persecutori.



Il caso del dirottamento


Tale caso è esplicitamente contemplato da due Convenzioni. L’esclusione non è automatica, poiché dipende da quanto il dirottatore avesse necessità di fuggire da un determinato paese. Bisogna misurare la gravità dell’atto e le motivazioni del dirottatore. In ogni caso va tenuto conto del principio di non-refoulement.



Il caso della tortura


La Convenzione contro la Tortura è collegata alle clausole di esclusione, perchè può rientrare negli artt. 1F(a), 1F(b) e 1F(c).


La tortura è definita come “qualsiasi atto per mezzo del quale si infligge intenzionalmente ad una persona violento dolore o sofferenza sia fisica sia mentale o da parte di un pubblico ufficiale o su istigazione o con il consenso o acquiescenza di questo”.


La tortura è considerata un atto di “negazione della carta ONU” e una “violazione dei diritti umani fondamentali”. È considerata un crimine particolarmente grave.



Altre conseguenze pratiche dell’esclusione


Le persone escluse in base alle suddette clausole possono chiedere la protezione umanitaria o, comunque, usufruire del principio di non respingimento. I casi vanno, ad ogni modo, giudicati singolarmente.


Un ulteriore problema riguarda i familiari del rifugiato che rientrano nelle clausole di esclusione. Nel caso che il familiare sia un minore bisogna procedere con cautela, agendo “nel migliore interesse del minore”.


Nel caso contrario, l’esclusione di un membro della famiglia in base alle clausole non impedisce la presentazione della richiesta da parte degli altri membri.





NORMATIVA EUROPEA



Nella direttiva europea all’articolo 12 vengono ovviamente ribadite le clausole di esclusione. Rispetto a quanto previsto dalla convenzione di Ginevra la direttiva si sofferma in modo particolare sul paragrafo b) relativo ai gravi crimini di diritto comune commessi al di fuori del paese di accoglimento. In sostanza il dispositivo della direttiva, non attaccando la sostanza, formula solo in maniera più esaustiva il concetto.


La direttiva per questo paragrafo cita: ”che abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato. Si ritiene di dover sottolineare soprattutto il secondo periodo”abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune.


Il 3 comma sottolinea che i casi delle clausole di esclusione si applicano anche alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione di crimini, reati o atti sopra citati.


Nel preambolo della citata direttiva viene più volte fatto riferimento al pericolo del terrorismo e alla lotta al terrorismo più volte ribadita nei documenti dell’Unione europea. Il consiglio, nel confermare il diritto di asilo in Europa mette in guardia gli Stati membri dalla circostanza che persone colpevoli di gravi crimini possano strumentalizzare tale procedura.



Articolo 12



1. Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato ove sussistano fondati motivi per ritenere:


a) che abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali a tali crimini;


b) che abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato, abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune;


c) che si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni unite.


2. Il paragrafo 2 si applica alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati.









RIFERIMENTI NORMATIVI INTERNAZIONALI:



· Convenzione di Ginevra (1951)


· Protocollo di New York Relativo allo Status di Rifugiato (1967)


· Articolo 3 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – Convenzione Europea dei Diritti Umani (1950)


· Articolo 3 Convenzione ONU contro la Tortura (1984)



ed inoltre:


· Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948)


· Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici (1966)


· Dichiarazione sull’asilo territoriale – ONU (1967)


· Dichiarazione sui diritti umani delle persone che non sono cittadini del paese in cui vivono (1985)



e i seguenti strumenti del Consiglio d’Europa:


· Raccomandazione 434 sul diritto di asilo (1965)


· Risoluzione 14 sul diritto di asilo delle persone esposte al rischio di persecuzione (1967)


· Raccomandazione 773 sui rifugiati “de facto” (1976)


· Raccomandazione 817 su taluni aspetti del diritto di asilo (1977)


· Raccomandazione 1 sulla protezione delle persone che soddisfano i criteri della Convenzione di Ginevra, ma non sono formalmente riconosciute quali rifugiati (1984)


· Raccomandazione 1088 sul diritto di asilo territoriale (1988)


· Raccomandazione 1236 sul diritto di asilo territoriale (1994)


· Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale (1998)


· Statuto del Tribunale Internazionale per l’ex Jugoslavia













TUTELA INTERNAZIONALE


DEI MINORI


NON ACCOMPAGNATI













DEFINIZIONE



Il Decreto Legislativo del 7 aprile 2003, n. 85 stabilisce che minori non accompagnati sono i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione Europea o gli apolidi di età inferiore ai diciotto anni che entrano nel territorio Nazionale senza essere accompagnati da una persona adulta, finché non ne assuma effettivamente la custodia una persona per essi responsabile, ovvero i minori che sono stati abbandonati una volta entrati nel territorio nazionale.




PROCEDURA



Una volta giunti alla frontiera, viene data comunicazione della domanda al Tribunale dei minori competente per territorio ai fini della adozione dei provvedimenti di competenza. (D. Leg. 39/90)



Considerata la delicata situazione dei minori, si è ritenuto necessario adottare dei principi comuni anche a livello europeo.


In materia si cita la Risoluzione del Consiglio Europeo del 26 giugno 1997 che stabilisce:


· I campi di applicazioni e gli obiettivi


· L’ammissione e le garanzie minime


· Le procedure d’asilo


· Il rimpatrio di minori non accompagnati



Tutte le disposizioni contenute nella suddetta risoluzione fanno riferimento all’art. 3 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che stabilisce che deve essere sempre perseguito “il miglior interesse del minore”


Secondo quanto indicato nelle Linee Guida formulate dall ACNUR nel febbraio 1997 sulle politiche e le procedure relative ai minori non accompagnati richiedenti asilo, particolare rilievo si deve attribuire al fatto che, ai sensi della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, ai bambini sono riconosciuti specifici diritti e i modi in cui tali diritti sono violati spesso differiscono dalle violazioni dei diritti degli adulti. Alcune politiche e pratiche costituiscono gravi violazioni di diritti specifici dei bambini e, in alcune circostanze, conducono a situazioni che ricadono negli scopi della Convenzione sui Rifugiati. Esempi di tali politiche e pratiche sono il reclutamento dei bambini come soldati regolari o irregolari, la loro sottomissione al lavoro forzato, il traffico di bambini per la prostituzione e lo sfruttamento sessuale e pratiche di mutilazione genitale femminile.




INTERVISTA



Durante il colloquio i minori non accompagnati possono essere assistiti da quegli adulti o dai rappresentanti delle istituzioni che devono tutelare gli interessi del minore. In sede di esame della domanda di asilo di un minore non accompagnato bisogna considerare, oltre ai fatti e alle circostanze oggettive, anche l’età, la maturità, lo sviluppo mentale del minore, nonchè una limitata conoscenza della situazione del Paese di origine. (Risoluzione del Consiglio Europeo 26-6-1997).


Inoltre, si riportano qui di seguito le indicazioni fornite dall’UNHCR sulle linee guida per l’intervista dei minori non accompagnati:



- assicurarsi che il minore non accompagnato abbia accesso alle procedure sulla determinazione dello status di rifugiato;


- informare un minore, se in grado di comprendere il significato dello status di rifugiato, delle procedure in merito. Ciò significa anche fargli comprendere dove si trova e che decisioni vengono prese;


- qualora un minore non accompagnato arrivi come parte di un flusso di larga scala, ai cui membri adulti sia stato prima facie riconosciuto lo status di rifugiato, ciascun minore dovrebbe automaticamente ricevere lo status di rifugiato;


- dare rilevanza al fatto che non ci sono risposte giuste o sbagliate alle domande che gli vengono poste;


- bisogna che l’intervistatore e l’interprete conoscano la lingua e la cultura del richiedente asilo; gli interpreti dovrebbero essere, tra l’altro, addestrati a lavorare con i bambini;


- adottare tecniche di intervista a seconda della maturità del minore. Ad esempio utilizzare un linguaggio semplice e passare del tempo con lui per stabilire una relazione di reciproca fiducia. Spiegare il perchè vengono fatte alcune domande. Inoltre, il minore dovrebbe essere incoraggiato a fare lui domande durante l’intervista;


- qualora il minore non voglia o non possa parlare di un determinato evento durante l’intervista, si deve tralasciare. Spiegare al minore che si comprende la situazione e che quindi si tralascia l’argomento per un momento successivo della stessa intervista o per altra occasione;


- l’intervistatore dovrebbe essere in grado di capire quando il minore ha dato il massimo, facendo un intervallo, o posporre l’intervista nel caso in cui il minore abbia raggiunto un elevato stato di ansia;


- essere consapevoli che si possono ottenere le informazioni anche da altri e non necessariamente dal minore: avere le informazioni da membri della famiglia o dal tutore, ottenere prove da medici, psicologi ed assistenti sociali;


- l’intervista dovrebbe concludersi con una discussione sugli eventi del giorno che dia una sensazione di sicurezza. Il minore ha bisogno di tempo dopo l’intervista per recuperare le sue capacità. (es. le interviste non dovrebbero essere fatte quando i bambini devono andare a letto, oppure durante le ore di scuola.)




NORMATIVA EUROPEA



In varie parti della direttiva europea viene fatto riferimento ai minori e ai minori non accompagnati.


Innanzitutto nelle premesse al punto 12 viene specificato che nell’applicare la direttiva gli stati membri dovrebbero attribuire fondamentale importanza all’”interesse superiore del minore”Al punto 20 “ nel valutare le domande di protezione internazionale presentate da minori,è necessario che gli Stati membri considerino con attenzione le forme di persecuzione riguardanti specificatamente i minori.


All’articolo 4 “esame dei fatti e delle circostanze” prevede che l’esame della domanda tenga conto della situazione individuale ed in particolare dell’età. All’articolo 9 tra gli atti di persecuzione sono citati esplicitamente “gli atti diretti contro l’infanzia”.


Infine l’articolo 30 è interamente dedicato ai minori non accompagnati in particolare in questo articolo viene ricordata la necessità della nomina di un tutore,di una adeguata soluzione alloggiativi dello stesso Sempre a tutela del prevalente interesse del minore non accompagnato gli stati si adoperano per rintracciare quanto prima i suoi familiari,garantendo in ogni caso la massima riservatezza per evitare rischi per la vita o l’integrità del minore o dei suoi parenti stretti,in particolare se questi sono rimasti nel Paese di origine.



Ovviamente ai minori beneficiari dello status viene garantito il pieno accesso al sistema scolastico.



Articolo 30: Minori non accompagnati



1. Gli Stati membri adottano quanto prima dopo la concessione dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, misure atte ad assicurare la necessaria rappresentanza dei minori non accompagnati, da parte di un tutore legale oppure, ove necessario, la rappresentanza da parte di un organismo incaricato della cura e del benessere dei minori, oppure qualsiasi altra forma adeguata di rappresentanza, inclusa quella basata sulla legislazione o su un provvedimento giudiziario.


2. Nel dare attuazione alla presente direttiva, gli Stati membri provvedono affinché le esigenze del minore siano debitamente soddisfatte dal tutore o rappresentante designato. Le autorità competenti procedono a valutazioni periodiche.


3. Gli Stati membri provvedono affinché i minori non accompagnati siano alloggiati:


a) presso familiari adulti;


b) presso una famiglia affidataria;


c) in centri specializzati nell’ospitare i minori;


d) secondo altre modalità che offrano un alloggio idoneo per i minori. In questo contento si tiene conto del parere del minore conformemente all’età e al grado di maturità dello stesso.



4. Per quanto possibile i fratelli sono alloggiati insieme, tenendo conto del prevalente interesse del minore in questione e, in particolare, della sua età e del grado di maturità. I cambi di residenza di minori non accompagnati sono limitati al minimo.


5. Gli Stati membri, a tutela del prevalente interesse del minore non accompagnato, si adoperano per rintracciare quanto prima i suoi familiari. Nei casi in cui sussistano rischi per la vita o l’integrità del minore o dei suoi parenti stretti, in particolare se questi sono rimasti nel paese di origine, la raccolta, il trattamento e la diffusione delle informazioni relative a queste persone sono effettuate in via confidenziale.


6. Le persone che si occupano di minori non accompagnati devono aver ricevuto o ricevono una specifica formazione in merito alle particolari esigenze degli stessi.













PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLE DONNE


VITTIME DI VIOLENZA














Oggi giorno nel mondo sono milioni le persone, in particolare donne, che subiscono violenza.


La Convenzione di Ginevra del 1951 sul riconoscimento dello status di rifugiato non riconosce la violenza, de facto, come motivo per concedere lo status di rifugiato. In base all’art. 1 si definisce rifugiato colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, far rientro nel proprio Paese.


Verso la fine degli anni 80 e gli inizi 90, tuttavia, cominciò ad emergere a livello internazionale il problema della violenza sulle donne in quanto appartenenti al genere, tanto da spingere l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a adottare una Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro la donna[6] e a istituire nel 1994 presso la Commissione per i diritti umani uno Special Rapporteur per indagare e riferire sui casi di violenze contro le donne, le loro cause e conseguenze.


L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite definisce la violenza contro le donne: una forma di persecuzione legata al genere femminile e che si manifesta attraverso azioni violente di tipo fisico, psicologico o sessuale o in qualunque modo dirette a provocare sofferenza nella donna, includendo tra tali azioni anche le minacce, la coercizione e la privazione della libertà, sia nella sfera privata sia in quella pubblica”.


Il fenomeno della violenza sulle donne stava diventando talmente diffuso che si è cominciato a pensare che la richiesta dello status di rifugiato per motivi connessi all appartenenza al genere sessuale potesse rientrare nelle fattispecie contemplate dall’Art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951.


In sede internazionale si è molto dibattuto affinché il caso possa rientrare nell’art. 1, si debba fare riferimento al genere sessuale oppure se il genere debba rientrare nella categoria “gruppo sociale”, in quanto vi sono differenze oggettive rispetto agli uomini.[7]


La violenza subita è spesso la ragione che spinge le donne ad abbandonare il proprio Paese per cercare rifugio altrove; possiamo individuare vari tipi di violenza:


- violenza domestica;


- mutilazioni genitali femminili;[8]


- aborto selettivo e infanticidio;


- violenze matrimoniali e spose bambine;


- violenza sessuale;


- tratta e prostituzione;


- violenza contro le donne nei conflitti armati;


- violenza contro le donne rifugiate.



Un ulteriore passo in avanti è costituito dallo Statuto della Corte Penale Internazionale del luglio 1998, che riconosce tra i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra anche quelli legati al genere sessuale: lo stupro, la schiavitù, la costrizione alla prostituzione, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata.[9]


Anche in ambito europeo il Consiglio ha presentato una proposta di direttiva sulle norme di attribuzione dello status di rifugiato. Infatti, nel caso in cui a chiedere lo status siano donne, bisogna tener conto del fatto che la persecuzione, ai sensi della Convenzione di Ginevra, può manifestarsi attraverso atti di violenza di tipo sessuale o altrimenti perpetrata nei confronti delle donne. Quando la forma di persecuzione è specificatamente “di genere”, i motivi della persecuzione non dovrebbero essere occultati.


Ad esempio una violenza può essere inflitta a motivo di religione, opinione politica o nazionalità: in tali casi la violenza sessuale è esclusivamente uno strumento di persecuzione e può trovare applicazione uno qualsiasi dei motivi individuati dalla convenzione e precisati nell’art. 12. Inoltre, nei confronti di richiedenti asilo di sesso femminile, alcune violenze sessuali come la mutilazione genitale possono essere state loro inflitte esclusivamente per il fatto di appartenere al sesso femminile. In tali situazioni può trovare applicazione il motivo indicato come “appartenenza ad un determinato gruppo sociale”. (5221PC0510 – G.U. n. C 051 E del 26/02/2002)


Al momento della elaborazione della Convenzione il termine rifugiato contemplava un timore fondato di persecuzione su base razziale, religiosa, nazionale, appartenenza ad un gruppo sociale, nonchè opinioni politiche. La persecuzione sessuale non venne presa in considerazione.


La persecuzione su base sessuale iniziò ad emergere negli anni ’80, tanto che il Parlamento Europeo approvò una risoluzione nella quale si chiedeva agli Stati Membri di considerare le donne che trasgrediscono la morale sociale o religiosa come un “gruppo sociale particolare” ai sensi della determinazione dello status di rifugiato.


Inoltre, nel 1985 il Comitato Esecutivo dell’ACNUR adottò la prima Conclusione sulle donne rifugiate e sulla protezione internazionale, nel 1988 tenne la prima Consultazione sulle donne rifugiate e nel 1991 ha pubblicato le sue Linee Guida per la protezione delle donne rifugiate”[10].


Nel 1993 il Consiglio per l’immigrazione e i rifugiati del Canada pubblicò le proprie linee guida su “Donne richiedenti asilo che temono persecuzioni su base sessuale”.


E’ importante ribadire che non è fondamentale stabilire chi commette violenza, quanto se lo Stato sia o meno nelle condizioni di proteggere la vittima. Inoltre, si dibatte se l’intenzionalità dolosa di nuocere possa avere rilevanza.


Questo fenomeno è importante nel contesto di pratiche tradizionali quali la circoncisione femminile, nelle quali è certamente assente l’intenzione dei perpetratori di nuocere alle bambine, anche se è riconosciuto che la pratica comporti gravi danni.


La violenza per opinioni politiche è anche argomento di dibattito. Spesso la donna è vittima anche per le opinioni del marito; le donne più degli uomini possono essere sottoposte a trattamenti discriminatori a causa di restrizioni di tipo religioso, come avviene nei campi del lavoro, del vestiario e della possibilità di viaggiare.


Tuttavia, le maggiori controversie riguardano l’appartenenza a un “gruppo sociale”.


Sebbene, per ricevere lo status di rifugiato, l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale abbia rilevanza, non è ancora chiaro quanto estesa sia questa fattispecie.



NORMATIVA



Il Consiglio dell’Unione Europea nel 1996 nella normativa sulle garanzie supplementari stabilisce che gli Stati Membri provvedono, affinché, se necessario, funzionari qualificati, nonchè interpreti di sesso femminile, partecipino alle procedure di asilo, in particolare nei casi in cui, per gli eventi vissuti o l’origine culturale, le richiedenti asilo incontrino difficoltà a esporre esaurientemente i motivi della loro domanda.


Inoltre, in occasione del 50° Anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Organismi europei hanno elaborato 15 raccomandazioni per le donne richiedenti asilo, e nello specifico:


- Gli Stati Europei dovrebbero sviluppare delle LINEE GUIDA sulle procedure di asilo per le donne, sia a livello regionale, sia nazionale, e assicurarsi che siano rispettate e note a tutti;


- ciascuna delle cinque ragioni enumerate dovrebbe prevedere basi legali per il riconoscimento delle donne, vittime della persecuzione, come rifugiate ai sensi della Convenzione, e un maggior numero di richieste di asilo presentate da donne dovrebbe essere accolto per motivi religiosi o opinioni politiche. Tali motivi dovrebbero essere considerati nelle domande di asilo presentate nei Paesi Europei;


- le decisioni europee non devono considerare le persecuzioni di genere diversamente dalla persecuzione in generale;


- quando non ci si può aspettare che una donna cerchi protezione da parte delle Autorità dello Stato, perché questo la esporrebbe a ulteriore rischio, ciò non dovrebbe pregiudicare la richiesta di asilo;


- gli Stati europei di Asilo non dovrebbero escludere dalla comune definizione di persecuzione, nessuna di quelle perpetrate da agenti non-statali e dovrebbe essere competenza delle Autorità Statali del Paese di origine perseguire la persecuzione da parte di singoli individui quando le autorità locali hanno fallito nel proteggere la vittima con precipua diligenza;


- il genere dovrebbe essere incluso in ogni decisione sulla “sicurezza” di un Paese di origine, o sulle condizioni che giustifichino l’uso delle clausole di cessazione, o sulla possibilità di un “rifugio alternativo interno”;


- tutte le donne richiedenti asilo dovrebbero essere informate in privato dei propri diritti, al fine di rendere una domanda indipendente. Interpreti donne e intervistatrici dovrebbero essere a loro disposizione.


- tutti coloro che sono coinvolti nella ricezione e intervista delle domande di asilo dovrebbero ricevere un training su argomenti relativi al genere sessuale;


- informazioni sul Paese di origine dovrebbero essere raccolte come evidenza per le domande relative al genere sessuale, queste informazioni dovrebbero essere utilizzate da coloro che prendono decisioni;


- specifiche misure indirizzate alla sicurezza fisica dei richiedenti asilo e delle donne rifugiate in Paesi Europei dovrebbero essere introdotte, in particolare dove sono forniti alloggi collettivi;


- a tutti i richiedenti asilo e alle donne rifugiate dovrebbe essere dato accesso diretto ed eguale agli avvisi, informazioni e servizi nello Stato ospitante, e tutte le donne rifugiate dovrebbero ricevere uno status legale indipendente e fascicoli di documentazione personale;


- tutti i richiedenti asilo e le donne rifugiate dovrebbero avere accesso alle cure mediche, incluso visite specialistiche, nonché a consultori specializzati per vittime che subiscono traumi;


- tutti i richiedenti asilo e le donne rifugiate dovrebbero essere consultate in tutte le fasi delle politiche di pianificazione, e dovrebbero partecipare proporzionatamente a qualsiasi sistema di consultazione dei residenti degli alloggi collettivi;


- un quadro di ciascun membro della famiglia dovrebbe essere ottenuto al fine di assicurare che ogni “rimpatrio volontario” di un rifugiato nel Paese di origine sia de facto volontario e devono essere compiuti sforzi per garantire alle donne rifugiate le informazioni relative alle condizioni di rimpatrio;


- tutte le statistiche sull’asilo fornite dagli Stati Europei dovrebbero essere disaggregate per genere sessuale.



Per l’enorme rilievo della problematica relativa alla protezione delle donne anche il Consiglio Europeo ha sviluppato, di recente, una proposta di direttiva recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi ed apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto dello status di protezione. Per quanto riguarda specificatamente le donne, indica:


“Nel caso in cui a chiedere lo status siano donne, bisogna tener conto del fatto che la persecuzione, ai sensi della Convenzione di Ginevra, può manifestarsi attraverso atti di violenza di tipo sessuale o altrimenti perpetrata nei confronti delle donne. Quando la forma di persecuzione è specificatamente “di genere”, essa non dovrebbe occultare i motivi della persecuzione. Ad esempio una violenza sessuale è esclusivamente uno strumento di persecuzione e può trovare applicazione uno qualsiasi dei motivi individuati dalla Convenzione e precisati nell’art. 12. Inoltre, la violenza di tipo sessuale nei confronti di rifugiati di sesso femminile, come la mutilazione genitale, può essere inflitta alle donne esclusivamente per il fatto di appartenere al sesso femminile. In tali situazioni, può trovare applicazione il motivo indicato come “appartenenza ad un determinato gruppo sociale”. (G.U. N. c 051 DEL 26/02/2002)




TECNICHE DI INTERVISTA



Si riporta qui di seguito un estratto dell’opuscolo “Intervistare i richiedenti asilo” elaborato dall’ACNUR sul modo di procedere nelle interviste.


Non è più così raro che si verifichi la situazione in cui le vittime di persecuzioni siano donne.


Di conseguenza, è necessario adottare una serie di accorgimenti, in modo da condurre l’intervista in maniera appropriata.



Informazioni sul Paese di origine


Prima di considerare i criteri di eleggibilità individuali, sarà utile che l’intervistatore abbia informazioni aggiornate sul Paese di origine dell’intervistato. Tali informazioni dovrebbero comprendere:


· La posizione giuridica della donna, ivi compresi i diritti che le vengono riconosciuti davanti ad un tribunale, il diritto a presentare una denuncia fornendo prove, le disposizioni riguardanti divorzio e affidamento dei figli, il diritto alla proprietà, il diritto a scegliere o rifiutare l’interruzione di gravidanza.


· I diritti politici delle donne, incluso quello di votare, di avere una carica politica e di appartenere a un partito politico.


· I diritti sociali ed economici della donna, incluso il diritto a sposare la persona di sua scelta, il diritto all’istruzione, al lavoro, lo statuto della vedova e della divorziata e la libertà di abbigliamento e di espressione.


· L’incidenza delle violenze denunciate contro donne e le forme che queste assumono, la protezione assicurata alla donna e le sanzioni e pene previste per chi perpetra la violenza.


Inoltre l’intervistatore dovrà essere consapevole delle conseguenze che potrebbero ricadere su una donna che ritorna nel suo Paese in relazione alle circostanze descritte nel suo racconto.



Criteri di eleggibilità - Le donne come un particolare “gruppo sociale”


La definizione di rifugiato secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 non specifica il genere come obiettivo di persecuzione. Comunque, una corrente legislativa in via di sviluppo ha ampiamente riconosciuto che la persecuzione relativa al genere è una forma distinta di persecuzione che può propriamente ricadere all’interno della definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione. Quest’ultima, così interpretata, dovrebbe assicurare la protezione alle donne che dimostrano un timore ben fondato di persecuzione a causa del genere.


C’è anche un crescente sostegno da parte di movimenti internazionali a considerare le donne, che temono soprusi e violenze esclusivamente a causa del loro genere, come appartenenti ad un particolare “gruppo sociale”.


A questo riguardo il Comitato Esecutivo ACNUR ha riconosciuto che gli Stati sono “Liberi di adottare l’interpretazione per cui le donne richiedenti asilo che sopportano trattamenti disumani per aver trasgredito i costumi sociali della società in cui vivono possono essere considerate come un particolare gruppo sociale, rientrando così all’interno della definizione di rifugiato dell’articolo 1 A della Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati del 1951”.


Le Linee-Guida suggeriscono, inoltre, che vi siano le condizioni per la concessione dello status di rifugiato, quando un governo non può o non vuole proteggere le donne soggette ad abusi per aver trasgredito gli standards o le norme sociali.



Persecuzione dovuta alla trasgressione degli standard e delle norme sociali


Le “Linee-Guida ACNUR sulla Protezione delle Donne Rifugiate” suggeriscono che nel caso in cui delle donne temono una persecuzione o una severa discriminazione a causa del loro genere, esse vengano considerate, al fine della determinazione dello status, come membri di un particolare gruppo.



Violenza sessuale


In passato è stato dimostrato che le donne rifugiate sono particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale. In molti conflitti, gli attacchi alle donne costituiscono una strategia pianificata di guerra perché comportano un indebolimento sia del gruppo familiare sia della comunità e spesso conducono all’allontanamento e all’emarginazione delle donne che hanno subito violenza. Le donne richiedenti asilo, vittime di tali violenze, possono essere incapaci di parlare di tali eventi o è possibile che evitino di farlo. L’intervistatore dovrà perciò utilizzare una varietà di tecniche sensibili al genere, per ottenere informazioni durante l’intervista.



Violenza sessuale come forma di persecuzione


Per quanto concerne la considerazione della violenza sessuale come una persecuzione che rientra nella definizione di rifugiato, la “Nota su alcuni aspetti della violenza sessuale contro le donne rifugiate” che è stata pubblicata su richiesta del Comitato Esecutivo ACNUR stabilisce che: uno stupro o altre forme di violenza sessuale commesse per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a particolare gruppo sociale giustificate dalle autorità può essere considerata una forma di persecuzione compresa all’interno della definizione della parola “rifugiato” della Convenzione del 1951 Articolo 1 a (2). Un timore ben fondato di stupro in tali circostanze può fornire la base per il riconoscimento dello status di rifugiato.



Intervistare donne richiedenti asilo


Quando una donna è parte di un nucleo familiare e è considerata subordinata alla richiesta di asilo fatta dal capofamiglia, può accadere che non venga intervistata, anche se è possibile che lei stessa, piuttosto che i maschi, sia stata l’obiettivo della persecuzione. Considerando ciò, l’intervistatore dovrebbe fare ogni sforzo per assicurarsi che alle componenti femminili di un gruppo familiare sia fornita l’opportunità di essere intervistate separatamente. Solo in questo modo è possibile determinare se tali persone hanno il diritto di fare una richiesta di asilo indipendente.


Un problema molto comune, che si può verificare nell’intervistare le donne, è la mancanza di congruenza con le dichiarazioni del marito o di altri maschi della famiglia. Questo non è dovuto, come si potrebbe pensare in prima istanza, a una qualche forma di menzogna, ma al fatto che in molte culture la donna è tenuta all’oscuro di alcuni aspetti delle attività politiche, sociali, militari e lavorative dei maschi.


Nella storia personale delle donne richiedenti asilo spesso affiorano fatti di violenza sessuale. Questi, in sede di intervista, devono essere affrontati da personale formato rispetto a queste problematiche. Se la vittima di violenza sessuale non è in grado o non vuole parlare di certi eventi, le domande devono essere poste in modo discreto e indiretto, senza mai forzare la comunicazione.


Le vittime possono presentare dei sintomi che sono conseguenza del trauma subìto: perdita di autostima, difficoltà a concentrarsi, senso di perdita del controllo, della memoria, paura e distorsione dei fatti.


Se le interessate lo preferiscono, potrebbe essere utile concedere la possibilità di fornire una testimonianza scritta. E’ preferibile che l’intervista sia condotta senza la presenza degli altri membri della famiglia, per evitare sentimenti di vergogna o di colpa.




VIOLENZA IN GENERE



Dal numero 6-2002 di CIR Notizie sono state ricavate le seguenti informazioni sulle differenti tipologie di violenza di cui sono vittime le donne.


Sono milioni le donne vittime di violenza nel mondo, senza distinzione di classe sociale o livello d’istruzione. Stupri, violenze domestiche, mutilazioni genitali colpiscono donne adulte e donne bambine. I casi di violenza per appartenenza al genere femminile sono crimini contro i diritti umani. E molto spesso sono la causa alla base della decisione da parte delle donne di abbandonare il Paese di origine per cercare rifugio altrove.


La violenza contro le donne fa milioni di vittime ogni anno:



Violenza domestica


In Pakistan dei 400 casi di violenza domestica contro la donna registrati nel 1993 nella sola regione del Punijab quasi la metà sono terminati con il decesso della vittima.


In Perù, il 70% dei reati denunciati alla Polizia riguardano casi di donne picchiate dai loro mariti.



Mutilazioni genitali femminili


L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che tra gli 85 e i 115 milioni di bambine e donne adulte abbiano subìto qualche forma di mutilazione genitale. Ogni anno circa due milioni di donne subiscono questo tipo di violenza, soprattutto in Africa e in Asia, ma in numero sempre maggiore in Europa e Nord America.


In Canada, il pericolo di essere sottoposta a mutilazioni genitali nel Paese di origine rappresenta un motivo per avviare la richiesta di asilo.



Aborto selettivo e infanticidio


E’ praticato soprattutto in Asia ed è diretto alla soppressione del feto di sesso femminile o all’uccisione del neonato di sesso femminile.


In India i test genetici per stabilire il sesso del nascituro sono divenuti un business di grandi proporzioni. Uno degli slogans preferiti dalle cliniche che li praticano è che è meglio spendere 38 dollari per interrompere una gravidanza, piuttosto che 3.800 in dote.



Violenze matrimoniali e spose bambine


In alcuni Paesi i matrimoni sono concordati e preceduti dalla promessa da parte della famiglia della sposa del pagamento di una somma in dote. La mancanza di tale pagamento è spesso causa di indicibile violenza sulla donna data in sposa.


In Bangladesh, una giovane sposa è stata sfigurata con l’acido dal marito che non aveva ritenuto adeguata la somma di denaro portata in dote.


In India, una media di 5 donne al giorno vengono arse vive per dispute legate alla dote. Nella maggior parte dei casi gli uxoricidi vengono archiviati come incidenti domestici o archiviati come delitti d’onore.



Violenza sessuale


In tutto il mondo sono in costante aumento i casi di violenza sessuale e di molestie sessuali nei confronti delle donne, in particolare sul luogo di lavoro.


Più difficili da dimostrare sono le violenze sessuali che avvengono nell’ambito matrimoniale. Molto spesso le vittime di tali violenze sono donne minori di 18 anni di età.



Tratta e prostituzione


Molte donne sono costrette alla prostituzione dai loro stessi genitori, mariti, fidanzati e amici. Talvolta vi sono costrette per le pessime condizioni di vita che devono sopportare. Non è raro però che le donne vengano ingannate con false promesse di lavoro.


In preoccupante crescita è il fenomeno della prostituzione minorile.



Violenza contro le donne nei conflitti armati


Lo stupro è sempre più spesso utilizzato come una vera e propria strategia di guerra. Ciò avviene in tutte le situazioni di conflitto e i casi riscontrati dagli incaricati delle Nazioni Unite sono avvenuti: in Chiapas, Messico, Ruanda, Kuwait, Haiti, Colombia.


Donne e bambine sono spesso vittime di stupri di gruppo da parte dei soldati nemici.


Una strategia che viene adottata per annientare il nemico da un punto di vista psicologico e per mettere in atto operazioni di pulizia etnica.[11]


Ampiamente diffusa tra gli eserciti in lotta nella Repubblica Democratica del Congo la pratica di rapire giovani donne da utilizzare come “donne di conforto” a disposizione delle milizie.



Violenza contro le donne rifugiate


Donne e bambini sono tra le categorie più deboli della enorme popolazione di rifugiati in tutto il mondo e sono particolarmente vulnerabili a violenze e sfruttamento.


Nei campi profughi non sono rari i casi di violenze ed abusi di ogni tipo.




NORMATIVA EUROPEA



Anche per quanto riguarda le donne nella direttiva europea vengono date precise indicazioni.


All’articolo 4 nell’esame dei fatti e delle circostanze viene ricordato che nella valutazione della domanda si deve tener conto del “sesso”. Inoltre all’articolo 9 tra gli atti di persecuzione viene esplicitamente citata la “violenza sessuale” e gli atti specificamente diretti contro un sesso. Infine all’articolo 20 tra le categorie vulnerabili vengono citate le donne in stato di gravidanza e “le persone che hanno subito stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.”











UNITA’ FAMILIARE












In base a quanto stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 16, comma 3, nonché dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, art. 23, comma 1, la Famiglia rappresenta il nucleo naturale e fondamentale della società e pertanto ha il diritto di essere protetta dalla società e dallo Stato.


Si raccomanda, pertanto, a tutti i Governi (comitato Esecutivo UNHCR- Conclusione sulla Protezione Internazionale n. 85 1997) di prendere appropriate misure per garantire l’unità familiare, in particolare nei casi in cui al capo famiglia sia stato riconosciuto lo status di rifugiato. Inoltre si esortano gli Stati a accrescere le misure per facilitare i ricongiungimenti familiari e in particolare:



- misure che assicurino il rispetto del principio dell’unità familiare, includendo quelle per la riunificazione di famiglie separatesi a seguito di flussi di rifugiati;


- far sì che, qualora un membro della famiglia abbia avuto il riconoscimento come “rifugiato”, anche gli altri componenti della stessa famiglia possano averne diritto, avendo la possibilità di presentare domanda in qualsiasi momento (Comitato Esecutivo UNHCR: Conclusione n. 88 1999). Tuttavia, non rientrano in questa categoria i familiari il cui status giuridico sia incompatibile con la richiesta di riconoscimento: ad esempio nel caso in cui siano in possesso della cittadinanza del Paese di asilo o di un altro paese del quale possano godere la protezione;


- dare priorità alla tematica dell’unità familiare in tutte le fasi delle attività in materia di rifugiati.



Inoltre, si auspica che al momento della decisione su un caso di ricongiungimento familiare, la mancanza di documentazione ufficiale comprovante il vincolo di parentela del coniuge o dei figli non costituisca motivo di impedimento (Comitato Esecutivo UNHCR: Conclusione n. 24 1981).


Al fine di promuovere una rapida integrazione delle famiglie rifugiate nei paesi di accoglienza, ai membri della famiglia dovrebbe essere, in teoria, garantita la stessa tutela legale garantita al capofamiglia cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato (Comitato Esecutivo UNHCR: Conclusione n. 24, 1981).








NORMATIVA EUROPEA



L’articolo 23 della direttiva europea è interamente dedicato al mantenimento dell’unità familiare. Il primo paragrafo dispone che gli Stati provvedono a che possa essere preservata l’unità del nucleo familiare



Art.23: Mantenimento dell’unità del nucleo familiare



1. Gli Stati membri provvedono a che possa essere preservata l’unità del nucleo familiare.


2. Gli Stati membri provvedono a che i familiari del beneficiario dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, che individualmente non hanno diritto a tale status o protezione, siano ammessi ai benefici di cui agli articoli da 24 a 34, in conformità delle procedure nazionali e nella misura in cui ciò sia compatibile con lo status giuridico personale del familiare.


Gli Stati membri possono definire le condizioni applicabili ai benefici relativi ai familiari dei beneficiari della protezione sussidiaria.


In tali casi gli Stati membri assicurano che i benefici offerti garantiscano un adeguato tenore di vita.


3. I paragrafi 1 e 2 non si applicano quando il familiare è o sarebbe escluso dallo status di rifugiato o dalla protezione sussidiaria in base ai capi III e V.


4. Nonostante i paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono rifiutare, ridurre o revocare i benefici ivi menzionati, per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico.


5. Gli Stati membri possono decidere che il presente articolo si applica anche agli altri congiunti che vivevano nel nucleo familiare al momento della partenza dal paese d’origine e che in quel momento erano completamente o principalmente a carico del beneficiario dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.














ONERE DELLA PROVA













Si riporta una nota del 16 dicembre 1998 nella quale l’ACNUR prende posizione sull’onere della prova nelle richieste di asilo.


Le procedure sulla determinazione dello status di rifugiato non sono specificatamente regolate negli strumenti internazionali. Non ci sono requisiti, né è stato stabilito se tali procedure devono avere carattere amministrativo o giudiziario, accusatorio o inquisitorio.


Qualsiasi procedimento sia stato stabilito per identificare un rifugiato, la decisione finale adottata da chi giudica è basata su una valutazione della richiesta secondo un criterio teso a stabilire se esista o meno “un fondato timore di persecuzione”.


Nell’analisi delle richieste, la particolare situazione del richiedente asilo dovrebbe essere tenuta in considerazione, giacché il fine ultimo del riconoscimento dello status di rifugiato è umanitario.


Su tali basi, la determinazione dello status di rifugiato non pretende di identificare i rifugiati in base a un criterio di certezza, bensì in base a un criterio di probabilità. Nondimeno, non tutti i livelli di probabilità possono essere sufficienti per stabilire lo status di rifugiato. Un punto chiave è se sia stato raggiunto il grado di probabilità che deve essere dimostrato dal richiedente.


I termini “onere della prova” e “standard della prova” sono termini giuridici usati nel contesto del diritto relativo alle prove nei paesi regolati dalla “common law”. In questi Paesi, che hanno sofisticati sistemi di decisione delle richieste di asilo, gli argomenti legali possono imperniarsi intorno alla necessità di stabilire se il richiedente abbia soddisfatto o meno i “requisiti normalmente richiesti (standard) per dimostrare di essere un rifugiato”.


Mentre la questione dell’onere della prova costituisce una considerazione rilevante anche nei Paesi i cui sistemi giuridici sono basati sul Diritto Romano, la questione dei “criteri (normali) di prova” non viene sollevata o discussa in quei Paesi allo stesso modo in cui lo è nei Paesi della “common law”.


Il principio applicabile nei sistemi di diritto civile è quello della “libertà della prova”, secondo il quale gli “argomenti favorevoli” (evidence) prodotti per provare i fatti dichiarati dal richiedente devono creare nel giudice “la profonda convinzione” che quelle dichiarazioni sono veritiere.


Anche se i termini di “common law” sono tecnici e hanno particolare rilevanza per alcuni Paesi, tali criteri (standard) di dimostrazione (evidenciary) sono stati usati più largamente ovunque nel sostanziare le richieste dei rifugiati, anche da parte dell’ACNUR.


Di conseguenza le Linee-Guida con la presente fornite dovrebbero essere trattate come generalmente applicabili a tutte le richieste dei rifugiati.


La presente nota esamina le questioni relative all’onere e ai criteri di prova da applicarsi nelle normali procedure di determinazione dello status di rifugiato, allorché si esamina la sostanza della richiesta.




ONERE DELLA PROVA



I fatti a supporto delle richieste di rifugiato sono stabiliti adducendo prove ed evidenze. L’evidenza può essere orale o documentata. Il dovere di produrre evidenze al fine di provare tali fatti è chiamato “onere della prova”.


Secondo i principi generali di legge sull’evidenza, l’onere della prova spetta al richiedente. Inoltre, nelle richieste di asilo, è il richiedente che ha l’onere di stabilire la veridicità delle sue affermazioni, nonché l’accuratezza dei fatti su cui si fonda la sua richiesta.


L’onere della prova è assolto dal richiedente, fornendo un resoconto veritiero sui fatti rilevanti per la richiesta, cosicché, basandosi su tali fatti, possa essere conseguita una decisione adeguata.


Chi giudica deve avere dimestichezza con la situazione oggettiva del Paese di origine, essere consapevole degli elementi di conoscenza comuni, guidando il richiedente nel fornire rilevanti informazioni e verificando che a quanto dichiarato possa essere dato fondamento.




STANDARD DELLA PROVA



Nel contesto della responsabilità del richiedente di addurre prove a supporto della propria domanda, il termine “standard della prova” significa la soglia che il richiedente deve raggiungere nel persuadere chi giudica sulla verità delle asserzioni fornite.


I fatti che bisogna “provare” sono quelli relativi alle esperienze personali del richiedente che sono motivo di timore di persecuzione e pertanto lo inducono a non avvalersi della protezione del paese di origine.


Di certo il richiedente ha il dovere di dire il vero. Nel dire questo, bisogna considerare che il richiedente, a causa delle sue traumatiche esperienze, può non parlare liberamente, oppure a causa del tempo intercorso e dell’intensità degli eventi subiti, il richiedente non è nelle condizioni di ricordare tutti i dettagli o di raccontarli accuratamente o li confonde; inoltre può essere vago e poco accurato nel riferire fatti dettagliati.


Impossibilità di ricordare o fornire tutte le date e i dettagli minori, così come piccole inconsistenze, vaghezze, o affermazioni non materialmente corrette possono essere prese in considerazione al momento della decisione sulla credibilità, ma non sono di certo fattori decisivi.


Per quanto riguarda il supporto all’evidenza, nel caso in cui vi sia evidenza corroborante a supporto delle dichiarazioni del richiedente, questa rinforzerebbe la veridicità delle dichiarazioni fornite.


D’altra parte, considerata la particolare situazione dei richiedenti asilo, non è richiesto di fornire tutta l’evidenza necessaria. In particolare, bisogna riconoscere che, spesso, i richiedenti asilo partono senza documentazione personale.


La mancata produzione di evidenza documentaria per le dichiarazioni orali non dovrebbe portare ad un diniego dello status nel caso in cui le dichiarazioni siano sostanziate con fatti conosciuti e la credibilità generale del richiedente sia buona.


Nello stabilire la credibilità della domanda, chi giudica dovrebbe tenere in considerazione fattori come la ragionevolezza dei fatti esposti, la consistenza generale e la coerenza della storia del richiedente, l’evidenza corroborante addotta dal richiedente, la situazione conosciuta del paese di origine e la corrispondenza al sapere comune e ai fatti generalmente conosciuti.


L’attendibilità è stabilita quando un richiedente ha presentato una domanda coerente e plausibile, non contraddittoria rispetto al sapere generale sui fatti, e, inoltre, è credibile.


Il termine “beneficio del dubbio” è usato nel contesto dello standard della prova relativo alle asserzioni fatte dal richiedente. Considerato che nelle richieste per il riconoscimento dello status di rifugiato, non è necessario che il richiedente provi tutti i fatti fino al punto in cui chi giudica sia totalmente convinto che lo stesso dica il vero, vi è di solito un elemento di dubbio su quanto asserito dal richiedente.


Quando la storia fornita è coerente e plausibile, il dubbio non pregiudica la decisione: vi è sempre il “beneficio del dubbio”.




STANDARD DELLA PROVA NELLO STABILIRE LA PAURA FONDATA DI PERSECUZIONE



L’espressione “fondato timore di persecuzione” costituisce l’espressione chiave nella definizione di rifugiato. Sebbene essa contenga due elementi, uno soggettivo (timore) e uno oggettivo (fondato), entrambi gli elementi devono essere valutati insieme.


In questo contesto, il termine “timore” significa che la persona crede o prevede che sarà soggetta a persecuzione.


Normalmente la dichiarazione del richiedente è accettata come dimostrazione rilevante dell’esistenza del timore, assumendo che non vi sono fatti che danno adito a dubbi sull’argomento. Il richiedente deve, tuttavia, dimostrare che il timore sia fondato.


I precedenti scritti della Convenzione sono istruttivi in tal senso. Una delle categorie di rifugiati, riferite nell’Allegato I della Costituzione dell’IRO, è quella delle persone che “esprimono valide obiezioni al ritorno” nei loro paesi, essendo l’espressione “valida obiezione” definita come “persecuzione o paura basata su ragionevoli motivi di persecuzione”.


Il manuale dell’IRO dichiara che per “ragionevoli motivi” bisogna intendere quella spiegazione che il richiedente ha dato in modo “plausibile e coerente al perché egli teme la persecuzione”. Il Comitato ad hoc ha adottato l’espressione “timore fondato di persecuzione” piuttosto che aderire a quanto scritto nella Costituzione dell’IRO. Nel commentare questa frase, il Comitato ha affermato che “timore fondato” significa che una persona può dimostrare “buone ragioni” per temere la persecuzione.








SOGLIA



Il manuale precisa che il timore di persecuzione da parte del richiedente è fondato se lo stesso “può stabilire, ad un ragionevole livello, che la permanenza nel suo Paese di origine potrebbe diventare intollerabile...”




INDICATORI PER STABILIRE LA FONDATEZZA DEL TIMORE



Anche se, per sua natura, una valutazione del rischio di persecuzione è compiuta in prospettiva ed ha carattere parzialmente astratto, tale valutazione dovrebbe essere comunque fatta su basi reali, considerando le circostanze personali del richiedente, come anche tutti gli elementi riguardanti il Paese di origine.


Le circostanze personali del richiedente includono il suo passato, le esperienze, la personalità e ogni altro fattore personale che potrebbe esporlo alla persecuzione. L eventuale persecuzione subita in passato dal richiedente o altri maltrattamenti e esperienze di parenti e amici del medesimo come anche le persone nelle sue stesse condizioni, sono tutti elementi da tenere in considerazione. Gli elementi rilevanti riguardanti la situazione del Paese di origine del richiedente includono anche la situazione sociale generale, nonchè le condizioni economiche, la situazione dei diritti umani, la legislazione del Paese, le politiche e le pratiche degli agenti di persecuzione in particolare verso le persone nelle stesse condizioni del richiedente.


Anche se le passate persecuzioni o maltrattamenti potrebbero avere un peso decisivo in favore del riconoscimento per il rischio che comportano di future persecuzioni, la loro mancanza non è un fattore decisivo. Inoltre, l’aver subito una persecuzione non significa automaticamente che ve ne saranno altre, soprattutto se vi sia stato un radicale cambiamento nelle condizioni del Paese di origine.




CONCLUSIONE



Secondo quanto detto, le domande dei rifugiati non sono analoghe ai casi penali o civili. Gli elementi soggettivi sono particolarmente difficili da dimostrare e una decisione sulla attendibilità normalmente si basa su fatti “difficili”. Il giudicante di solito si basa solo sulle dichiarazioni orali fatte dal richiedente e definisce la situazione alla luce della situazione oggettiva del Paese di origine del medesimo.


Per quanto concerne la “fondatezza” del timore della persecuzione, anche se una considerazione in merito ha carattere teorico, essa non è mera congettura e non si riferisce solo agli aspetti legali. La decisione sulla “probabilità” o “possibilità” che un evento accada deve essere giustificata su solide basi.


Bisogna notare che “la decisione dell’esaminatore adottata sul caso e basata sulle sue impressioni personali relative al richiedente, inciderà sulla vita delle persone e deve quindi essere presa con criteri basati su spirito di giustizia e di comprensione”.


Al riguardo, si riporta l’art. 7 della proposta di direttiva del Consiglio dell’Unione Europea (n. 52001pc0510 G.U. n. C 051 E del 26/02/2002), recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi e apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto dello status di protezione.


Questo articolo tratta della domanda di protezione internazionale e dell’esame della fondatezza oggettiva della medesima. Esso fissa le norme che permettono di stabilire se una domanda di protezione internazionale sia fondata o meno. Nel decidere quali norme risultino le più pertinenti a tal fine, particolare attenzione è stata prestata alla Convenzione di Ginevra, alla Posizione Comune e al Manuale sui rifugiati.


Questo paragrafo rispecchia il principio secondo cui le domande di protezione internazionale dovrebbero essere esaminate caso per caso, in relazione alle condizioni oggettive note del paese di origine o di residenza abituale del richiedente. Benchè l’onere della prova rimanga in linea di principio a carico del richiedente stesso, il dovere di accertare e valutare tutti i fatti pertinenti è condiviso tra il richiedente e lo Stato membro competente per l’esame della domanda.


Questo paragrafo enuncia il principio, secondo cui il bisogno di protezione internazionale si inserisce in una prospettiva a lungo termine e il timore di essere perseguitato o di subire danni gravi e ingiusti nel paese di origine può essere fondato, se esso è comprovato oggettivamente. Se esista una probabilità ragionevole che detto timore si concretizzi dopo il rientro di un richiedente nel suo paese di origine, tale timore è fondato. L’esame deve mirare a stabilire se sussiste la probabilità ragionevole che il timore di essere perseguitato o di subire gravi danni si traduca in realtà. Un timore di essere perseguitato o di subire gravi danni può essere fondato anche in mancanza di una evidente probabilità che la persona in questione sarà perseguitata o subirà tali danni; tuttavia, il mero rischio o la possibilità remota che ciò si verifichi non costituiscono una base sufficiente per riconoscere il bisogno di protezione internazionale.


Questo paragrafo dispone che se una persona richiedente protezione internazionale è già stata perseguitata o ha già subito danni gravi ed ingiusti o ha subito minacce dirette di persecuzione o di danni gravi ed ingiusti, tale circostanza, deve essere considerata un evidente indizio del rischio di persecuzione, purché da allora non sia intervenuto un cambiamento radicale e pertinente delle condizioni esistenti nel paese di origine del richiedente o nei suoi rapporti con detto paese.


Infine questo paragrafo si basa sul principio, secondo cui, nel valutare le domande di protezione internazionale, si deve esaminare in modo complessivo l’insieme delle circostanze che hanno motivato la domanda.


Una domanda di protezione internazionale può anche essere basata su prove credibili del fatto che le leggi o i regolamenti vigenti nel paese di origine autorizzano o tollerano gli atti di persecuzione o di danno grave e ingiusto perpetrati nei confronti del singolo richiedente o del gruppo al quale egli appartiene e del fatto che sussiste una ragionevole probabilità che tali leggi o regolamenti siano applicati. Il timore non può invece essere considerato fondato, se le leggi sono obsolete e disapplicate nella pratica.





NORMATIVA EUROPEA



Nella Direttiva Europea non vi è un esplicito riferimento all’onere della prova ma quest’ultimo si può comunque desumere dall’art. 4 “esame dei fatti e delle circostanze”.


Il punto 5 di questo articolo cita: “Quando gli stati membri applicano il principio in base al quale il richiedente è tenuto a motivare la sua domanda di protezione internazionale e qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte le seguenti condizioni:



a) Il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda;


b) Tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;


c) Le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso;


d) Il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla;


e) E’ accertato che il richiedente è in generale attendibile.










ALTERNATIVA DI FUGA INTERNA O DEL TRASFERIMENTO


nel contesto dell’Art. 1A della Convenzione del 1951 e del Protocollo 1967 relativi allo status di rifugiati














L’alternativa di fuga interna (o del trasferimento) è un concetto al quale si guarda con attenzione sempre maggiore nel corso dei procedimenti di determinazione dello status di rifugiato. Mancando, fino a oggi, un approccio coerente a questo concetto, pratiche divergenti sono emerse non solo tra giurisdizioni diverse ma anche all’interno di una stessa giurisdizione. Ciò premesso, queste linee guida intendono offrire un approccio più strutturato all’analisi di quest’aspetto particolare della determinazione dello status di rifugiato.



Il concetto di alternativa di fuga interna non è un principio isolato del diritto del rifugiato, né un test indipendente nella determinazione dello status. Un rifugiato ai sensi della Convenzione è una persona che risponde ai criteri stabiliti nell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo relativi allo status dei rifugiati (di seguito “la Convenzione del 1951”). Questi criteri devono essere interpretati con spirito liberale e umanitario, secondo il loro significato ordinario e alla luce dell oggetto e dello scopo della Convenzione del 1951. Il concetto di alternativa di fuga interna non è specificatamente menzionato tra questi criteri. Tuttavia, la questione se il richiedente abbia un’alternativa di fuga interna o di trasferimento può sorgere nell’ambito del processo di determinazione dello status.



Alcuni hanno individuato il concetto di alternativa di fuga interna nel “fondato timore di essere perseguitato”; altri nella clausola del “non vuole ...o non può ..avvalersi della protezione di quel paese”. Questi approcci non sono necessariamente contraddittori, poiché la definizione comprende un test olistico di elementi correlati. Come tali elementi sono collegati tra loro e l’importanza da attribuire all’uno o all’altro non può che essere determinato sulla base dei fatti che riguardano ciascun caso individuale[12].



Il diritto internazionale non richiede che gli individui minacciati esauriscano tutte le scelte possibili nel loro paese prima di cercare asilo; ovvero, non considera l’asilo come l’ultima risorsa. Di conseguenza, il concetto di alternativa di fuga interna non dovrebbe essere invocato in maniera tale da minare importanti principi dei diritti umani che sono alla base del regime internazionale di protezione, in particolare il diritto di lasciare il proprio paese, il diritto di cercare asilo e la protezione contro il refoulement. Inoltre, poiché il concetto può emergere esclusivamente nel contesto della verifica in merito all’istanza di un rifugiato, esso non può essere usato per negare accesso alle procedure di determinazione dello status. La considerazione della fuga interna o del trasferimento richiede attenzione per le circostanze personali del richiedente e le condizioni nel paese per il quale si propone l’alternativa della fuga interna o del trasferimento[13].



La considerazione di possibili aree interne di trasferimento non è rilevante per i rifugiati nell’ambito dell’Articolo I(2) della Convenzione dell’OUA del 1969 che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa. L’Articolo I(2) definisce specificatamente un rifugiato come “qualunque persona che, a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio straniero o gravi turbamenti dell’ordine pubblico in tutto o in una parte del suo paese di origine o di cittadinanza, sia costretta a lasciare il luogo di residenza abituale per cercare rifugio in un altro luogo, fuori dal suo paese d’origine o di nazionalità”[14].



La Convenzione del 1951 non richiede e nemmeno suggerisce che il timore di essere perseguitato debba sempre essere esteso a tutto il territorio del paese d’origine del rifugiato.[15] Il concetto di alternativa di fuga interna si riferisce quindi ad una specifica area del paese dove non esiste alcun rischio di fondato timore di persecuzione e dove, date le specifiche circostanze del caso, ci si può ragionevolmente attendere che l’individuo si stabilisca e viva una vita normale.[16] Di conseguenza, considerare la fuga interna o il trasferimento nel contesto della determinazione dello status di rifugiato significa identificare un’area particolare e dare al richiedente la possibilità di replica.



Nell ambito della valutazione olistica di una richiesta di status, una volta accertato il fondato timore di persecuzione, ai sensi della Convenzione, in una parte specifica del paese d’origine, la verifica della possibilità di trasferimento richiede due tipi diversi di analisi, da intraprendere sulla base delle risposte alle domande seguenti:



I. Analisi della rilevanza


a) E’ l’area del trasferimento accessibile all’individuo da un punto di vista pratico, della sicurezza e legale? In mancanza di una di queste condizioni, sarebbe inopportuno prendere in considerazione una località alternativa all’interno dello stesso paese.


b) L’agente di persecuzione è lo Stato? Si presuppone che le autorità nazionali agiscano in tutto il paese. Se sono proprio esse i persecutori, si presume, in principio, che l’alternativa di fuga interna o del trasferimento non sia disponibile.


c) L’agente della persecuzione non è statale? Quando esiste il rischio che l’attore non statale perseguiterà il richiedente nella località proposta, allora l’area non potrà costituire un’alternativa di fuga interna o trasferimento. Questa conclusione dipenderà dalla determinazione della probabilità che il persecutore seguirà il richiedente nell’area e che la protezione dello Stato dal pericolo temuto non sia disponibile in quella stessa area.


d) Una volta trasferitosi, il richiedente sarebbe esposto a qualche forma di persecuzione o ad un altro serio danno? Si fa riferimento qui sia alla persecuzione originaria che ad una possibile nuova forma di persecuzione o a qualunque altro serio pericolo nell’area di trasferimento.


II. Analisi della ragionevolezza


a) Può il richiedente, nel contesto del paese in questione, condurre una vita relativamente normale senza dover far fronte ad eccessive privazioni? In caso contrario, non è ragionevole attendersi che la persona si trasferisca nella nuova area.



Determinare se l area di fuga interna proposta sia un’alternativa appropriata nel caso particolare, richiede una valutazione nel tempo, prendendo in considerazione non soltanto le circostanze che hanno fatto sorgere il timore della persecuzione e che hanno portato alla fuga dall’area originaria, ma anche se l’area proposta sia da considerarsi un’alternativa significativa nel futuro. Una valutazione lungimirante è tanto più importante, in quanto, sebbene il rifiuto di riconoscimento dello status non determini automaticamente il corso delle azioni successive, il ritorno forzato può esserne una conseguenza.



Quanto già menzionato nel paragrafo 7 può essere ulteriormente analizzato come segue:


Un area non è un’alternativa di fuga interna se esistono barriere al suo raggiungimento, che non sono ragionevolmente superabili. Ad esempio, il richiedente, nel suo spostamento verso quell area, non dovrebbe essere esposto a pericoli per la sua incolumità fisica, quali campi minati, combattimenti tra fazioni, linee del fronte mutevoli, banditismo o altre forme di vessazione o sfruttamento.



Se il richiedente fosse costretto ad attraversare l area originaria della persecuzione per poter accedere all area proposta, quest’ultima non potrebbe essere considerata un’alternativa di fuga interna o trasferimento. Allo stesso modo, il passaggio da aeroporti può rendere l’accesso insicuro, specialmente nel caso in cui il persecutore sia lo Stato o un gruppo non statale in controllo dell’aeroporto.



L’area proposta deve essere legalmente accessibile, in altre parole, l’individuo deve avere un diritto legale di viaggiare fin lì, di entrarvi e di rimanervi. Uno status legale incerto potrebbe indurre a muoversi verso aree insicure o persino a tornare nell area di persecuzione originaria. Questo punto richiede particolare attenzione nel caso di apolidi o persone senza documenti.



La necessità di un’analisi del trasferimento interno sorge soltanto quando il timore di persecuzione è limitato a una parte specifica del paese, fuori della quale il danno temuto non può materializzarsi. Dal punto di vista pratico, questo esclude normalmente i casi in cui la temuta persecuzione emani da agenti dello Stato - o sia da essi condonata o tollerata - incluso il partito ufficiale in Stati monopartitici, giacché si presume che questi esercitino la loro autorità in tutto il paese.[17] In simili circostanze la persona è minacciata di persecuzione su tutto il territorio nazionale, a meno che, eccezionalmente, sia stabilito che il rischio di persecuzione proviene da un’autorità dello Stato il cui potere è chiaramente limitato a un’area geografica specifica oppure deriva da uno Stato che controlla soltanto alcune parti del paese.[18]



Nel caso in cui il rischio di persecuzione provenga da organismi locali o regionali, organi o amministrazioni nell’ambito di uno Stato, raramente sarà necessario considerare un potenziale trasferimento, giacché si presume che tali organismi locali o regionali derivano la loro autorità dallo Stato. La possibilità del trasferimento interno può essere rilevante solo se esiste chiara evidenza che l’autorità che perseguita non ha capacità al di fuori della sua regione e che circostanze particolari possono spiegare il fallimento del governo nel neutralizzare il pericolo localizzato.



Quando il richiedente teme la persecuzione da un agente non statale, le domande principali dovrebbero includere una valutazione della motivazione del persecutore, la sua capacità di perseguitare il richiedente nell’area proposta e la protezione disponibile per il richiedente in quell’area da parte delle autorità dello Stato.



Come per le questioni che coinvolgono in generale la protezione dello Stato, anche questa implica una valutazione della capacità e della volontà dello Stato di proteggere il richiedente dal danno temuto. Uno Stato può, ad esempio, aver perduto il controllo effettivo sul proprio territorio e quindi non essere in grado di assicurare protezione. Leggi e meccanismi disponibili al richiedente per ottenere protezione dallo Stato possono riflettere la volontà in questo senso dello Stato ma, a meno che non abbiano effetto in pratica, non sono in se stessi indicativi della disponibilità della protezione. L evidenza della mancata capacità o volontà dello Stato di proteggere il richiedente nell’area di persecuzione originaria può essere rilevante. Si può presumere che, se lo Stato non può o non vuole proteggere l’individuo in una parte del paese, può anche non potere o volere estendere la protezione in altre aree. Potrebbe essere questo il caso, ad esempio, della persecuzione di genere.



Non tutte le possibili fonti di protezione equivalgono alla protezione dello Stato. Ad esempio, se l’area è sotto il controllo di un’organizzazione internazionale, lo status di rifugiato non dovrebbe essere negato semplicemente sulla base della considerazione che l individuo minacciato potrebbe essere protetto dalla suddetta organizzazione. I fatti che riguardano il caso individuale sono particolarmente importanti. Come regola generale, non è opportuno equiparare l’esercizio di una certa autorità amministrativa e il controllo sul territorio da parte di organizzazioni internazionali su base transitoria o temporanea alla protezione nazionale fornita dagli Stati. Per il diritto internazionale le organizzazioni internazionali non hanno gli attributi giuridici di uno Stato.



Allo stesso modo, non sarebbe appropriato concludere che il richiedente sarà protetto da un clan o da una milizia locale in un’area nella quale essi non sono l’autorità riconosciuta o laddove il loro controllo sul territorio sia soltanto temporaneo. La protezione deve essere efficace e durevole: deve essere fornita da un’autorità organizzata e stabile che esercita pieno controllo sul territorio e sulla popolazione in questione.



Non è sufficiente concludere semplicemente che l’agente di persecuzione originario non ha ancora stabilito una presenza nell’area proposta. Piuttosto, deve esserci motivo di credere che il campo d’azione dell’agente di persecuzione rimarrà verosimilmente limitato e al di fuori del luogo di trasferimento designato.



Non ci si deve attendere, né è richiesto, che i richiedenti nascondano le loro opinioni religiose o politiche o altre caratteristiche protette, al fine di evitare la persecuzione nell’area di fuga interna o trasferimento. L’alternativa del trasferimento dev’essere più che un “porto di salvezza” lontano dall’area di origine.



Inoltre, non ci si può attendere che una persona, della quale sia stato accertato il timore di persecuzione ai sensi della Convenzione del 1951 in una parte del paese, si trasferisca in un’altra area dove sarebbe in grave pericolo. L alternativa di fuga interna non sussisterebbe se essa significasse per il richiedente esporsi a un nuovo rischio di grave danno, compreso un serio rischio per la vita, la sicurezza, la libertà o la salute o il rischio di seria discriminazione[19], e ciò indipendentemente dal fatto che tali pericoli abbiano o no a che fare con uno dei motivi della Convenzione.[20] La valutazione di possibili nuovi rischi dovrebbe quindi anche prendere in seria considerazione gravi danni generalmente coperti da forme complementari di protezione.[21]


21. L’area proposta non è un alternativa di fuga interna o trasferimento se le condizioni di vita potessero risultare tali da costringere il richiedente a ritornare nell’area originaria di persecuzione oppure in un’altra parte del paese dove sarebbe possibile la persecuzione o se comportassero altre forme di grave danno.



Non soltanto deve essere evidente che l alternativa di fuga interna non comporta il timore di persecuzione; ma il trasferimento del richiedente deve anche essere ragionevole, in ogni circostanza. Questo test di “ragionevolezza” è stato adottato da molte giurisdizioni. Si fa riferimento a esso anche come al test di “eccessiva privazione” o ”protezione significativa”.



Il “test della ragionevolezza” è un utile strumento legale che, pur non derivando specificatamente dal linguaggio della Convenzione del 1951, si è dimostrato sufficientemente flessibile per far fronte alla questione di stabilire se, in ogni circostanza, ci si possa ragionevolmente attendere o meno che il particolare richiedente si trasferisca nell’area proposta al fine di superare il suo fondato timore di persecuzione. Non si tratta di un’analisi basata su cosa ci si può aspettare che una ipotetica “persona ragionevole” faccia. La questione è: che cosa è ragionevole, sia soggettivamente che oggettivamente, considerando il particolare richiedente e le condizioni dell alternativa di fuga interna proposta.



Nel rispondere a questa domanda, è necessario valutare le circostanze personali del richiedente, l’esistenza di persecuzioni passate, l incolumità e la sicurezza, il rispetto per i diritti umani e la possibilità di sopravvivenza economica.



Circostanze personali



Le circostanze personali di un individuo dovrebbero avere sempre il giusto peso nel valutare se il trasferimento nell area proposta possa essere per la persona in questione eccessivamente duro e quindi irragionevole. A questo fine, sono rilevanti fattori come l età, il sesso, le condizioni di salute, gli handicaps, la situazione familiare e relazionale, la vulnerabilità sociale o di altro tipo, considerazioni culturali o religiose, legami politici e sociali e loro compatibilità, conoscenze linguistiche, esperienze e opportunità educative, professionali e lavorative e ogni persecuzione passata e i suoi effetti psicologici. In particolare, la mancanza di legami etnici o culturali può essere causa di isolamento per l individuo e persino di discriminazione, in comunità all interno delle quali stretti legami di questo tipo sono un aspetto dominante della vita quotidiana. Fattori che da soli possono non precludere il trasferimento, potrebbero invece precluderlo quando si considerino i loro effetti cumulativi. In funzione delle circostanze individuali, quei fattori capaci di assicurare il benessere materiale e psicologico della persona, come la presenza di membri della famiglia o altri legami sociali stretti, possono rivelarsi più importanti di altri.



Persecuzione passata



I traumi psicologici originati da una persecuzione passata possono essere rilevanti per determinare se si possa ragionevolmente attendere che il richiedente si trasferisca nell’area proposta. Una valutazione psicologica che attesti la probabilità di un ulteriore trauma psicologico al ritorno sarebbe a sfavore della conclusione che il trasferimento nell’area sia un’alternativa ragionevole. In alcune giurisdizioni, il fatto stesso che l’individuo abbia subìto persecuzioni in passato è sufficiente a ovviare alla necessità di affrontare la questione del trasferimento interno.



Incolumità e sicurezza



Al richiedente devono essere assicurate incolumità e sicurezza e egli deve essere libero dal pericolo e dal rischio di danno. Tutto ciò deve essere durevole, non illusorio o imprevedibile. Nella maggior parte dei casi, paesi dove siano in corso conflitti armati non sono sicuri per il trasferimento, specialmente considerando la mutevolezza dei fronti di combattimento, che potrebbe improvvisamente portare insicurezza nell’area poco innanzi considerata sicura. In situazioni in cui l’area di fuga interna o di trasferimento proposta sia sotto il controllo di un gruppo armato e/o di un entità parastatale è necessario un attento esame della durevolezza della situazione e della capacità da parte dell entità di controllo di fornire stabile protezione.



Rispetto per i diritti umani



L area proposta non può essere considerata un alternativa ragionevole, se il rispetto dei diritti umani fondamentali, inclusi in particolare i diritti non derogabili, è evidentemente incerto. Questo non significa che la privazione di qualsiasi diritto civile, politico o socioeconomico nell’area proposta la escluderà come alternativa di fuga interna. Piuttosto, è necessario, da un punto di vista pratico, valutare se i diritti che non saranno rispettati o protetti siano fondamentali per l’individuo, cosicché la privazione di quei diritti sarebbe sufficientemente dannosa da rendere l’area un’alternativa irragionevole.



Sopravvivenza economica



Le condizioni socioeconomiche nell’area proposta saranno rilevanti in questa parte dell’analisi. Se la situazione è tale che il richiedente sarà nell impossibilità di guadagnarsi da vivere o di avere accesso a un alloggio o se le cure mediche non sono disponibili o sono chiaramente inadeguate, l’area non può essere un’alternativa ragionevole. Sarebbe irragionevole, anche da una prospettiva di diritti umani, attendersi che una persona si trasferisca per trovarsi poi di fronte all indigenza economica o in condizioni di vita al di sotto di un adeguato livello di sussistenza. D altra parte, un semplice peggioramento della qualità della vita o della situazione economica possono non essere sufficienti a respingere un’area proposta come ragionevole. Le condizioni nell’area devono essere tali che una vita relativamente normale può essere condotta nel contesto del paese in questione. Ad esempio, il trasferimento potrebbe non essere ragionevole se esso implicasse per l individuo ritrovarsi senza legami familiari e nell impossibilità di giovarsi di un sistema di sicurezza sociale informale, a meno che la persona non fosse comunque capace di sostenere una vita relativamente normale a un livello superiore alla semplice sussistenza.



Il trasferimento non sarebbe ragionevole, se alla persona fosse negato l’accesso alla proprietà fondiaria, a risorse e a protezione nell’area proposta, a causa della sua estraneità al clan, alla tribù, al gruppo etnico, religioso e/o culturale dominante. Ad esempio, in molte parti dell’Africa, dell’Asia e altrove, comuni fattori etnici, tribali, religiosi e/o culturali consentono l’accesso alla terra, alle risorse e alla protezione. In tali situazioni, non sarebbe ragionevole attendersi che qualcuno che non appartiene al gruppo dominante stabilisca lì la sua residenza. Non dovrebbe nemmeno essere richiesto che una persona si trasferisca in aree, come i bassifondi di un’area urbana, dove sarebbe costretta a vivere in condizioni di privazione estrema.



La presenza di sfollati che ricevono assistenza internazionale in una parte del paese non costituisce di per se un’evidenza conclusiva che è ragionevole per il richiedente trasferirsi lì. Ad esempio, i livelli e la qualità della vita degli sfollati sono spesso tali da impedire la conclusione che vivere in quell’area sarebbe un’alternativa ragionevole alla fuga. Inoltre, laddove lo sfollamento sia il risultato di politiche di “pulizia etnica”, negare lo status di rifugiato sulla base del concetto di fuga interna o trasferimento, potrebbe essere interpretato come un’espressione di condono del fatto compiuto e perciò ulteriore motivo di preoccupazione.



La realtà è che migliaia di sfollati non godono di diritti fondamentali e non hanno alcuna opportunità di esercitare il diritto di cercare asilo fuori dal loro paese. Così, nonostante esistano criteri largamente accettati dalla comunità internazionale, la loro attuazione non è sempre assicurata nella pratica. Inoltre, i Princìpi guida sullo sfollamento affermano specificamente nel Principio 2(2) che gli stessi non devono essere interpretati come intesi a “limitare, modificare o ostacolare le clausole di qualunque strumento di diritti umani o diritto umanitario internazionale, o i diritti garantiti alla persona dalle normative nazionali” e, in particolare, essi sono formulati assolutamente “senza pregiudizio al diritto di cercare e godere asilo in altri paesi”.[22]



Questioni procedurali



L’uso del concetto di trasferimento non dovrebbe portare a ulteriori oneri per i richiedenti asilo. Rimane valida la regola generale in base alla quale l’onere di provare un’ipotesi ricade su chi la sostiene, ciò che è coerente con il paragrafo 196 del Manuale in cui si afferma che: ...mentre in principio l’onere della prova spetta al richiedente, l accertamento e la valutazione di tutti i fatti rilevanti sono a carico congiuntamente del richiedente e dell esaminatore. In realtà, in alcuni casi, sarà compito dell esaminatore utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda.



In base a ciò, l’onere di accertare che un’analisi di trasferimento è rilevante nel caso particolare spetta a chi decide sulla richiesta. Stabilita la rilevanza, spetta a chi la sostiene identificare l’area di trasferimento proposta e fornire evidenza del fatto che si tratta di un’alternativa ragionevole per l’individuo in questione.



Regole fondamentali di correttezza procedurale richiedono che il richiedente asilo riceva informazione adeguata e chiara del fatto che questa possibilità è presa in considerazione.[23] Tali regole esigono inoltre che alla persona sia data l opportunità di fornire argomenti sul perché (a) la considerazione di un luogo alternativo non è rilevante per il caso e (b) se anche rilevante, che l’area proposta sarebbe irragionevole.


Data la natura complessa e sostanziale dell’indagine, l’esame di un’alternativa di fuga interna o trasferimento non è appropriato in procedure accelerate o quando si decide l ammissibilità individuale alla procedura per la determinazione del pieno status. [24]



Informazione sul paese d’origine



Mentre l’esame della rilevanza e ragionevolezza di un’area potenziale di trasferimento interno richiede una valutazione delle circostanze particolari dell’individuo, informazioni e ricerche ben documentate, di buona qualità e attuali sulle condizioni nel paese di origine sono anch esse componenti importanti al fine di quest’esame. L utilità di tali informazioni può tuttavia essere limitata nel caso in cui la situazione nel paese di origine sia mutevole cambiamenti improvvisi possono verificarsi in aree precedentemente considerate sicure. Questi cambiamenti possono anche non essere stati registrati al momento dell’audizione del richiedente.



CONCLUSIONI



Il concetto di alternativa di fuga interna o trasferimento non è esplicitamente menzionato tra i criteri definiti nell’Articolo 1A(12) della Convenzione del 1951. La questione se il richiedente abbia o meno un’alternativa di fuga interna o trasferimento può tuttavia sorgere come parte della determinazione olistica dello status di rifugiato. Essa è rilevante soltanto in determinati casi, in particolare quando la persecuzione emana da un agente non statale. Anche quando rilevante, la sua applicabilità dipenderà da una piena considerazione di tutte le circostanze del caso e dalla ragionevolezza del trasferimento in un’altra area del paese d’origine.




NORMATIVA EUROPEA



Anche la normativa europea all’articolo 8 tratta il tema dell’eventuale possibilità per il richiedente di spostarsi all’interno del suo paese dove non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato prima di lasciare definitivamente il paese.



Articolo 8: Protezione all’interno del paese d’origine


1 Nell’ambito dell’esame della domanda di protezione internazionale, gli stati membri possono stabile che il richiedente non necessita di protezione internazionale se in una parte del territorio del paese di origine egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi e se è ragionevole attendere dal richiedente che si stabilisca in quella parte del paese.


2 Nel valutare se una parte del territorio del paese di origine è conforme al paragrafo 1, gli stati membri tengono conto delle condizioni generali vigenti in tale parte del paese nonché delle circostanze personali del richiedente all’epoca della decisione sulla domanda.


3 Il paragrafo 1 si può applicare nonostante ostacoli tecnici al ritorno al paese di origine.












PROTEZIONE UMANITARIA












Gli strumenti di protezione dello straniero sono distinguibili in:


· Riconoscimento dello status di rifugiato;


· Protezione umanitaria;


· Principio di non-refoulement;


· Protezione temporanea.



Riconoscimento dello Status di Rifugiato



La Convenzione di Ginevra definisce rifugiato “Colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi, di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese”.


Il termine “persecuzione” non è definito nella convenzione di Ginevra. Il manuale dell’UNHCR del 1992 chiarisce che “dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 si può dedurre che costituisce persecuzione ogni minaccia alla vita o alla libertà”.



Protezione umanitaria



La Convenzione di Ginevra del 1951, tuttavia, definisce rifugiati solo coloro che fuggono da una persecuzione individuale per i suddetti motivi, non considerando coloro che fuggono per disastri naturali, situazioni di conflitto armato, guerra civile o internazionale.


Altri strumenti internazionali hanno cercato di ampliare la definizione di rifugiato. La Raccomandazione 773 del Consiglio d’Europa del 1976 fa riferimento ai rifugiati “de facto”, non riconosciuti rifugiati ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, ma che per motivi politici, razziali, religiosi o altri validi non possono ritornare nei loro paesi di origine.


In estrema sintesi tali circostanze possono essere indicate come segue:



Situazioni analoghe a quella del rifugiato


· Autorità nazionali che non possono o non vogliono fornire un’adeguata protezione dell’incolumità fisica e della libertà personale;


· Grave persecuzione dei parenti stretti;


Casi umanitari


· Condizioni di salute, familiari o legate all’età, ad esempio bambini;


· Pena sproporzionatamente severa per la renitenza alla leva e diserzione;


· Severa punizione in conseguenza della fuga dal paese o della presentazione di una domanda di asilo all’estero.



Circostanze generali


· Situazione di guerra, guerra civile o disordini nazionali o etnici;


· Instabilità politica, episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani;


· Carestia o disastri naturali o ambientali;


· Rifiuto del paese di origine di riammettere i richiedenti asilo.



Dette circostanze, non ipotizzate dalla Convenzione di Ginevra del 1951, sono tali da ingenerare ugualmente la necessità di protezione del richiedente.


Lo strumento di protezione internazionale che accoglie la variegata casistica delle circostanze residuali a quelle previste dalla Convenzione di Ginevra è definita Protezione umanitaria, appunto per evidenziarne la natura “complementare” rispetto a quella principale offerta dallo Status di Rifugiato.



Legislazione italiana



Il legislatore italiano ha tentato di definire la figura della protezione umanitaria attraverso il Disegno di legge in materia di protezione umanitaria e diritto di asilo – atto Camera n. 5381 del 1998.


Tale norma prevedeva la possibilità, da parte della Commissione Centrale, di rilevare l’inopportunità del rinvio del richiedente nei paesi di origine, pur in mancanza dei presupposti per il riconoscimento del diritto di asilo, per gravi e fondati motivi di carattere umanitario e di decidere che sussiste un’impossibilità temporanea al rimpatrio.


Tale provvedimento avrebbe costituito un titolo per autorizzare il soggiorno, rinnovabile finché permangono le condizioni di impossibilità temporanea al rimpatrio.


L Art. 5 della L. 40/98 stabilisce i requisiti e le condizioni per l’ottenimento del permesso di soggiorno e il rifiuto in caso di mancanza dei requisiti richiesti. L’art. 6 recita: “Il rifiuto o la revoca del permesso possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano gravi motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.


L’art. 17 stabilisce, altresì, “Divieti di espulsione e di respingimento”. Il primo comma recita: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.


La nuova normativa sull’immigrazione e asilo (Legge Bossi-Fini) n. 289/2002, prevede:


“Nell’esaminare la domanda di asilo le Commissioni territoriali valutano per i provvedimenti di cui all’art. 5, comma 6, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, le conseguenze di un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria e, in particolare, in base all’Art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848”.



Normativa europea



Occorre qui soffermarsi in modo particolare sulla direttiva 2004/83/CE.


Nel preambolo viene specificato che è necessario introdurre i criteri per l’attribuzione,alle persone richiedenti protezione internazionale,della qualifica di beneficiari della protezione sussidiaria. Tali criteri sono elaborati sulla base degli obblighi internazionali derivanti da atti internazionali in materia di diritti dell’uomo e sulla base della prassi seguita negli stati membri



All’articolo 2 “definizioni”al punto e) si definisce”persona ammissibile alla protezione sussidiaria”:cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che,se tornasse nel Paese di origine,o,nel caso di un apolide se tornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale,correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e al quale non si applicano le clausole di esclusione,e il quale non può o,a causa di tale rischio,non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Mentre al punto f) si definisce “status di protezione sussidiaria”:il riconoscimento,da parte di uno stato membro,di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale persona ammissibile alla protezione sussidiaria



Il capo V analizza i requisiti per poter beneficiare della protezione sussidiaria mentre il capo VI esamina lo status di protezione sussidiaria.


Innanzitutto l’articolo 15 definisce il “danno grave”


Sono considerati danni gravi:


d) la condanna a morte o all’esecuzione; o


e) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o


f) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.



L’esigenza della protezione sussidiaria viene meno quando sono mutate le circostanze che hanno portato alla sua concessione, il secondo coma comunque precisa che la valutazione va fatta su base individuale.



Articolo 16: Cessazione



1. Un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di essere ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria quando le circostanze che hanno indotto alla concessione dello status di protezione sussidiaria sono venute meno o mutate in una misura tale che la protezione non è più necessaria.


2. Nell’applicare il paragrafo 1 gli Stati membri considerano se le mutate circostanze siano di natura così significativa e non temporanea che la persona ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria non sia esposta a un rischio effettivo di danno grave.



Infine l’articolo 17 dispone l’applicazione delle clausole di esclusione anche alla protezione sussidiaria,ricalcandole sull’articolo 1F della Convenzione di Ginevra.


L’ultimo comma esclude dalla protezione sussidiaria lo straniero che ha lasciato il suo Paese solo allo scopo di evitare le sanzioni derivanti dal suo reato.



Articolo 17: Esclusione



1. Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dalla qualifica di persona ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria ove sussistano fondati motivi per ritenere:


a) che egli abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;


b) che abbia commesso un reato grave;


c) che si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite;


d) che rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova;


2. Il paragrafo 1 si applica alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati


3. Gli Stati membri possono escludere un cittadino di un paese terzo o un apolide dalla qualifica di persona ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria se questi, prima di essere ammesso nello Stato membro, ha commesso uno o più reati non contemplati al paragrafo 1, che sarebbero punibili con la reclusione se fossero stati perpetrati nello Stato membro interessato e se ha lasciato il paese d’origine soltanto al fine di evitare le sanzioni risultanti da tali reati.



Il capo VI esamina lo status di protezione sussidiaria rimandando al capo II sulla valutazione delle domande di protezione internazionale e al capo V sui requisiti.


Infine l’articolo 19 dispone che lo Stato può revocare far cessare o non rinnovare la protezione sussidiaria se si verificano le seguenti condizioni:mutate circostanze,persona a cui dovevano essere applicate le clausole di esclusione o perché è stata concessa sulla base di false dichiarazioni o su presentazione di documenti falsi.



Articolo 18: Riconoscimento dello status di protezione sussidiaria



Gli Stati membri riconoscono lo status di protezione sussidiaria a un cittadino di un paese terzo o a un apolide ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria in conformità dei capi II e V.



Articolo 19: Revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo dello status di protezione sussidiaria



1. Per quanto riguarda le domande di protezione internazionale presentate successivamente all’entrata in vigore della presente direttiva gli Stati membri revocano, cessano o rifiutano di rinnovare lo status di protezione sussidiaria riconosciuta a un cittadino di un paese terzo o a un apolide da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario se questi ha cessato di essere una persona ammissibile alla protezione sussidiaria in conformità dell’articolo 16.


2. Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status di protezione sussidiaria riconosciuto a un cittadino di un paese terzo o a un apolide da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario se questi, dopo aver ottenuto lo status di protezione sussidiaria, avrebbe dovuto essere escluso dell’ammissibilità a tale status in conformità dell’articolo 17, paragrafo 3.


3. Gli Stati membri revocano, cessano o rifiutano di rinnovare lo status di protezione sussidiaria di un cittadino di un paese terzo o di un apolide se:


a) questi, successivamente al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, avrebbe dovuto essere escluso o è escluso dalla qualifica di persona ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 17, paragrafi 1 e 2;


b) il fatto di aver presentato i fatti in modo erroneo o di averli omessi, compreso il ricorso a documenti falsi, ha costituito un fattore determinante per l’ottenimento dello status di protezione sussidiaria.




N.B. VEDERE A QUESTO PROPOSITO LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO A PAG. 86.











PRINCIPIO DI “NON REFOULEMENT”












Il principio di non-refoulement, contenuto nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, impone agli Stati l’obbligo di non espellere o respingere un rifugiato (o richiedente asilo) in luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per gli stessi motivi indicati nell’art. 1 A nel quale viene definito il termine “rifugiato”.


Il principio di non-refoulement è soggetto a eccezione in casi individuali, qualora vi siano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato.


L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, l’art. 3 della Convenzione contro la tortura e l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici non prevedono eccezioni in casi individuali per motivi quali, per esempio, la sicurezza dello Stato. Se vi sono sostanziali motivi per supporre che una persona sarebbe soggetta a tortura o trattamenti inumani o degradanti, qualora fosse espulsa, la decisione di espulsione è equivalente a una violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani da parte del paese che vi procede. Inoltre, i motivi per i quali una persona può correre siffatto rischio sono fondamentalmente irrilevanti per la protezione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.


Non è possibile stilare un elenco completo dei tipi di casi che possono essere coperti dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. Tuttavia, possono essere individuate alcune caratteristiche fondamentali comuni:



· Gli stranieri, che hanno diritto al riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1° della Convenzione di Ginevra, ma che sono esclusi da tale beneficio per i motivi di cui all’Art. 1F della Convenzione di Ginevra o per altri motivi, possono sempre rientrare nell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e, pertanto, non essere espulsi;


· Una persona fisicamente non in grado di viaggiare può rientrare nell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, poichè la sua espulsione potrebbe costituire di per sè un trattamento inumano o degradante;


· Una persona che dovrebbe scontare una pena normale per reati comuni nel paese in cui venisse espulsa non rientra nell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, tuttavia, potrebbe rientrarvi, qualora la pena fosse ritenuta, in base alle condizioni attuali, arbitraria, discriminatoria, crudele o eccessiva;


· Una persona potrebbe essere esposta, nel paese in cui venisse espulsa, a misure contrarie all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, da parte di soggetti diversi dalle autorità centrali dello Stato e pertanto potrebbero risultare pertinenti anche gli atti compiuti da gruppi di persone e/o da singoli.



Tali strumenti internazionali impongono agli Stati, in casi individuali, l’obbligo di non espellere una persona qualora tale atto fosse contrario, ad es., all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, obbligo limitato, in quanto i pertinenti strumenti e la successiva giurisprudenza non possono obbligare gli Stati a modificare la loro politica di ammissione nè, più specificatamente, implicano direttamente l’obbligo di concedere uno status specifico, un permesso di soggiorno o conseguenti diritti alla persona in questione. Tali decisioni sono lasciate alla discrezione del singolo Stato, tenuto conto del diritto nazionale.




NORMATIVA EUROPEA



Anche la direttiva europea conferma il principio di “non refoulement”


L’articolo 21 infatti cita:


1 .Gli Stati membri rispettano il principio di non refoulement. In conformità dei propri obblighi internazionali.


2. Qualora non sia vietato dagli obblighi internazionali previsti dal paragrafo 1, gli stati membri possono respingere un rifugiato, formalmente riconosciuto o meno, quando:


a) vi siano ragionevoli motivi per considerare che detta persona rappresenti un pericolo per la sicurezza dello stato membro nel quale si trova;o


b) che, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, detta persona costituisca un pericolo per la comunità di tale stato membro.


3. Gli stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare il rinnovo o il rilascio di un permesso di soggiorno di un rifugiato al quale si applichi il paragrafo 2.













RIFUGIATO “SUR PLACE”









NORMATIVA EUROPEA



La direttiva europea definisce anche la figura del rifugiato “sur place”cioè del richiedente che basa il timore di essere perseguitato su avvenimenti verificatisi dopo la sua partenza dal paese di origine.


La discriminante, di cui al comma 2 e 3,si basa sulla credibilità complessiva della storia del richiedente, per verificare se abbia presentato una domanda in maniera strumentale o se il timore sia fondato perché le attività svolte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni o orientamenti manifestati precedentemente nel paese di origine.



Articolo 5: Bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal paese di’origine (“sur place”)



1. Il timore di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su avvenimenti verificatesi dopo la partenza del richiedente dal suo paese di origine.


2. Il timore fondato di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal paese di origine, in particolare quando si è accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzione od orientamenti già manifestati nel paese di origine.


3. Fatta salva la convenzione di Ginevra gli Stati membri possono stabilire di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine.





















CESSAZIONE







L’art. 1C della Convenzione di Ginevra cita:


la presente convenzione cesserà di essere applicata ad una persona in possesso dei requisiti contemplati dalla precedente sez. A:



1. qualora abbia nuovamente e volontariamente della protezione del paese di cui ha la cittadinanza oppure


2. qualora, avendo perduto la sua cittadinanza, la riacquista volontariamente, oppure


3. qualora abbia acquisito una nuova cittadinanza e goda della protezione del Paese di cui ha acquisito la cittadinanza, oppure


4. qualora sia tornata volontariamente a stabilirsi nel paese che aveva lasciato o fuori del quale viveva per timore di essere perseguitata, oppure


5. qualora, essendo venute meno le circostanze in seguito alle quali è stata riconosciuta come rifugiata, non può più continuare a rifiutare di avvalersi della protezione del paese di cui ha la cittadinanza;


restando inteso in ogni modo che le disposizioni del presente paragrafo non si applicheranno ai rifugiati di cui al paragrafo 1 della sezione A del presente articolo che possano invocare motivi imperiosi derivanti da precedenti persecuzioni per rifiutare di avvalersi della protezione del paese di cui hanno la cittadinanza;


6. se, trattandosi di persona senza cittadinanza, essendo venute meno le circostanze in seguito alle quali ha ottenuto il riconoscimento della qualifica di rifugiato, è in grado di tornare nel paese in cui aveva la residenza abituale;


restando inteso in ogni modo che le disposizioni del presente paragrafo non si applicheranno ai rifugiati di cui al paragrafo 1 della sezione A del presente articolo che possano invocare motivi imperiosi derivanti da precedenti persecuzioni per rifiutare di tornare nel paese in cui aveva la residenza abituale.



Queste clausole di cessazione sono fondate sulla considerazione che la protezione internazionale non deve essere accordata quando non è più necessaria o giustificabile.


Tra le sei clausole di cessazione, le prime quattro corrispondono ad un cambiamento nella situazione del rifugiato di cui egli stesso ha preso l’iniziativa.


Le due ultime clausole, la quinta e la sesta, si fondano sulla considerazione che la protezione internazionale non è più giustificabile ove siano intervenuti mutamenti nel paese in cui l’interessato temeva di essere perseguitato, tali per cui siano venute meno le ragioni in forza delle quali il soggetto era stato riconosciuto come rifugiato.


Il secondo comma della clausola quinta e sesta introduce un’eccezione all’ipotesi di cessazione di cui al primo comma esso prevede il caso particolare di un soggetto che nel passato ha subito persecuzioni gravissime e che, per questo motivo, non cessa di essere considerato rifugiato anche quando sopravvenga un mutamento radicale di circostanze nel paese di origine.




Normativa europea


L’articolo 11 della direttiva europea riprende l’articolo 1C della Convenzione di Ginevra non riportando però il secondo comma delle clausole quinta e sesta.


Il punto 2 dell’articolo 11, a proposito delle clausole quinta e sesta, stabilisce che gli Stati membri esaminano se il cambiamento delle circostanze ha un significato e una natura non temporanea tali da eliminare il fondato timore di persecuzioni.















































REVOCA









Normativa Europea



La Direttiva Europea prevede il rifiuto del rinnovo dello Status di Rifugiato quando si verificano i presupposti previsti dall’Articolo 14.



Articolo 14



3.Gli Stati membri revocano, cessano o rifiutano di rinnovare lo status di rifugiato di un cittadino di un paese terzo o di un apolide qualora, successivamente a riconoscimento dello status di rifugiato, lo stato membro interessato abbia stabilito che:



a) la persona in questione avrebbe dovuto essere esclusa o è esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’Articolo 12;




b) il fatto di aver presentato i fatti in modo erroneo o di averli omessi, compreso il ricorso ai documenti falsi, ha costituito un fattore determinante per l’ottenimento dello status di rifugiato.



4. Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto a un rifugiato da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario quando:



a) vi sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova;



b) la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale stato membro.



5. Nelle situazioni previste al paragrafo 4, gli Stati membri possono decidere di non riconoscere lo status ad un rifugiato quando la decisione non è ancora stata presa.



6. Le persone cui si applicano i paragrafi 4 o 5 godono dei diritti analoghi conferiti dagli articoli 3, 4, 16, 22, 31 e 32 e 33 della Convenzione di Ginevra o di diritti analoghi, purché siano presenti nello Stato membro.











PROTEZIONE TEMPORANEA













Diversamente dalla protezione umanitaria, la protezione temporanea è accordata dagli Stati, quale atto autonomo, in caso di afflussi massicci di persone che necessitano di protezione internazionale. Essa costituisce un modo per evitare gli eccessivi oneri delle procedure di asilo in caso di afflussi ingenti ed è intesa ad offrire soluzioni immediate e flessibili, unicamente in situazioni di emergenza.



Legislazione italiana


La Legge 40/98 prevede all’art. 18 “Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali”. Il primo comma recita: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato d’intesa coi Ministri degli Affari Esteri, dell’Interno, per la solidarietà sociale e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, nei limiti delle risorse preordinate allo scopo nell’ambito del Fondo di cui all’art. 43, le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni della presente legge, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”. E’ quindi, il governo che decide l’adozione e la cessazione delle misure di protezione temporanea.


Fino a oggi lo Stato italiano ha adottato misure di protezione temporanea nei confronti di cittadini albanesi, jugoslavi, somali e kossovari.


Molti dei beneficiari della protezione temporanea rientrano nelle categorie previste dalla protezione umanitaria. A differenza di questa, la protezione temporanea non preclude un successivo riconoscimento ai sensi della Convenzione di Ginevra. A ogni modo, essa consente di sospendere, per un certo periodo, le procedure per la concessione dell’asilo.




Normativa europea


In attuazione della direttiva 2001/55/CE relativa alla concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e alla cooperazione in ambito comunitario, il D.Leg. nr. 85 del 7 aprile 2003 stabilisce che per protezione temporanea s’intende “la procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio e imminente di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea che non possono rientrare nel loro Paese d’origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso.














TECNICHE DI INTERVISTA









L’INTERVISTA



La preparazione dell’intervista è un momento cruciale del percorso per la determinazione dello status di rifugiato. La preparazione appropriata e il possesso d’informazioni utili permettono all’intervistatore di porre le domande adatte, di affrontare ogni difficoltà che può sorgere durante il corso dell’intervista e di accertare la credibilità del richiedente.



Conoscere le notizie principali riguardanti il richiedente


Pur lavorando con tempi stretti è sempre necessario leggere tutti i documenti e le testimonianze fornite dal richiedente prima di procedere all’intervista.



Preparazione dell’interprete


In molti casi l’intervista avverrà con l’assistenza di un interprete. E’ importante dare istruzioni all’interprete prima dell’intervista per assicurarsi che abbia compreso cosa deve fare. In ogni caso è necessario fornire delle indicazioni sul codice etico che ci si aspetta dall’interprete, in particolare è importante insistere sulla riservatezza di tutte le informazioni che riguardano il richiedente. Bisogna anche assicurarsi che l’interprete comprenda che deve rimanere neutrale ed obiettivo durante l’intervista. L’interprete deve rendersi conte che qualsiasi cosa l’intervistatore ed il richiedente dicano deve essere tradotto.



L’importanza del setting fisico e dell’atteggiamento dell’intervistatore


Nel preparare un’intervista è essenziale assumere un atteggiamento d’accoglienza e fornire un setting che incoraggi il richiedente a comunicare. Non bisogna mai assumere un tono di voce aspro e minaccioso, ma essere sempre rassicuranti e incoraggiare il richiedente a rispondere alle domande in modo completo e sincero.


· privacy


la riservatezza è una condizione fondamentale. Il richiedente può non fornire alcune informazioni se per lui esiste il timore di essere ascoltato da personale estraneo all’iter per la determinazione dello status di rifugiato. Perciò è della massima importanza assicurarsi che la stanza dove si svolge l’intervista sia completamente riservata.


· interruzioni


E’ necessario evitare qualsiasi tipo di interruzione mentre l’intervista sta avendo luogo. Bisogna disporre le sedie in modo tale che l’interprete sia accanto all’intervistatore, permettendo a quest’ultimo di comunicare faccia a faccia col richiedente.





Questa parte è stata estrapolata da una pubblicazione dell’ACNUR.




Pianificazione del tempo


E’ probabile che il tempo a disposizione per ogni intervista sia limitato. Questa è una buona ragione per una preparazione preliminare molto accurata. E’ utile individuare anticipatamente gli aspetti principali del caso e pianificare l’intervista in modo da indagare quelle aree in cui ci sono omissioni o contraddizioni.



La conduzione dell’intervista


Prima di iniziare l’intervista, è necessario accertarsi che il richiedente abbia compreso lo scopo dell’intervista e delle domande che gli verranno rivolte.



E’ importante ricordare al richiedente che ha dei diritti e dei doveri.


Il diritto della riservatezza. Assicurare che nessuna delle informazioni rivelate durante l’intervista sarà condivisa con le autorità del paese d’origine o con terzi, senza il consenso del richiedente stesso. Ricordare al richiedente che sia l’intervistatore che l’interprete rispetteranno la confidenzialità e che entrambi hanno il dovere di farlo. Tali garanzie sono indispensabili al richiedente per rivelare apertamente le sue esperienze passate.



Il diritto alla consulenza


Nei paesi dove la legislazione nazionale permette la presenza di un rappresentante legale o altro consulente di fiducia che sia competente circa i criteri per la determinazione dello status e la giurisprudenza locale è utile che partecipi all’intervista, non solo per il richiedente, ma anche per l’intervistatore.


Diritto ed obbligo a dare evidenza. La concessione dello status di rifugiato dipende dal resoconto fornito dal candidato. L’intervistatore, gioca un ruolo di vitale importanza. Al fine di sostanziare la dichiarazione e assistere il richiedente, l’intervistatore può aver bisogno di ottenere ulteriori documentazioni a sostegno, quali, articoli di giornale, resoconti di testimoni, o rapporti d’altra origine. E’ dovere dell’intervistatore, focalizzare l’attenzione del richiedente su tutte le evidenze disponibili che possono sostenere la dichiarazione per lo status. In ogni caso, l’intervista è per il richiedente, quindi è utile ricordare che per lui è un’opportunità da non sprecare.



L’obbligo della sincerità


Ricordare al richiedente che fornire una sincera ed aperta testimonianza è nel suo interesse. Al richiedente potrebbe essere stato detto da altri che le possibilità del riconoscimento sono maggiori se la storia è raccontata in un certo modo. Il conduttore deve essere a conoscenza di tale realtà e prevenirla, comunicando al richiedente che il suo caso verrà esaminato sulla base delle esperienze reali e non su false informazioni.



L’inizio e la conduzione dell’intervista


Il modo con cui s’inizia l’intervista influenzerà il suo svolgimento successivo. Il messaggio che si deve comunicare al richiedente è che si è li per ascoltare la sua storia in un atteggiamento di totale neutralità pur nel totale rispetto del suo disagio, e che, in quanto rappresentanti di un’istituzione, si deve porgli necessariamente delle domande al fine di giungere all’eleggibilità dello status di rifugiato.


Nel caso che il richiedente sia donna sarebbe utile ogni sforzo affinché l’interprete e l’intervistatori siano donne. Questo è particolarmente importante nei casi un cui siano presenti fatti di violenza sessuale. Anche nel caso in cui s’intervistino bambini è importante che siano accompagnati e assistiti da adulti di fiducia durante l’intervista. Per questo motivo molte delle domande poste durante l’intervista riguarderanno: le condizioni che esistono nel paese d’origine ed in particolare nella regione o nell’area dove il richiedente viveva, che tipo di difficoltà il richiedente, i membri della sua famiglia o persone in situazioni simili alla sua hanno esperito nel passato, quali difficoltà potrebbe dover fronteggiare se rientrasse in quel paese, perché queste difficoltà sorgerebbero.


In linea di massima, le domande devono essere brevi e semplici da comprendere. E’ utile alternare domande aperte a domande chiuse per ridurre la tensione e permettere al richiedente di esprimersi liberamente evitandogli la sensazione di essere sotto inchiesta.



Come porre le domande


Una volta che si è stabilita una buona relazione con il richiedente attraverso la confidenza, la disponibilità e l’attenzione ad evitare l’insorgere di tensioni, l’intervita può iniziare. Si deve prestare attenzione a ciò che viene detto. E’ importante quindi evitare di consultare documenti mentre il richiedente parla o distrarre lo sguardo. Le domande devono essere poste direttamente al richiedente e non rivolgendosi all’interprete, mantenendo i movimenti e le espressioni facciali il più neutrali possibili.


Le domande dovrebbero seguire un ordine naturale, partendo da quanto sta dicendo il candidato, piuttosto che rispettare un rigido schema predefinito. L’importante è nel corso dell’intervista vengano indagati gli aspetti essenziali per la determinazione dello status.


Lasciare al richiedente tempo per pensare, specialmente dopo aver formulato una domanda aperta o generale.



Come ottenere la storia vera


Abbiamo già detto dell’importanza di stabilire e mantenere la confidenzialità col richiedente. Se questo obbiettivo è raggiunto, sarà relativamente facile ottenere una narrazione libera. Non interrompere: evitare d’interrompere introducendo una nuova domanda prima che il richiedente abbia finito di rispondere alla precedente.



Il confronto


Fare il confronto non implica necessariamente un atteggiamento critico. Piuttosto richiede di chiarire dichiarazioni che appaiono confuse o contraddittorie. Il confronto è perciò un’opportunità per il richiedente di fornire tutti i dettagli rilevanti.


Fare il confronto è un’abilità complessa che richiede tatto, pazienza e la capacità di convincere il richiedente ad esaminare con obbiettività la sua testimonianza e chiarire i punti non chiari e contraddittori. Evitare ad ogni costo di adottare un atteggiamento critico o di giudizio, in quanto ciò distruggerà l’atmosfera di confidenza che si è così pazientemente cercato di costruire.


Come detto, se ci si trova di fronte con dichiarazioni non chiare o contraddittorie dare l’opportunità di fornire una spiegazione.


Un altro metodo consiste nel cercare di riformulare la domanda. Si dovrebbe evidenziare che a causa delle differenze culturali, della traduzione, o per mancanza d’attenzione, il richiedente può aver frainteso cosa è stato chiesto. In questo modo, le domande se riformulate o poste in altra maniera possono essere comprese più facilmente.


Se dopo aver rivisto una parte della storia, l’inconsistenza rimane, non spingere il richiedente a fornire una spiegazione. Se non si può ottenere spiegazioni soddisfacenti in una certa fase dell’intervista, si passi ad un altro momento della storia, si può sempre ritornare al punto lasciato in sospeso in un momento successivo. Stare allerta, ci può essere qualcosa che il richiedente non vuole od è incapace di dire.



Chiudere l’intervista



Quando viene il momento di chiudere l’intervista, questa breve lista di controllo può aiutare.


· Si è chiesto se il richiedente ha qualcosa d’aggiungere?


· Si è avvisato il richiedente di cosa accadrà dopo l’intervista?




LE BARRIERE DELLA COMUNICAZIONE



Gli effetti del trauma


Non è inusuale per i richiedenti asilo avere difficoltà nel raccontare la loro storia. Possono esitare, balbettare, ritirarsi in silenzi prolungati, o fornire spiegazioni che mancano di coerenza o sembrare contraddittori, in alternativa possono recitare un resoconto pur cui si ha il sospetto sia stato imparato per l’occasione. E’ compito dell’intervistatore dipanare la storia ed estrarre i fatti veri.


Una persona che ha subito traumi mentali o fisici può essere particolarmente riluttante a rivivere emozioni tramite il racconto dei fatti accadutegli. La riluttanza a parlare può essere conscia o meno. Nei casi estremi, esperienze passate possono essere state soppresse dalla mente conscia. Non è raro per un richiedente abbattersi, diventare incapace d’esprimersi in maniere coerente, o ricordare solo certi eventi del suo passato.


L’intervistatore deve anche essere consapevole che un richiedente può avere un disturbo emotivo o mentale che impedisce un normale esame del caso. Particolare attenzione deve essere fatta con i richiedenti che possono essere vittime di tortura o di violenze sessuali, o che, a causa della loro età o perché disabili, richiedono particolari attenzioni quando devono essere intervistati.



Omissioni e confusioni


Per richiedenti asilo, date, luoghi, ed ogni esperienza personale significativa possono essere dimenticate o offuscate a causa di traumi mentali o del tempo trascorso. Omissioni ed imprecisioni non necessariamente indicano disonestà.



Paura di condividere informazioni


Un richiedente asilo che ha lasciato il suo paese per paura di persecuzione, è probabile che voglia tenere il dolore e l’angoscia per sé. Questo può manifestarsi in una serie di modi come: paura di autorità, specialmente se in uniforme, paura di mettere parenti ed amici in pericolo, paura delle interviste, paura delle conseguenze di un rifiuto della richiesta.



Mancanza di autostima


Il richiedente può cercare di nascondere informazioni che ritiene possano abbassare la stima che gli altri hanno nei suoi confronti. In questo caso, debbono essere tenuti in debito conto richieste e fattori sociali, culturali e di genere. Una donna che è stata assalita sessualmente può vergognarsi così profondamente da non aver detto niente neanche ai famigliari.



Shock culturale


Persone che si muovono da una cultura ad un’altra – specialmente se questo implica muoversi da un ambiente meno sviluppato ad uno più sviluppato – possono esperire smarrimento ed ansia. Questo può intaccare l’abilità di fare una dichiarazione chiara e coerente. Il richiedente può parlare in maniera confusa e poco convincente non a causa delle bugie, ma dell’insicurezza e dell’ansietà causata dalle difficoltà di vivere in un ambiente sociale e culturale nuovo.



Disparità di nozioni e concetti


Parole abbastanza comuni possono veicolare significati diversi a seconda della cultura ed essere fonte di incomprensioni.


Parole che spesso possono dar vita a travisamenti sono “fratello” e “cugino”. Per molti africani, ad esempio, questi termini non sono pertinenti solo ai parenti stretti ma anche a tutti i membri della tribù.



L’atteggiamento dell’intervistatore


I consigli sotto riportati riguardano il comportamento generale da tenere durante l’intervista.


· Essere consapevoli in ogni momento dalla propria responsabilità.


· Mai dimenticare che una decisione ingiusta può avere serie conseguenze per il richiedente.


· Se si rilevano sintomi di trauma, tentare di evitare d’aggiungere altri traumi. Se il richiedente è agitato o nervoso provare a porre le domande in maniera rilassata. Assicurare il richiedente che si sta provando ad aiutarlo e che ciò è facilitato da risposte dirette e sincere.


· Al fine di confermare le informazioni ottenute durante l’intervista usare qualsiasi evidenza documentale possibile (documenti ricevuti dal richiedente, giornali, relazioni mediche, rapporti sui diritti umani, ecc.).


· Rassicurare il richiedente che qualsiasi informazione sarà tenuta strettamente riservata. Chiarire il ruolo dell’interprete informando che anch’egli ha l’obbligo della segretezza.


· Rimanere sempre neutrali. Evitare di porre domande che esprimono un giudizio.


· Tenere conto della matrice culturale del richiedente.



Fattori addizionali che possono intaccare la relazione tra le persone coinvolte nell’intervista sono: l’età, il genere, la classe sociale, l’educazione, la razza, le credenze, i valori sociali o politici, eventuali handicap.



Cosa fare se il richiedente è riluttante o incapace di partecipare all’intervista?


Deve essere ricordato che il rifugiato può essere stato vittima di torture, violenze od essere in una condizione di grande stress emotivo.


L’intervista può far scattare reazioni d’ansietà che possono essere percepite come comportamento aggressivo. I segni ed i sintomi di un disturbo emotivo devono essere compresi. Deve essere contemplata anche la necessità di un intervento per assistere la condizione mentale del richiedente prima che l’intervista avvenga.



L’interruzione dell’intervista


Può capitare che il richiedente rifiuta o sembra incapace di rispondere alle domande, od assuma un atteggiamento intransigente che rende l’intervista difficoltosa e fa sprecare tempo.


· Rimanere calmi e provare a capire perché i richiedente si comporta in maniera ostile e non cooperativa. Forse, per le sue personali difficoltà, egli è riluttante a partecipare ad un’intervista.


· Spiegare che l’intervista non può continuare senza che egli sia favorevole e capace di rispondere alle domande in modo pienamente cooperativo.


· Se disponibile, richiedere ad un consulente formato o ad un ufficio di servizi sociali d’intervenire.


· Se i tentativi di calmare il richiedente e di conquistare la sua fiducia non hanno successo e il suo comportamento rende impossibile il proseguimento dell’intervista, allora, come ultima risorsa, interrompere l’intervista e posticiparla ad un altro giorno.



In tutti i casi, l’intervistatore dovrebbe essere consapevole che il comportamento ostile e non cooperativo può essere sintomatico di altri problemi o essere un’indicazione che la persona ha serie difficoltà a far fronte allo stress ed alle difficoltà suscitate da un’intervista. Se il richiedente ha particolari problemi che possono essere affrontati da un servizio di consulenza allora prendere un appuntamento il prima possibile. Quest’azione non solo dimostrerà l’interesse e la cura verso i richiedente ma dà l’opportunità di raccogliere importanti informazioni sulla sua salute o su altri aspetti del suo vissuto.




INTERVISTARE LE DONNE RICHIEDENTI ASILO (vedi pag. 43)



STABILIRE LA CREDIBILITA’



Accertare la credibilità delle dichiarazioni di un richiedente è uno dei più importanti e più difficili aspetti del compito dell’intervistatore. Non esistono regole rapide e sicure che possano essere applicate ciecamente.



I criteri di rilevanza legale


Stabilire la credibilità di un richiedente significa accertare la veridicità delle sue asserzioni. Questo non deve essere confuso con il pesare la sufficienza dell’evidenza. L’accertamento della credibilità di una richiesta di status è relativo ai criteri legali dell’onere e dello standard della prova.



Onere della prova (v.anche pag.50)


Nella richiesta di status, in effetti, il richiedente asserisce di aver un ben fondato timore di essere perseguitato per uno o più motivi enumerati nell’Articolo 1A(2) della Convenzione del 1951. Sebbene l’onere della prova, resti al richiedente, quest’ultimo e l’intervistatore condividono l’obbligo di accertare e valutare tutti i fatti rilevanti. Per di più, il richiedente non è necessario che “provi” ogni fatto allegato nella sua richiesta.


Poiché i rifugiati non possono tornare nei loro paesi d’origine, ottenere documenti da tali paesi può essere molto difficile o rischioso.


L’onere della prova può essere così soddisfatto anche dove il richiedente non è in grado di fornire concrete evidenze, ma può fornire un resoconto coerente e plausibile sul tipo di persecuzioni temuto e circa le ragioni di tale paura.



Standard della prova


Lo standard della prova può essere descritto come il livello sufficiente d’evidenza che il richiedente deve fornire, al fine di soddisfare la definizione di “timore ben fondato di persecuzione”. In generale, l’evidenza che un richiedente deve fornire dovrebbe dimostrare una verosimiglianza o probabilità ragionevole di persecuzione. In conformità con lo spirito umanitario della Convenzione non è da considerare ragionevole richiedere certe prove per la conferma della richiesta d’asilo.



Beneficio del dubbio


Un altro importante aspetto dalla determinazione dello stato riguarda i dubbi circa la forza e la veridicità della dichiarazione del rifugiato. Alcune dichiarazioni di rifugiati possono non raggiungere lo standard della prova. Discrepanza ed incoerenze nella testimonianza stessa, tra le dichiarazioni e le evidenze cartacee o tra le dichiarazioni e le azioni proprie del richiedente, possono far sorgere dubbi e condurre ad un esito negativo nell’accertamento della credibilità.


Come notato precedentemente, non è possibile né necessario per un rifugiato provare ogni aspetto, ogni fatto della sua dichiarazione. Inoltre, è spesso utile dare al richiedente il beneficio del dubbio.


In ogni modo, il beneficio del dubbio dovrebbe essere applicato quando l’evidenza disponibile è stata ottenuta e controllata e colui che prende la decisione è soddisfatto dalla credibilità del richiedente.



Regole generali per l’accertamento della credibilità



· Fattori rilevanti nell’accertamento della credibilità


Un aspetto legato all’accertamento della credibilità della persona che viene intervistata è l’esame della testimonianza dal punto di vista della sua consistenza interna (la coerenza delle dichiarazioni) e della consistenza esterna (concordanza con i fatti conosciuti). Se sono state fornite dichiarazioni sia scritte che orali, dovrebbero essere complessivamente concordanti. Questo non significa solo che la sequenza degli eventi e delle affermazioni che li avvallano debba seguire un ordine logico e coerente, ma anche che debba esservi una connessione tra i luoghi, i tempi, gli eventi, ed altri fattori su sui si basa la richiesta.


Affinché l’intervistatore sia in grado di valutare pienamente la richiesta, dovrà documentarsi approfonditamente. Questo include prestare attenzione alle prove indirette circostanti gli eventi chiave, quali, periodi di detenzione, o ragioni che possono aver motivato la fuga dal paese di origine.


Non è necessario attribuire un’eccessiva importanza nella ricerca di date precise: è più rilevante stabilire, più in generale, indicatori per determinare il “periodo di tempo”, che possono essere utili, a voi e al richiedente, per collocare certi eventi nella sequenza complessiva della richiesta.



· Prova documentale


Altri indicatori della credibilità riguardano l’esame della prova documentale. Se il richiedente ha fornito una tale prova, è necessario valutare la sua pertinenza, la sua fonte, le sue modalità di ottenimento e se l’utilizzo di documenti falsi ha incidenza sulla credibilità del richiedente. Si può inoltre confrontare la prova documentale per verificare la coerenza interna ed esterna.


I documenti acquisiti in una lingua che l’intervistatore non comprende devono essere tradotti. E’ preferibile disporre di documenti originali piuttosto che di fotocopie. Se non viene presentata la documentazione originale, può essere domandato al richiedente se sia comunque disponibile e, qualora non lo sia, può essergli chiesto di fornire una spiegazione.


Controllare l’autenticità dei documenti è spesso problematico. Nel caso di documenti ufficiali emessi dalle autorità dei paesi di origine, quali la polizia o i tribunali, non è ammissibile verificare o condividere alcuna informazione riguardante casi individuali con le autorità del paese di origine. Questo è importante non solo per salvaguardare la riservatezza del richiedente, ma anche per evitare di mettere in pericolo la sicurezza dei membri della famiglia che ancora risiedono nel paese di origine.



· L’impiego di disegni e carte geografiche


Un altro mezzo efficace per accertare la credibilità e per favorire la comunicazione con il richiedente è l’utilizzo di disegni e di carte geografiche.



· Il profilo complessivo del richiedente


Assume anche importanza l’accertamento delle dichiarazioni del richiedente in relazione al suo profilo complessivo. Ad esempio, se il richiedente ha affermato di avere delle forti convinzioni politiche o religiose, allora sarà ragionevole che sia in grado di dire qualcosa riguardo le sue credenze o posizioni.



Preparare le conclusioni


Nel preparare le conclusioni può essere utile evidenziare i punti chiave della richiesta e riassumere gli aspetti pro e contro al riconoscimento dello status.


Determinare lo status di rifugiato richiede professionalità e sono necessarie conoscenze, abilità considerevoli e buone capacità di giudizio.










LA GIURISPRUDENZA DELLA


CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO













Introduzione



Le pagine seguenti illustrano con un parziale approfondimento la giurisprudenza sviluppata dalla Corte europea dei diritti umani su alcuni articoli della CEDU dal punto di vista della protezione internazionale per i rifugiati e mostrano come questa giurisprudenza posso essere rilevante per la protezione dei rifugiati.


E’ significativo come la corte ritenga che l’articolo 3 della CEDU possa essere usato da coloro che necessitano della protezione internazionale per i rifugiati.Anche se la CEDU non è uno strumento internazionale in se stesso interessato alla protezione dei rifugiati,l’articolo 3 è stato interpretato dalla Corte come tale da fornire efficaci mezzi di protezione contro tutte le forme di rinvio nei luoghi dove vi è un rischio che una persona potrebbe essere sottoposta a tortura o a trattamento o punizioni inumane o degradanti.


Sotto molti aspetti la portata della protezione fornita dall’articolo 3 è più estesa di quella fornita dalla convenzione di Ginevra,anche se sotto altri aspetti è più limitata



La protezione in base all’articolo 3 della CEDU



La giurisprudenza della Corte sull’articolo 3 è stata per la prima volta costituita nel 1989 in relazione ad un caso di estradizione sollevato contro il Regno Unito e coinvolgente un cittadino tedesco accusato di un reato per cui è prevista per la pena capitale negli Stati Uniti.


Due anni dopo la corte ha confermato in due sentenze distinte che l’espulsione di un richiedente asilo può anche dare adito ad un problema in base all’articolo 3. Lo stesso principio è stato riaffermato nel caso Chahal contro il Regno Unito, la cui sentenza ha stabilito che il rimpatrio del sig .Chahal richiedente asilo respinto avrebbe dato luogo a violazione dell’articolo 3.


La Corte decise:



è un principio saldamente stabilito che ,nella giurisprudenza della Corte che l’espulsione da parte di uno stato contraente può dare adito ad un problema in base all’articolo 3e di conseguenza coinvolgere la responsabilità di tale Stato in base alla convenzione,quando motivi sostanziali sono stati addotti per ritenere che la persona in questione se espulsa,correrebbe un rischio reale di essere sottoposta nel paese di destinazione a trattamenti contrari all’articolo 3 .In tali circostanze l’articolo 3 comporta l’obbligo di non espellere la persona in questione verso quel paese.




Sejdovic e Sulejmanovic contro l’Italia, Decisione del 14 marzo 2002, Istanza n. 57575/00



I richiedenti Fatima Sejdovic e Izet Sulejmanovic, erano cittadini della Bosnia-Erzegovina di origine Rom. Sono partiti dal loro paese di origine in data no specificata e sono giunti in Italia. Si erano sistemati in campo nomadi (Casilino 700) a Roma e avevano soggiornato in esso illegalmente fino alla loro espulsione nel 2000. Nel 1995 le autorità italiane condussero un censimento del campo e decisero di fornire una migliore sistemazione a coloro che erano legalmente presenti, di espellere quelli che non lo erano e di chiudere il campo. Quando nel 1999 iniziarono le operazioni di chiusura, si scoprì che nel campo vivevano più immigranti illegali di quanti si era pensato. Essendo coinvolti i richiedenti in questione, uno di essi aveva ricevuto un ordine di espulsione nel novembre 1996 e l’altro nell’agosto 1999, benché fosse stato interposto appello soltanto contro il decreto di espulsione del 1999. Nel marzo del 2000 infine i due vennero espulsi in Bosnia-Erzegovina insieme ad altre persone che vivevano nel campo nomadi. Di fronte alla Corte i richiedenti hanno sostenuto inter alia che (1) la loro espulsione costituiva una violazione dell’Articolo 3 della CEDU sotto il punto di vista del trattamento inflitto a persone di origine Rom in Bosnia-Erzegovina; (2) anche il modo in cui le autorità italiane avevano eseguito l’espulsione costituiva violazione dell’Articolo 3; (3) le condizioni di vita nel campo nomadi a Roma equivalevano a trattamento inumano e degradante; (4) l’espulsione era una espulsione collettiva proibita dall’Articolo 4 del Protocollo n.4; (5) la loro espulsione costituiva interferenza nella loro vita familiare perché i genitori e la sorella di uno dei due richiedenti erano rimasti in Italia (Articolo 8), e (6) essi non avevano un efficace mezzo di ricorso contro i decreti di espulsione (Articolo 13).


Dopo aver esaminato gli argomenti delle parti, incluso un rapporto redatto dall’ACNUR di Sarajevo sull’occupazione di case rom da parte di profughi interni serbo-bosniaci, la Corte ha dichiarato l’istanza ammissibile sulla base dell’Articolo 3 relativamente alla situazione dei richiedenti in Bosnia-Erzegovina. Le parti dell’istanza basate sull’Articolo 4 del Protocollo n.4 (espulsione collettiva) e sull’Articolo 13 (mezzi efficaci di ricorso contro il decreto di espulsione) sono state anche esse dichiarate ammissibili. Il rimanente dell’istanza è stato dichiarato inammissibile.



Ahmed contro l’Austria, Sentenza del 17 dicembre 1996, Domanda n. 25964/94



Fatti:



Il richiedente, un cittadino somalo, giunse in Austria il 30 ottobre 1990 e presentò domanda di asilo in 4 novembre 1990. Gli fu riconosciuto lo status di rifugiato. Nel 1993 il richiedente venne condannato dal Tribunale Regionale di Graz a due anni e mezzo di detenzione per tentato furto e gli venne comminato un ordine di espulsione. Dovette essere privato del suo status di rifugiato. L’ordine di espulsione venne dichiarato legittimo in base al motivo che il richiedente costituiva un pericolo per la società austriaca.


Secondo diverso autorità giudiziarie austriache, il fatto che il richiedente potesse andare incontro a trattamenti o punizioni inumane o che la sua vita o libertà potessero essere a rischio in Somalia non costituiva come tale un motivo per dichiarare illegale l’ordine di espulsione. In sede di appello, la decisione venne annullata, in quanto il richiedenti venne ritenuto a rischio di persecuzione. L’espulsione quindi venne sospesa per un periodo di un anno rinnovabile.



Denuncia di fronte la Corte:



Il richiedente sostenne che la sua espulsione in Somalia lo avrebbe esposta a un grave rischio di essere sottoposto a trattamento contrario all’Articolo 3 della CEDU.



Motivazione giuridica:



La Corte ha annesso particolare importanza al fatto che le autorità austriache, attribuendo nel magio 1992 lo Status di Rifugiato, avevano riconosciuto la credibilità dell’asserzione del richiedente, per la quale lo stesso sarebbe stato sottoposto a persecuzioni, se fosse ritornato in Somalia. Dopo aver richiamato i principi individuati nel caso Chahal contro Regno Unito, la Corte ha iniziato col considerare se vi fossero o meno eccezioni alle disposizione all’Articolo 3, prima di esaminare la situazione predominante in Somalia.


Per la Corte le azioni di una persona nello Stato di accoglienza, “per quanto disturbanti o pericolose, non possono costituire considerazione sostanziale”, se il ritorno la esporrebbe a trattamento contrario all’Articolo 3. La Corte ha quindi stabilito che “la protezione garantita dall’Articolo 3 è perciò più estesa di quella fornita dall’Articolo 33 della Convenzione del 1951”, poiché in divieto in base all’Articolo è assoluto (paragrafo 41).


Tornando a considerare la situazione in Somalia, la Corte ha osservato che la Somalia era ancora in una condizione di guerra civile e che perduravano i conflitti tra i diversi clan per il controllo del paese. Per la Corte: non vi era alcuna indicazione, secondo la quale i pericoli cui il richiedente sarebbe stato esposto nel 1992 avevano cessato di esistere ovvero una qualsiasi autorità pubblica sarebbe stata in grado di proteggere il medesimo (paragrafo 44).


In conclusione, la Corte ritenne che l’espulsione del richiedente in Somalia avrebbe costituito violazione dell’Articolo 3 della CEDU.



Forme di trattamento escluse



L’articolo 33 della convenzione del 1951 proebisce il“refoulement” verso le frontiere di territori dove la “vita o la libertà di un rifugiato sarebbero minacciate”a causa della sua razza,religione,nazionalità,appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni politiche. D’altra parte l’articolo 3 della CEDU proibisce “la tortura,il trattamento o le punizioni inumane o degradanti”di qualsiasi persona,a prescindere dalla posizione relativa all’immigrazione.



Secondo la Corte:


il maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità ,per poter rientrare nell’ambito dell’articolo 3.la valutazione di questo grado minimo è,per la natura delle cose,relativa;essa dipende da tutte le circostanze del caso,quali la durata del trattamento ,i suoi effetti fisici o mentali e,in alcuni casi,il sesso,l’età e lo stato di salute della vittima,ecc.



Nel caso Greek,la Commissione europea per i diritti umani ha formulato i concetti di tortura,trattamento o punizioni inumane o degradanti nel modo seguente:


la nozione di trattamento inumano comprende al minimo trattamenti tali da causare deliberatamente gravi sofferenze mentali o fisiche ,che,in una particolare situazione,sono ingiustificabili. .La parola,tortura viene spesso usata per descrivere dei trattamenti inumani ,che hanno come scopo quello di ottenere informazioni o confessioni o quello di infliggere una punizione e che generalmente costituiscono una forma aggravata di trattamenti inumani. Il trattamento o le punizioni inflitte ad un individuo possono essere dette degradanti se esse umiliano pesantemente lo stesso di fronte ad altri ovvero lo spingono al agire contrariamente alla sua volontà o ad una sua coscienza.



Nel caso di Selmouni contro Francia la Corte ha abbassato la soglia necessaria per qualificare certi trattamenti come “tortura”.In considerazione della natura dei trattamenti inflitti al richiedente in questo caso,la corte ha ritenuto che,anche se solo specifici atti possono essere categorizzati come tortura ,”alcuni atti che nel passato sono stati classificati come “trattamenti inumani o degradanti”in opposizione a tortura potrebbero essere in futuro diversamente classificati


Secondo l’opinione della Corte :



…..il livello crescentemente elevato che viene richiesto nel settore della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali esige corrispondentemente e inevitabilmente una maggiore fermezza nel valutare le violazioni dei valori fondamentali delle società democratiche.



Per determinare se una persona corra o meno un rischio di maltrattamento,la Corte ha spesso considerato se alla medesima persona è stato riconosciuto o meno lo status di rifugiato,sia da parte dell’ACNUR sia da parte delle autorità governative. Nel caso di Ahmed contro Austria per esempio,la Corte ha dichiarato che essa



Ammette particolare importanza al fatto che ….il Ministro austriaco dell’Interno ha concesso al richiedente lo status di rifugiato nell’ambito della convenzione di Ginevra.



Nel caso Labari contro la Turchia la Corte ha riaffermato:”la Corte deve attribuire il dovuto peso alla conclusione dell’ACNUR riguardo alla pretesa del richiedente nel formulare la propria valutazione del rischio che il richiedente correrebbe,se la sua espulsione dovesse essere effettuata”.


Quanto precede dimostra che la valutazione di fatto resa dalle autorità statali o dall’ACNUR nel considerare se una persona rischia o meno la persecuzione nel senso della Convenzione del 1951 è,mutatis mutandis,analoga a quella resa dalla Corte allo scopo di determinare se per una persona esista un rischio reale di essere esposta a maltrattamento nel senso dell’articolo 3 della CEDU.E’ perciò probabile che un rischio di persecuzione in base ad uno dei motivi delineati nell’articolo 1 A(2) della Convenzione del 1951 possa essere considerato come coperto dall’articolo 3 della CEDU.



L’applicazione dell’articolo 3 della CEDU non è limitata ai casi implicanti l’inflizione di maltrattamenti, la corte ha anche ritenuto che gravi danni alla salute possono condurre alla protezione prevista dall’articolo 3.



Nel caso di D. contro il Regno Unito la corte ha esteso l’applicazione dell’articolo 3 ad un cittadino di KITTS e NEVIS malato di AIDS.Il richiedente sosteneva che le istituzioni sanitarie e il trattamento medico a St Kitts erano inadeguati per le persone malate di AIDS. Avendo ritenuto che la qualità e la disponibilità di trattamenti medici e di sostegno morale ricevuti nel Regno Unito erano incomparabilmente migliori di quelle in cui il richiedente avrebbe potuto beneficiare a S.Kitts la Corte decise:



in considerazione delle eccezionali circostanze e delle gravissime condizioni di salute del richiedente in fase terminale,l’applicazione della decisione di espulsione dello stesso nel suo paese equivarrebbe ad un trattamento inumano da parte dello Stato in giudizio in violazione dell’articolo 3.



Approfondendo la propria motivazione la corte ha deciso :



benché non si possa dire che le condizioni di fronte alle quali lo stesso si troverebbe nel paese di destinazione costituirebbero in se stesse una violazione dei criteri stabiliti nell’articolo 3 ,la sua espulsione lo esporrebbe ad un rischio reale di morire in circostanze più drammatiche e l’espulsione sarebbe così equivalente ad un trattamento inumano.



Al momento non vi sono giudizi o decisioni positive di violazione dell’articolo 3 sulla base di circostanze economiche e sociali gravi. In un caso un richiedente ha argomentato che la minaccia o l’effettivo distacco dell’energia elettrica era una violazione dell’articolo 3. In un altro caso una richiedente lamentava che il rifiuto della registrazione della residenza procurava consistenti


problemi economici e sociali che potevano costituire violazione dell’articolo 3. In entrambi i casi la Corte ha deciso che le situazioni esposte non raggiungevano i livelli minimi di gravità previsti per l’applicazione dell’articolo 3.



Si potrebbe comunque argomentare che anche le persone a cui è stata concessa la protezione temporanea o altri status possono richiedere l’applicazione dell’articolo 3 se le condizioni nel paese di asilo sono troppo severe. Questo potrebbe essere il caso quando la protezione accordata non dà diritto alla cure mediche di base o alla previdenza sociale o se la persona viene lasciata senza nessuna forma di protezione.



La giurisprudenza generale della Corte riguardo all’articolo 3 potrebbe perciò dimostrarsi molto utile nel sostenere un miglioramento dell’organizzazione legale e materiale dell’accoglienza.Tale giurisprudenza potrebbe anche dimostrarsi utile al momento di fornire argomenti contro il ritorno,il rimpatrio o l’espulsione nei casi di problemi sanitari o di persone che potrebbero trovarsi in condizioni sociali o economiche di estrema gravità nel loro paese di origine.


4. Carattere assoluto e incondizionato dell’Articolo 3



La forza dell’Articolo 3 della CEDU deriva dal fatto che, secondo l’opinione della Corte, esso



consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche costituenti il Consiglio d’Europa.



L’Articolo 3 è elencato nell’Articolo 15 (2) della CEDU come una disposizione non – derogabile della Convenzione. Di conseguenza, esso deve essere mantenuto perfino “in tempo di guerra o di altra emergenza pubblica che minacci la vita di una nazione” (Articolo 15 (1) CEDU). Inoltre, diversamente da altri diritti e altre libertà incluse nella CEDU, l’Articolo 3 non lascia spazio per l’imitazione per mezzo di legge in nessuno circostanza, si tratti di sicurezza, ordine pubblico o altri motivi.



Nel caso di Irlanda contro Regno Unito, la Commissione ha stabilito:



ne segue che il divieto posto nell’Articolo 3 della Convenzione è assoluto e che, in base alla Convenzione o in base al diritto internazionale, non vi può mai essere una giustificazione per atti compiuti in violazione di tale disposizione.



La Corte ha ribadito questa posizione nella sua sentenza sullo stesso caso, quando essa ha deciso:



la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti, a prescindere dalla condotta della vittima. Diversamente dalla maggior parte delle clausole sostanziali della Convenzione e dei Protocolli n. 1 e 4, l’Articolo 3 non prevede alcuna eccezione e, in base all’Articolo 15, paragrafo 2, non vi può essere alcuna deroga da esso neppure in caso di pubblica emergenza che minacci la vita di una nazione.



Il carattere assoluto e incondizionato dell’Articolo 3 può avere implicazioni per il merito di un caso, come pure per la procedura.



a. Implicazioni riguardo al merito



Nel caso di Chahal contro Regno Unito, il governo del Regno Unito decise di espellere il richiedente, che era un attivista politico, per motivi di sicurezza nazionale e per altre ragioni politiche, a causa della sua condanna per aggressione e rissa e per il suo denunciato coinvolgimento in attività terroristiche. Il governo del Regno Unito sosteneva che vi era una limitazione implicita per l’Articolo 3 tale da autorizzare uno Stato contraente a espellere una persona anche nei casi in cui esiste un rischio reale di maltrattamento, se tale espulsione è richiesta da motivi di sicurezza nazionale.



La Corte ha affermato di essere ben consapevole delle…immense difficoltà cui gli stati nell’epoca attuale si trovano di fronte nel proteggere le loro comunità dalla violenza terroristica. Tuttavia, perfino in queste circostanze, la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura o i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti, a prescindere dalla condotta della vittima…



Perciò, ogni volta che vengono dimostrati motivi sostanziali per ritenere che una persona correrebbe un rischio reale di essere sottoposta a trattamenti contrari all’Articolo 3, se allontanata verso un altro stato, la responsabilità dello Stato contraente di salvaguardarla da tali trattamenti è coinvolta nell’atto di espulsione. In queste circostanze le attività della persona in questione, per quanto disturbanti o pericolose, non sono oggetto di considerazioni sostanziali.



D’altra parte, la Convenzione del 1951 contiene delle esplicite eccezioni alla proibizione dell’espulsione e al non-refoulement di rifugiati non riconosciuti e di richiedenti asilo, anche se esse si applicano solo in circostanze eccezionali. Il risultato, come evidenziato dalla Corte, è che


la protezione concessa dall’Articolo 3 è perciò più estesa di quella fornita dagli Articoli 32 e 33 della Convenzione della Nazioni Unite del 1951 sullo Status di Rifugiato.



Questa interpretazione dell’Articolo 3 della CEDU può servire come utile “rete di sicurezza” per i rifugiati o i richiedenti asilo considerati dall’ACNUR come ingiustamente privati della protezione internazionale. E’ necessario notare che, adottando questa posizione la Corte fornisce di conseguenza protezione dall’espulsione o dall’estradizione in situazioni, nelle quali le clausole di esclusione previste nell’Articolo 1F della Convenzione del 1951 verrebbero applicate per rifiutare lo Status di Rifugiato. La CEDU non ha tali limitazioni e le parti contraenti devono quindi assicurare sempre i diritti garantiti in base all’Articolo 3, “per quanto odioso sia il reato che, secondo l’accusa, è stato commesso”. Per estensione, l’Articolo 3 della CEDU è anche potenzialmente rilevante nei casi che sollevano problemi in base agli Articoli 1C o 1D della Convenzione del 1951.



Inoltre, mentre l’Articolo 1A (2) della Convenzione del 1951 specifica la natura del ben fondato timore di persecuzione che una persona deve avere per beneficiare della protezione internazionale, il carattere assoluto dell’Articolo 3 non richiede che sia considerata alcuna ragione per il maltrattamento.



Alla luce di quanto sopra, si può affermare che la protezione garantita dall’Articolo 3 della CEDU può talvolta essere estesa a persone che potrebbero essere escluse in base alle disposizioni della Convenzione del 1951 e che potrebbero quindi di competenza dell’ACNUR. Il coinvolgimento dell’ACNUR in questi casi sarebbe giustificato solo se si ritiene che la persona sia stata “ingiustamente” esclusa o che il suo status sia stato “ingiustamente” cancellato o revocato.



5. Agenti di persecuzione



Un altro effetto del carattere assoluto dell’Articolo 3 è costituito dal fatto che la Corte ritiene che quelle disposizioni si applichino :



nei casi in cui il pericolo proviene da persone o gruppi di persone che non sono pubblici ufficiali. Tuttavia, è necessario dimostrare che il rischio è reale e che le autorità dello stato di destinazione non sono in grado di combattere tale rischio fornendo adeguata protezione.



nel caso di Ahmed contro Austria, nel quale le autorità austriache intendevano rimpatriare il richiedente in Somalia, la Corte ha ritenuto che l’assenza di un’autorità pubblica fosse un fattore che impediva tale rimpatrio. La Corte stabilì: “Non vi era alcuna indicazione che i pericoli, ai quali il richiedente sarebbe stato esposto nel 1992, avevano cessato di esistere o che una qualsiasi autorità pubblica sarebbe stata in grado di proteggere il richiedente”.



nel caso di D. contro Regno Unito, la Corte è giunta fino ad affermare:



Data la fondamentale importanza dell’Articolo 3 nel sistema della Convenzione, la Corte deve riservare a se stessa una sufficiente flessibilità per affrontare l’applicazione di tale articolo negli altri contesti in cui potrebbe essere sollevata. Di conseguenza non le è vietato di esaminare una pretesa di un richiedente in base all’Articolo 3, quando la fonte del rischio di subire nel paese di destinazione un trattamento proibito sorge da fattori che non possono coinvolgere nè direttamente, né indirettamente la responsabilità delle autorità pubbliche di quel paese.




6. L’alternativa di fuga o di ricollocamento interni



La Corte fino a tempi recenti non aveva esplicitamente affrontato questo problema nelle sue sentenze relative all’Articolo 3. Nel caso di Chahal contro Regno Unito, il governo del Regno Unito aveva sostenuto che il richiedente, un Sikh originario del Punjab, poteva essere rimpatriato in un’altra parte dell’India, dove non avrebbe corso rischio. La Corte ha indicato nella sua sentenza:



Riguardo alla proposta del governo di rinviare il Signor Chahal in un aeroporto di sua scelta in India, è necessario che la Corte valuti il rischio di subire maltrattamenti rispetto alle condizioni esistenti in tutta l’India piuttosto che nel solo Panjab.



Questa affermazione indica che la Corte prende in considerazione la nozione di alternativa di fuga o di ricollocamento interni e ritiene che vi sarebbe violazione dell’Articolo 3, se una persona fosse rinviata in una zona del suo paese di origine in cui si troverebbe a rischio. In questo caso la Corte ha scoperto ulteriormente che “degli elementi della polizia del Panjab erano soliti agire senza riguardo per i diritti umani dei sospetti militanti Sikh ed erano completamente in grado di raggiungere i loro obbiettivi all’interno di zone dell’India molto distanti dal Panjab”.



Nel 2001 la Corte ha direttamente affrontato il problema nel caso di Hilal contro Regno Unito che riguardava un membro di un partito di opposizione di Zanzibar ( Tanzania), il quale il governo del Regno Unito riteneva avesse una possibilità di fuga interna nella madrepatria Tanzania a causa del fatto che non vi era “alcuna base dalla quale inferire che per il richiedente vi fosse un interesse delle autorità di Zanzibar o della madrepatria”. La Corte, invece accertò che nella madrepatria Tanzania persisteva “una endemica, prolungata situazione di problemi relativi ai diritti umani” e non era “di conseguenza persuasa che l’opzione di fuga interna offrisse una affidabile garanzia contro il rischio di maltrattamenti”. La Corte si era riferita a altri fattori rilevanti che includevano: (i) rapporti denuncianti maltrattamenti generali e percosse di detenuti da parte della polizia della Tanzania; (ii) condizioni inumane e degradanti nelle carceri della madrepatria, che conducevano a situazioni di pericolo di vita; (iii) legami istituzionali tra la polizia della madrepatria Tanzania e la polizia di Zanzibar implicanti che su quest’ultima non si poteva “fare affidamento come su di una salvaguardia contro atti arbitrari”; (iv) la possibilità di estradizione tra Tanzania e Zanzibar”


































RELAZIONE SULL’ATTIVITA’ DELLA COMMISSIONE


NELL’ANNO 2004













La Commissione nel corso dell’anno 2004, ha continuato a realizzare gli obiettivi di azione amministrativa riconducibili ai propri fini istituzionali, proseguendo col massimo impegno l’attività delle tre Sezioni, con un calendario prima di tre riunioni dopo di cinque riunioni a settimana.


Nell’anno 2004, sono state complessivamente esaminate


8990 domande di asilo, di cui:



· 780 sono state accolte con conseguente riconoscimento dello status di rifugiato;


· 8128 sono state respinte e, di queste 2351 hanno avuto la protezione umanitaria;


· 24 domande sono tuttora sospese per un supplemento di istruttoria;


· 13 sono stati i casi in cui i richiedenti hanno rinunciato alla domanda di asilo prima di essere convocati in commissione;


· 15 sono stati i casi di richieste di riconoscimento che non sono state considerate in quanto, per esse, è stata riconosciuta la competenza di un altro Paese dell’Unione Europea;


· 30 sono stati i casi di cessazione dello status di rifugiato.



I Paesi di maggiore provenienza dei richiedenti esaminati durante l’anno 2004 sono stati soprattutto la Liberia, l Eritrea, la Somalia e il Sudan. La provenienza geografica dei richiedenti asilo si completa, inoltre, con coloro che provengono dai paesi est-europei, nonchè da Asia e Africa, mentre si è, invece, registrata una flessione della provenienza dall’area balcanica. Sembra dunque essersi in parte esaurito il preponderante rilievo che negli anni precedenti aveva assunto, all’interno dei flussi migratori, la presenza di jugoslavi e di albanesi provenienti dal Kosovo.


Nell’anno di riferimento, alla Commissione risultano pervenuti circa 7.153 verbali di nuove domande d’asilo. A tale riguardo, va subito avvertito che la circostanza che il numero delle domande pervenute nell’anno di riferimento non corrisponda al numero delle domande esaminate non deve sorprendere. Se si tiene conto della circostanza che il tempo di attesa tra la presentazione in Questura dell’istanza di riconoscimento e l’esame della stessa da parte della Commissione è di circa dieci mesi, molte delle richieste di riconoscimento esaminate dalla Commissione nel 2004 erano state presentate in anni antecedenti.


Il dato di 7.153 verbali di nuove domande pervenute nel 2004 si riferisce, dunque, alle domande formulate nell’anno 2004, pervenute alla Commissione ed inserite al C.E.D., ossia nell’applicazione informatica con cui vengono gestiti i dati relativi all’attività della Commissione.


A tale riguardo, occorre ancora considerare, per completezza, che le Questure ancora non hanno ultimato l’invio di tutte le domande in loro possesso relative agli anni precedenti e che presso questa Commissione sono ancora in giacenza circa 20.000 domande di asilo che devono essere esaminate.



Per contribuire comunque a fronteggiare il ben noto fenomeno della proliferazione delle domande di asilo, nel corso dell’anno 2004 la Commissione si è recata 12 volte in missione presso alcune Prefetture che avevano segnalato situazioni di emergenza. Durante tali missioni la sezione itinerante della Commissione ha proceduto a esaminare direttamente in loco 2145 richieste di asilo.



Contemporaneamente, grazie alla disponibilità e all’impegno dei componenti supplenti, è stato possibile assicurare anche il pieno svolgimento delle sedute in sede centrale a Roma.



Anche riguardo a questo aspetto è da mettere in rilievo il forte incremento di questo tipo di attività della Commissione, nell’anno 2004, rispetto agli anni precedenti



Inoltre in base alla circolare del Dipartimento di P.S. del 2001 la Commissione deve esprimere il suo parere su tutte le richieste di rinnovo dei permessi di soggiorno a carattere umanitario segnalate dalle Questure.



Per completezza, si fa anche presente che la nuova legge 30 luglio 2002, n. 189, recante il titolo “Modifica alla normativa in materia di immigrazione ed asilo”, ha profondamente innovato nella materia, affidando l’esame delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato a delle Commissioni Territoriali operanti in sede locale e ha riservato alla Commissione Nazionale solo compiti di indirizzo e coordinamento delle predette Commissioni Territoriali, nonchè la formazione e l aggiornamento dei componenti delle medesime e la raccolta di dati statistici, riducendo i poteri decisionali di quest’ultima soltanto ai casi di revoche e cessazioni dello status di rifugiato.


A tale riguardo la Commissione nel corso del 2004 è stata notevolmente impegnata sia nella stesura del Regolamento di attuazione della legge Bossi-Fini sia nella preparazione dei corsi di formazione per i componenti delle Commissioni Territoriali secondo quanto previsto dalla legge.



Occorre mettere in giusta evidenza che l’esame delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, pur costituendo l’aspetto predominante dell’attività della Commissione, non ne esaurisce completamente l’ambito di attività.



La Commissione, infatti, svolge anche un’importante funzione di cooperazione internazionale, mediante la collaborazione e lo scambio di informazioni con gli analoghi organismi con competenza in materia di asilo degli altri Paesi e non solo dell’Unione Europea.


In tale suo ambito di attività, nel corso dell’anno 2004, la Commissione ha avuto incontri con delegazioni di Paesi stranieri finalizzate allo scambio di informazioni e esperienze in ordine a ogni tipo di problematica riguardante i flussi dei richiedenti, lo status di rifugiato e, in particolare, i criteri di valutazione delle differenti situazioni del Paesi di provenienza, anche con particolare riguardo alla condizione delle diverse etnìe di appartenenza dei richiedenti. Nel 2004 è stato organizzato un incontro tra il Presidente della Commissione e la rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti umani.



L’ambito delle attività della Commissione comprende anche un rilevante aspetto di spessore culturale, come è dimostrato dall’attenzione che a questo organismo rivolgono importanti istituti di cultura impegnati in ricerche di tipo non solo giuridico, ma anche sociologico ed economico, in ordine al fenomeno dell’asilo politico.


Nel corso dell’anno 2004, infatti, l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Facoltà di Scienze della Comunicazione – si è rivolta a questa Commissione per tenere una lezione al Master sull immigrazione e l asilo.




BIBLIOGRAFIA



MANUALE SULLE PROCEDURE


E SUI CRITERI


PER LA DETERMINAZIONE


DELLO STATUS DI RIFUGIATO


dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati


Ai sensi della Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967


Relativi allo status dei rifugiati


Ginevra, settembre 1979




THE REFUGEE IN INTERNATIONAL LAW


Guy s. Goodwin-Gill


Clarendon Press – Oxford




THE LAW OF REFUGEE STATUS


James C. Hathaway


LL.B., LL.M., J.S.D.


Osgoode Hall Law School


York University




EUROPE AND REFUGEES


Towards an EU Asylum Policy


Ingrid Boccardi




DIRITTO DEGLI STRANIERI


A cura di B.Nascimbene



BOLLETTINO-CIR


(n.6-2002)






SOMMARIO






PREMESSA............................................................................................................... pag. 1



Ø Origini della Convenzione di Ginevra............................................................ pag. 3


Ø Convenzione di Ginevra................................................................................. pag. 5


Ø Legislazione Italiana....................................................................................... pag. 8


Ø Normativa Europea........................................................................................ pag. 12


Ø Requisiti per essere considerato rifugiato....................................................... pag. 14


Ø Responsabili della persecuzione o del danno grave........................................ pag. 16


Ø Motivi di riconoscimento o di non riconoscimento........................................ pag. 17


Ø Note sull’applicabilità dell’art. 1D della Convenzione del 1951 sullo Status dei rifugiati in relazione ai rifugiati palestinesi...................................................................... pag. 24


Ø Le clausole di esclusione................................................................................ pag. 28


Ø Tutela internazionale dei minori non accompagnati....................................... pag. 36


Ø Protezione internazionale delle donne vittime di violenza............................. pag. 40


Ø Unità familiare................................................................................................ pag. 49


Ø Onere della prova........................................................................................... pag. 51


Ø Alternativa di fuga interna o del trasferimento............................................... pag. 57


Ø Protezione umanitaria.................................................................................... pag. 66


Ø Principio di “Non Refoulement”.................................................................... pag. 71


Ø Rifugiato “Sur Place”..................................................................................... pag. 73


Ø Cessazione...................................................................................................... pag. 74


Ø Revoca........................................................................................................... pag. 76


Ø Protezione temporanea................................................................................... pag. 77


Ø Tecniche di intervista..................................................................................... pag. 78


Ø Giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.............................. pag. 86


Ø Relazione sull’attività della Commissione nell’anno 2004 ............................. pag. 95


Ø Bibliografia…………………………………………………………………..pag. 98


Ø Sommario……………………………………………………………………pag. 99









[1] UNHCR, Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, 1979, paragrafo 149.




[2] Interpretazione sostenuta anche dal Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (V. DuskoTadic caso n. it-94-I-T Decis. 10-08-95)




[3] Art. 6 (c) della Carta di Londra considera “l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, ed altre azioni disumane commesse contro la popolazione civile, prima o durante le guerre, o le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi in esecuzione o in connessione con qualsiasi reato nell’ambito della giurisdizione del Tribunale, in violazione o meno della legislazione interna del Paese in cui vengono perpetrate.”




[4] Peter J. Van Krieken, The esclusion clause, T M C Asser Press, The Hague, 1999.




[5] V. Moreno vs. Canada (min. del Lavoro e dell’Immigrazione, causa A-746-91




[6] Art. 1: Ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di distruggere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra uomo e donna.




[7] In alcuni Stati Europei la giurisprudenza sta avendo questa impostazione; ad esempio a Cipro è stato rilasciato un permesso umanitario ad una donna nigeriana incinta di sette mesi, la quale, rischiava di essere lapidata nel suo Paese per aver avuto un figlio al di fuori del matrimonio.




[8] L’Austria ha concesso asilo ad una donna che era fuggita dal Camerun per evitare la mutilazione genitale femminile.




[9] Nel febbraio 2001 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha emesso le prime condanne per stupro come crimine contro l’umanità nei confronti di ufficiali serbo-bosniaci.




[10] Le linee guida suggeriscono che, nel caso in cui donne temano una persecuzione o una severa discriminazione a causa del loro genere, esse vengano considerate, ai fini della determinazione dello status, come membri di un particolare gruppo sociale. Suggeriscono, inoltre, che vi siano le condizioni per la concessione dello status di rifugiato quando un governo non può o non vuole proteggere donne soggette ad abusi per aver trasgredito gli standards e le norme sociali.




[11] Come avvenuto nel conflitto della ex Jugoslavia. Nel febbraio 2001 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha emesso le prime condanne per stupro come crimine contro l’umanità nei confronti di ufficiali serbo-bosniaci.




[12] Per ulteriori dettagli, vedi UNHCR “Interpreting Article 1 of the 1951 Convention relating to the status of refugeee” Ginevra, aprile 2001, (qui di seguito UNHCR, “Interpretare l’Articolo 1”), par. 12.




[13] Ibid., par.35-37.




[14] (Enfasi aggiunta) La Dichiarazione di Cartagena del 1984 fa anche specificatamente riferimento all’Articolo I(2) della Convenzione sui rifugiati dell’OUA.




[15] Vedi UNHCR, Manuale sulle procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiato (1979, Ginevra, nuova edizione 1992), (qui di seguito “Manuale UNHCR”), par.91.




[16] Per le questioni riguardanti l’onere della prova, vedere sezione III.A di seguito.




[17] Vedi Summary Conclusions –Internal Protection/Relocation/Flight Alternative, Global Consultations on International Protection, San Remo Expert roundtable, 6-8 September 2001 (di seguito “Summary Conclusions –Internal Protection/Relocation/Flight Alternative”), para. 2; UNHCR, “Interpreting Article 1”, paras. 12-13.




[18] Vedi anche i paragrafi 16,17 e 27 di queste Linee guida.




[19] Vedi Manuale UNHCR, par. 51-52.




[20] Un diritto più’ generale a non essere respinto verso un paese dove esista un rischio di tortura o trattamento crudele o disumano, si trova, sia esplicitamente che in via interpretativa, in strumenti internazionali di diritti umani. I più’ importanti sono l’Articolo 3 della Convenzione contro la tortura del 1984, l’Articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e l’Articolo 3 della Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà’ fondamentali del 1950.




[21] Vedi UN documento EC/50/SC/CRP.18, 9 giugno 2000 e EC/GC/01/18, 4 settembre 2001




[22] Vedi anche W. Kälin, Guiding Principles on Internal Displacement: Annotations, Studies in Transnational Legal Policy No. 32 2000 (The American Society of International Law, The Brookings Institution, project on internal Displacement), pp. 8-10




[23] Vedi Summary Conclusions – Internal Protection/Relocation/Flight Alternative, para.7.




[24] Vedi Summary Conclusions – Internal Protection/Relocation/Flight Alternative, para.6; Executive Committee Conclusions No. 87 (L), 1999,para.j; e Note on International Protection, 1999, para.26 (UN doc. A/AC.96/914, 7 luglio 1999).





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