INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE NEL CASO DI DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA E NEI PERIODI DI INATTIVITÀ IN COSTANZA DI RAPPORTO DI LAVORO DI VARIO TIPO.
Dr. Domenico De Fazio
(Funzionario Direzione Generale INPS)*
* Le opinioni espresse all’interno di tale contributo sono personali e non riconducibili all’amministrazione di appartenenza.
1. Involontarietà della disoccupazione e dimissioni per giusta causa.
L’art.45 R.D.L.n.1827/1935 stabilisce che l’indennità di disoccupazione spetta a coloro che si trovano in uno stato di “disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro”.
La disoccupazione è certamente involontaria in caso di licenziamento e cessazione di un rapporto di lavoro a termine.
In caso di dimissioni, l’art.76 comma 3 R.D.L.n.1827/1935 stabiliva che se la disoccupazione deriva “da dimissioni…, il periodo indennizzabile è ridotto di trenta giorni dalla data di cessazione del lavoro…”.
Quindi, seppur implicitamente, la suddetta norma ammetteva l’erogazione dell’indennità di disoccupazione anche a seguito di dimissioni del lavoratore.
L’articolo 34, comma 5, della legge n. 448 del 23 dicembre 1998 è intervenuto in tale materia, disponendo che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non dà titolo in nessun caso all’erogazione dell’indennità ordinaria di disoccupazione, agricola e non agricola.
Conseguentemente, l’indennità di disoccupazione spetta solo nel caso di licenziamento, perché solo in tal caso si produce uno stato di disoccupazione “involontario” da tutelare ai sensi dell’art.38 c.2 Cost.
In linea con le nuove disposizioni normative, l’INPS aveva emanato le circolari nn.27/1999 e 128/2000, specificando in quest’ultima direttiva che l’indennità di disoccupazione, nel caso di dimissioni volontarie del lavoratore, restava erogabile solo nella particolare ipotesi di lavoratrici madri dimissionarie durante il periodo della gravidanza in cui sussiste il divieto di licenziamento.
Sulla questione si è successivamente pronunciata la Corte Costituzionale con sentenza n. 269/2002, affermando che le dimissioni riconducibili a “giusta causa” comportano, al pari del licenziamento, uno stato di disoccupazione involontaria.
In adesione a tale ultima pronuncia, l’INPS ha emanato le circolari nn. 97/2003 e 163/2003.
Sulla base delle indicazione della Corte Costituzionale e delle altre pronunce giurisprudenziali, le circolari suddette hanno indicato una serie di ipotesi in cui le dimissioni sono determinate da “giusta causa”:
a) mancato pagamento della retribuzione; aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro; modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative (Corte Costituzionale n.269/2002);
b) c.d. mobbing, ossia di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l’altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o demansionamento, già previsti come giusta causa di dimissioni)[1];
c) notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda (anche Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002);
d) spostamento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art.2103 codice civile (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
e) comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985).
Come posto in evidenza anche dalla giurisprudenza citata, la giusta causa di dimissioni non può essere individuata in base ad una valutazione soggettiva del lavoratore, ma deve essere riconducibile alle vicende intercorse tra le parti del rapporto di lavoro.
In pratica, essa si realizza solo quando si è in presenza di un grave inadempimento contrattuale ovvero di una violazione di principi o di lesione di diritti costituzionali nell’ambito del rapporto lavorativo.
A tal riguardo, ci si è chiesto, ad esempio, se sono riconducibili a giusta causa le dimissioni presentate per gravi esigenze di salute del lavoratore oppure derivanti dall’esigenza di assistere un figlio o un prossimo congiunto gravemente malato.
In questi casi occorre rilevare che le circostanze da cui derivano le dimissioni non riguardano il rapporto di lavoro ma la sfera personale del lavoratore.
Ne consegue che le dimissioni sono da considerare volontarie e non spetta l’indennità di disoccupazione.
D’altra parte, l’ordinamento tutela la condizione dei lavoratori che si trovano in particolari situazioni di salute o familiari con una serie di previsioni di legge o contrattuali ed in particolare le norme a tutela della famiglia e quelle che stabiliscono:
- il diritto ai permessi e ai congedi (retribuiti o non) per esigenze familiari o personali (ad esempio, nel caso di malattia del figlio oppure nei casi di cui alla legge n. 104/1992);
- il divieto di licenziamento del lavoratore, previsto dai contratti collettivi, nel periodo di comporto per malattia;
- il diritto a pensione di invalidità o inabilità.
Peraltro, se il lavoratore si dimette perché le sue condizioni di salute non consentono “la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” di lavoro (art.2119 c.c.), egli non potrà neppure effettuare la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro presso i Centri per l’Impiego (art.3 D.lgs.n.297/2002), prevista anch’essa come condizione necessaria per ottenere l’indennità di disoccupazione.
Ad avvalorare le suddette conclusioni e la loro correttezza anche dal punto di vista della giustizia sostanziale, si deve segnalare la sentenza n. 9960/2002 della Corte di Cassazione, secondo cui, nel caso di diagnosi di malattia con esito infausto (ad esempio, tumore o AIDS in stato avanzato), ai fini del riconoscimento delle prestazioni previdenziali per invalidità (assegno di invalidità INPS), si può presumere sempre un collasso psichico di rilevante entità (c.d. invalidità etica, già individuata dalla Cassazione, sentenza n.2921/1992); da ciò consegue l’esclusione dei normali approfonditi accertamenti sulla sussistenza del requisito sanitario richiesto per ottenere l assegno di invalidità e il più agevole riconoscimento della prestazione di invalidità.
1.1. Recesso o esclusione del socio lavoratore di cooperativa.
Fino all’entrata in vigore della legge n.30/2003 (c.d. legge Biagi), era prevista l’erogazione dell’indennità di disoccupazione ai soci-lavoratori di cooperative[2] nei casi in cui, insieme al rapporto lavorativo, cessava il rapporto associativo per recesso o esclusione del socio oppure, laddove fosse stato mantenuto il rapporto associativo, dopo la dimostrazione dell’avvenuta dichiarazione di disponibilità al Centro per l’impiego.
L’articolo 9 c.2 della legge n.30/2003 ha modificato l’articolo 5 c.2 2 della legge n.142/2001 (legge di riforma delle cooperative di lavoro), prevedendo che “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli
articoli 2526 e 2527 del codice civile”[3].
Ciò significa che il recesso oppure la esclusione del socio fanno “automaticamente” cessare il rapporto di lavoro[4].
Il recesso dal rapporto associativo viene liberamente scelto dal socio-lavoratore e - viste le conseguenze che la legge vi ascrive (estinzione rapporto di lavoro) - è anche indiretta manifestazione di volontà di estinguere il rapporto di lavoro; si dovrebbe concludere che esso è assimilabile alle dimissioni volontarie, non derivandone una disoccupazione involontaria e, quindi, indennizzabile, salvo la ricorrenza di una giusta causa di recesso.
Per quanto riguarda l’esclusione del socio lavoratore deliberata dagli organi della cooperativa, viste le cause che la determinano e le conseguenze di cui alla norma citata, la fattispecie è assimilabile al licenziamento (per giusta causa), per cui, in tal caso, spetta l’indennità di disoccupazione[5].
2. Periodi di inattività nel rapporto di lavoro.
La qualificazione dei periodi di inattività all’interno di un rapporto di lavoro ancora esistente risulta molto problematica, soprattutto per le conseguenze sull indennizzabilità degli stessi periodi.
Secondo un diffuso orientamento (vedi Corte di Cassazione, sentenza n.1141 del 10 febbraio 1999), “non sembra rilevante, al fine di escludere lo stato di disoccupazione, l’esistenza di un vincolo contrattuale che assicuri in un momento futuro il lavoro e la retribuzione”, ammettendo, per tale via, l’indennizzabilità dei periodi definiti atecnicamente di “sospensione” dell’attività lavorativa.
Relativamente ai periodi di sospensione degli effetti del contratto di lavoro, la Circolare INPS n. 53140 Obg/22 del 3 febbraio 1953, aveva già disposto, su indicazione del Ministero del Lavoro, il pagamento dell’indennità di disoccupazione ai lavoratori interessati, ai quali si richiedeva l’iscrizione alle liste di collocamento.
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n.1732/2003, anche se riguarda in modo specifico il rapporto di lavoro con part-time verticale, ha introdotto principi innovativi rispetto alla più ampia problematica della qualificazione giuridica degli stati di inattività del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro; tali principi erano già, in larga parte, applicati dall’INPS.
2.1. Il caso del rapporto di lavoro con part-time verticale.
La sentenza n.1732/2003 risolve il problema relativo all’indennizzabilità dei periodi di inattività all’interno del rapporto di lavoro con part-time verticale[6].
- La sentenza delle Sezioni Unite distingue, prima di tutto, tra part-time e lavoro stagionale: mentre la legge tutela i lavoratori stagionali che si trovano in uno stato di inattività forzata dovuta alle oggettive caratteristiche della prestazione, nel part-time verticale il lavoratore, fin dal momento della stipulazione, accetta di non lavorare per determinati periodi.
- Inoltre, il rapporto di lavoro in questione viene utilizzato non solo nei casi di lavorazioni c.d. cicliche - con normali periodi di sospensione - ma anche per attività non soggette a pause, in cui il periodo di impegno del lavoratore è determinato in base alle più diversificate esigenze dei lavoratori e, soprattutto, dei datori di lavoro.
Sulla base di tale presupposto, la Suprema Corte ha ritenuto di non violare quanto già affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.160/1974, secondo cui l’indennità di disoccupazione spetterebbe sia agli stagionali sia ai lavoratori che prestano attività “soggetta a normali periodi di sospensione”, come avviene nel part-time verticale.
In pratica, l’impiego del part-time verticale in attività cicliche viene considerato solo come una delle possibili modalità di utilizzo di tale strumento contrattuale e non come la regola.
- La riscoperta dell’elemento volontaristico nel contratto di lavoro subordinato dipende anche dall’esigenza pratica di evitare che il lavoratore, concordando i periodi di inattività, possa fare affidamento sulla copertura previdenziale e fare della stessa un sostegno economico stabile e sicuro, utilizzabile secondo le sue esigenze. Si deve, infatti, sottolineare che un lavoratore potrebbe scegliere volontariamente un part-time verticale e compiere la dichiarazione di disponibilità al lavoro al Centro per l’impiego all’inizio del periodo di inattività, contando sul fatto che il proprio reddito sarà composto dall’indennità di disoccupazione e dalla retribuzione garantita dal rapporto part-time, con un evidente uso strumentale dell’ammortizzatore sociale.
- La decisione della Corte di Cassazione, infine, appare più in linea con l’attuale tendenza alla massiccia diffusione dei contratti flessibili[7] – e, tra di essi, il part-time ha un ruolo importantissimo – nonché con il tentativo di “indirizzare” la spesa per gli ammortizzatori sociali verso scopi non meramente assistenzialisti.
2.2. Il caso della c.d. sospensione del rapporto di lavoro.
Principio fondamentale della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato è quello secondo cui “la retribuzione non è dovuta dal datore di lavoro solo nel caso in cui la prestazione lavorativa sia divenuta impossibile (artt.1206, 1256, 1258 c.c.) ovvero sia stato stipulato un accordo modificativo del contratto individuale di lavoro in forza del quale le parti convengono che per un certo periodo non saranno eseguite le prestazioni e controprestazioni (sospensione del rapporto)” (Cass.sez.lav.n.7300 del 16 aprile 2004).
Ne deriva che le ipotesi di sospensione del rapporto lavorativo sono le seguenti:
a) sospensione derivante da decisione unilaterale del datore di lavoro.
Al fine di escludere l’obbligo della retribuzione in favore del lavoratore, il datore dovrà provare “l’esistenza di una causa d’effettiva ed assoluta impossibilità sopravvenuta di ricevere la prestazione a lui non imputabile”. “La impossibilità deve essere fondata sull’inutilizzabilità della prestazione lavorativa per fatti non addebitabili allo stesso datore di lavoro, perché non prevedibili, né evitabili, né riferibili a carenze di programmazione o d’organizzazione aziendale o a calo di commesse o a crisi economiche o congiunturali o strutturali e, salvo comunque, un eventuale accordo tra le parti”[8].
Nel caso in cui si verifichi un’ipotesi di impossibilità della prestazione lavorativa totale o parziale, la decisione del datore di sospendere il rapporto il lavoro dà luogo ad un periodo di tempo che viene tutelato dalla normativa, o attraverso il ricorso alle integrazioni salariali oppure, nei settori esclusi dall’ambito applicativo delle integrazioni salariali, attraverso l’indennità di disoccupazione ordinaria con requisiti normali (e anche con requisiti ridotti per il settore artigiano).
In mancanza di un’impossibilità della prestazione lavorativa con le caratteristiche sopra descritte, la decisione unilaterale del datore di sospendere il rapporto di lavoro non fa venire meno il diritto alla retribuzione in favore del lavoratore (Cass.n.7300/2004) e, quindi, non dà luogo a periodi di disoccupazione indennizzabili.
b) Sospensione derivante da accordo tra datore e lavoratore.
Nel frequente caso di mancanza di commesse o di crisi economiche, congiunturali o strutturali, normalmente il lavoratore manifesterà, per fini difensivi, il suo consenso rispetto ad una sospensione delle sue prestazioni “a zero ore e a zero retribuzione”.
In tal caso, avendo il lavoratore manifestato il suo consenso alla sospensione e seguendo in modo acritico i principi in materia di involontarietà della disoccupazione, si dovrebbe escludere che il successivo periodo di inattività sia di vera e propria disoccupazione “involontaria” e, quindi, che possa considerarsi meritevole di tutela economica.
Senonché tale conclusione non tiene nel debito conto le ragioni che spingono il lavoratore al suddetto accordo: si tratta, infatti, di ragioni certamente difensive del proprio posto di lavoro e, pertanto, deve ritenersi ricorrente un’ipotesi di “giusta causa”.
Per tale via, così come le dimissioni per “giusta causa” non escludono il diritto all’indennità di disoccupazione e sono equiparate al licenziamento, anche l’accordo raggiunto tra datore di lavoro e lavoratore per una sospensione “contrattata” del rapporto lavorativo - in periodi di mancanza di commesse o di crisi economica, documentabili e debitamente comunicate ai servizi ispettivi della Direzione Provinciale del lavoro e all’INPS - non fa venire meno il diritto all’indennità, in quanto il periodo di “sospensione” deve considerarsi alla stregua di una disoccupazione involontaria[9].
In tali casi, ciò che garantisce il rispetto del principio dell’involontarietà della disoccupazione è l’accertamento dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità della causa di sospensione, utile anche per evitare eventuali “speculazioni”.
In considerazione dei nuovi indirizzi giurisprudenziali sopra descritti, l’INPS, con Messaggio della Direzione Centrale Prestazioni a sostegno del reddito n.5291 del 26 febbraio 2004, ha diramato nuove e più puntuali disposizioni anche relativamente alle ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro, integrando e adeguando il contenuto della Circolare Obg. 53140/1953.
La sospensione deve essere debitamente comunicata sia alla Direzione Provinciale del lavoro-servizio ispettivo sia all’INPS e occorre accertare gli ordinari requisiti (dichiarazione di disponibilità ad altro lavoro da parte dei lavoratori interessati, anzianità assicurativa e requisito contributivo)[10].
In relazione agli eventi “imprevedibili” che devono essere alla base della sospensione dell’attività aziendale da parte del datore di lavoro – la quale può dar luogo ad una sospensione di tutti o di parte dei lavoratori - l’evento deve derivare da fattori esterni, contingenti, non prevedibili, in relazione alla natura dell’attività lavorativa, alle previsioni contrattuali e alle caratteristiche concrete dei rapporti di lavoro.
Se rispondono a tali caratteristiche, una crisi di mercato o la mancanza di lavoro, di commesse, di ordini o di materie prime ovvero altri eventi eccezionali che incidono sul singolo settore di mercato o anche sul mercato in generale, possono essere considerati eventi imprevedibili e, quindi, dar luogo a periodi di disoccupazione involontaria e indennizzabile[11].
Di contro, il periodo di inattività dovuto a sospensione dell’attività aziendale non è indennizzabile se dipende, ad esempio:
a) da una diversa distribuzione del lavoro nell’arco dell’anno, che si ripete costantemente di anno in anno (ad esempio, per le imprese manifatturiere, ciò accade per le esigenze di rinnovo del campionario). In tal caso il periodo di inattività diventa una costante del rapporto di lavoro ed è prevedibile;
b) dal fatto che l’attività lavorativa ha sempre punte stagionali (ad esempio, picchi di flusso turistico che si ripetono ogni anno nello stesso periodo a cui succedono periodi di forte riduzione del lavoro;
c) dal fatto che il lavoro si concentra solo in certi periodi (ad esempio, autisti di scuolabus e lavoratori delle mense e refettori scolastici che lavorano sempre solo nel periodo settembre-giugno).
Anche in queste ipotesi, i periodi di inattività, quando diventano prevedibili, non integrano una disoccupazione involontaria ma sono effetto naturale della tipologia di rapporto di lavoro instaurato e dal suo concreto svolgimento nonché della programmazione del datore di lavoro.
Del resto, l’art.76 R.D.L.n.1827/1935 prevede che “la disoccupazione nei periodi di stagione morta, per le lavorazioni soggette a disoccupazione stagionale, e quella relativa a periodi di sosta, per le lavorazioni soggette a normali periodi di sospensione, non danno diritto all’indennità”.
2.3. Il caso particolare dei lavoratori a domicilio.
A proposito dei lavoratori a domicilio, è interessante evidenziare che i criteri su cui si basa la sentenza delle Sezioni Unite n.1732/2003, erano stati in qualche modo anticipati da un’altra sentenza della Corte di Cassazione (n. 14127/2002).
In quest’ultima si afferma che “i lavoratori a domicilio hanno diritto all’indennità di disoccupazione involontaria sempre che il rapporto si estingua per licenziamento” o dimissioni per giusta causa. L’estensione del trattamento di disoccupazione ai lavoratori precari (lavoratori occasionali e infrasemestrali), di cui al R.D.L.n.1827/1935, non riguarda il rapporto di lavoro a domicilio, per il quale “nessuna norma consente la corresponsione dell’indennità…durante i periodi di inoccupazione fra una commessa e l’altra, e nella perdurante esistenza del rapporto stesso”. “La diversa soluzione finirebbe per assegnare alla indennità di disoccupazione…una funzione ad essa estranea: quella di integrazione dei guadagni del lavoratore a domicilio non sufficientemente occupato…analoga a quella propria delle garanzie…di integrazione salariale, dalle quali il lavoratore a domicilio è espressamente escluso”[12].
Visto che la Circolare INPS n.313/1962 ammetteva l’indennizzabilità delle sole interruzioni (dell’attività tra la consegna di una commessa ed un’altra) che si fossero prolungate “oltre il limite normale”, con Messaggio INPS n. 895/2003 si è chiarito che anche tali ultime interruzioni non sono più indennizzabili.
Ne deriva che i lavoratori a domicilio hanno diritto all’indennità di disoccupazione con requisiti normali solo nei casi, indicati sub 2), in cui ne hanno diritto gli altri lavoratori subordinati.
2.4. Insegnanti immessi in ruolo con decorrenza giuridica diversa dalla decorrenza c.d. economica e indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti.
Con messaggio n.42214 del 29 dicembre 2004, la Direzione Centrale Prestazioni a sostegno del reddito dell’INPS ha modificato il precedente orientamento sulla concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti agli insegnanti immessi in ruolo dal Ministero dell’Istruzione con decorrenza economica diversa dalla decorrenza giuridica.
Nel messaggio suddetto si sottolinea che, in tali casi, la perdita dello stato di disoccupazione al momento dell’immissione in ruolo è puramente formale, in quanto gli insegnanti, per un certo periodo di tempo, continuano a non percepire alcuna retribuzione, rimanendo involontariamente sostanzialmente disoccupati.
Per tale ragioni, si è optato per l’indennizzabilità del periodo intercorrente tra la decorrenza giuridica dell’immissione in ruolo e la decorrenza c.d. economica[13].
[1] Il c.d. mobbing è una figura ormai accettata dalla giurisprudenza (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n.143/2000)
[2] L’indennità spetta solo ai soci-lavoratori di cooperative non rientranti nell ambito applicativo del D.P.R.n.602/1970, che sono escluse dalla contribuzione contro la disoccupazione involontaria;
[3] L’art.2526 c.c. stabilisce che il recesso deve essere comunicato alla società con raccomandata e annotato nel libro dei soci.
L’art.2527 c.c. stabilisce che l esclusione può avvenire:
- per mancato pagamento delle quote o azioni sottoscritte;
- per gravi inadempienze delle obbligazioni previste da leggi o dal contratto sociale;
- per la dichiarazione dell’interdizione o inabilitazione del socio o per condanna ad una pena che importa la interdizione dai pubblici uffici;
- se socio lavoratore, per sopravvenuta inidoneità a svolgere il lavoro;
- se socio che ha conferito una bene in godimento, se esso è perito per causa non imputabile agli amministratori;
- se il socio è stato dichiarato fallito;
- negli altri casi previsti dall’atto costitutivo.
[4] Al contrario, invece, il rapporto associativo può continuare, come avveniva nel passato, anche se viene meno il rapporto lavorativo.
[5] Ex art.2527 c.c., l’ex socio-lavoratore dovrebbe comunque presentare copia dell’annotazione dell’esclusione nel libro dei soci;
[6] Al riguardo, la Circolare INPS n.198 del 13 luglio 1995, al punto 3, rilevava la insussistenza “delle condizioni per l’indennizzabilità dei periodi di inattività” all’interno di tali rapporti di lavoro; ciò veniva confermato con Messaggio n.12956 del 25 marzo 1998, punto 1, estendendo la regola della non indennizzabilità anche alle “interruzioni del lavoro programmate o comunque prevedibili”.
[7] Ammettere l’indennizzabilità dei periodi di inattività all’interno del part-time verticale in una fase di espansione di tale contratto, potrebbe determinare un notevole innalzamento della spesa per l’indennità di disoccupazione. Le Sezioni Unite hanno sottolineato tale aspetto quando hanno affermato che la definizione della disoccupazione involontaria è “rimessa alla discrezionalità del legislatore” e dipende “in gran parte dalle mutevoli contingenze dell’economia e in particolare del mercato del lavoro e della capacità di spesa dell’ente assicuratore, da contemperare con l’accertata situazione di bisogno degli assicurati”.
[8] E’ ovvio che in caso di calo delle commesse o crisi economica di qualunque tipo, la sospensione sarà utilizzata da entrambe le parti del rapporto di lavoro in funzione difensiva dei posti di lavoro. La sospensione contrattata sarà trattata al punto 2.
[9] Il requisito dell’involontarietà della disoccupazione, quindi, va ricercato non solo con riguardo alla “volontà” espressa dal lavoratore ma anche con riguardo alle cause che hanno dato luogo a tale manifestazione di volontà.
[10] Se la sospensione dell’attività aziendale coinvolge anche lavoratori a domicilio, essa prevale sulla sosta del lavoro tra una commessa e un’altra; ne deriva che, dal momento della sospensione e della conseguente dichiarazione di disponibilità, il lavoratore a domicilio coinvolto nella sospensione dell’attività aziendale potrà beneficiare dell’indennità di disoccupazione con requisiti normali come gli altri lavoratori subordinati che prestano attività nella sede aziendale.
[11] Una situazione particolare potrebbe verificarsi quando le sospensioni, anche parziali, dell’attività aziendale - con conseguenti sospensione di tutti o parte dei rapporti di lavoro – si ripetano a brevi intervalli di tempo (ad esempio, nell’arco di un anno solare o di 6-8 mesi, le sospensioni comunicate a distanza di uno o due mesi dalla prima, per la ricorrenza degli stessi eventi o per cause diverse). In tali casi, è necessaria una valutazione caso per caso ma, in via generale, si dovrebbe escludere il carattere di imprevedibilità a partire dalla seconda comunicazione di sospensione dell’attività aziendale, laddove si fondi sulle stesse cause.
[12] E’ evidente che, nella fattispecie, la Suprema Corte ha considerato prevedibili e accettati dai lavoratori a domicilio i periodi di inattività tra la consegna di una commessa ed un’altra e, pertanto, ha ritenuto che essi non integrassero una disoccupazione involontaria, secondo lo stesso iter logico poi seguito per i rapporti di lavoro con part-time verticale.
[13] Si rileva, comunque, che, come lo stesso messaggio INPS sottolinea, la normativa attuale permette la riscattabilità del periodo intercorrente tra la decorrenza giuridica e quella c.d. economica.
Ammettendo il pagamento dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti si garantisce la copertura contributiva figurativa e, per tale via, si esclude anche la possibilità di riscattare volontariamente il periodo.