I LIMITI DELLA RIVALSA DELL’INAIL
Avv. Calogero Lo Giudice
(Avvocatura Inail-Pisa)
Il problema.
Un particolare tema, già affrontato in un precedente scritto (“Danno biologico INAIL e danno differenziale del lavoratore” 29/9/2004, in www.lavoroprevidenza.com) necessita di una più completa e, soprattutto, più persuasiva disamina, in considerazione della sempre più frequente rilevanza pratica.
Si tratta della questione della scindibilità dei titoli indennitari (danno biologico/ “conseguenze patrimoniali”, di cui all’art. 13, c.2, lett. b del D. Leg.vo n.38/2000), ai fini degli attuali limiti della rivalsa da parte dell’Inail.
Come è noto, il Decreto Legislativo n. 38 del 23 febbraio 2000, nell’introdurre nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la tutela del danno biologico, ha rimodulato l’indennizzo in rendita (per menomazioni di grado pari o superiore al 16%), distinguendolo in due quote, di cui una corrispondente al danno biologico, l’altra alle “conseguenze patrimoniali” (così anche, Cass. Lav. 21 marzo 2002 n.4080).
Ebbene, nella trattazione stragiudiziale delle rivalse INAIL, è voce assai diffusa (soprattutto tra le Compagnie di Assicurazione e gli infortunati-danneggiati) quella che sostiene che, nel caso di erogazione di rendita per menomazioni di grado pari o superiore al 16%, l’Istituto debba limitare la propria rivalsa alla quota corrispondente al danno biologico, in assenza di effettivo danno patrimoniale.
In altri termini, l’Inail sarebbe tenuto ad esternare l’importo della rendita, scindendolo nelle due voci di danno indennizzate (danno biologico/ “danno patrimoniale”).
In tal modo, si precluderebbe, da un lato, l’esercizio della rivalsa fino alla concorrenza dell’ammontare delle prestazioni erogate, limitandolo alla quota corrispondente al danno biologico e, dall’altro, risulterebbe avvantaggiato l’infortunato-danneggiato, per il maggior “differenziale” che verrebbe, in concreto, a percepire.
Un esempio giova a comprendere più facilmente i termini della questione. Si ipotizzi che, a seguito di infortunio in itinere, l’Inail, avendo accertato un grado di menomazione del 20%, abbia riconosciuto a favore del lavoratore danneggiato una rendita di € 58.000,00 di cui € 25.000,00 per danno biologico ed € 33.000,00 per “danno patrimoniale”.
In sede transattiva, nell’ambito della ordinaria responsabilità civile, poniamo che si sia convenuto: a) che la menomazione è del 18%; b) che il danno biologico può essere liquidato in € 39.000,000; c) che non vi è un effettivo danno patrimoniale.
Accedendo all’opinione sopra esposta, la ripartizione tra Inail e danneggiato del quantum risarcitorio, avverrebbe nel modo seguente: € 25.000,00 vanno rimborsati all’Inail; € 14.000,00 spetteranno all’infortunato-danneggiato (quale “differenziale” tra € 39.000,00 ed € 25.000,00).
Propugnando, per contro, la rivalsa dell’Inail fino alla concorrenza dell’ammontare delle prestazioni, l’Istituto recupererebbe, nella specie, € 39.000,00 (salva, ovviamente, la maggior somma per l’indennità di temporanea e le spese), mentre nulla spetterebbe all’infortunato, a titolo di danno biologico differenziale.
Attesa la evidente e considerevole diversità delle conseguenze, nel caso prospettato, si comprende agevolmente l’importanza e la concreta rilevanza della questione della scindibilità o meno dei titoli indennitari, ai fini della ripartizione del quantum risarcitorio, civilisticamente determinato.
La giurisprudenza anteriore alla “nascita” del danno biologico.
Prima che, nel sistema della responsabilità civile, si affermasse la centralità del danno biologico, nessun dubbio si aveva che, allorché l’assicuratore sociale avesse manifestato al terzo responsabile la volontà di esercitare la rivalsa, la legittimazione a pretendere dallo stesso terzo il risarcimento del danno subìto dall’assicurato, si trasferisse all’ente assicuratore, nei limiti derivanti dalla surrogazione; onde l’assicurato restava legittimato a far valere il suo diritto al risarcimento, per la parte eccedente tali limiti, quale risultava detraendo, in sede di liquidazione, l’importo dell’indennità che doveva essere rimborsata all’Inail, dall’ammontare dei danni effettivamente subìti, fino al momento della pronuncia (Cass. Sez. III, 18/9/1979 n.4792).
La domanda proposta dall’Inail in via di surrogazione, ai sensi dell’art.1916 c.c., per il rimborso delle prestazioni assicurative erogate in favore dell’infortunato, aveva per unico limite quantitativo il complessivo ammontare del risarcimento dovuto dal responsabile al danneggiato, secondo le norme generali sui danni da fatto illecito (Cass. Sez. III, 9/2/1980 n.917; 18/2/1980 n.1188; Sez. Lav. 10/4/1980 n.2308; 12/4/1980 n.2382).
L’azione di surrogazione ex art.1916 c.c. -veniva meglio precisato - era del tutto svincolata dalle singole componenti del danno e comportava, fino a concorrenza delle indennità erogate, il subentrare dell’Istituto assicuratore nella complessiva pretesa risarcitoria riconosciuta all’avente diritto, a nulla rilevando le particolari connotazioni, patrimoniali o non patrimoniali, del pregiudizio subìto dall’assicurato (Cass. Sez. III, 28/4/1981 n.2583, e già Cass. n.1296/1972; n. 1175/1974; n. 4222/1975; n.1623/1976).
Pur ricorrendo in concreto il danno morale, un “differenziale” spettava all’infortunato soltanto nel caso in cui il complessivo ammontare del danno, calcolato secondo le norme di diritto comune, fosse di importo maggiore rispetto all’indennità liquidata dall’Inail (Cass. Sez. III, 16/11/1981 n.6074; Sez. Lav. 23/6/1986 n.4171).
In poche parole, solamente la eventuale eccedenza rispetto alle prestazioni erogate dall’Inail spettava al lavoratore (Cass. Lav. 12/11/1985 n.5553).
Anche i danni non patrimoniali, dunque, rientravano nella surroga dell’Inail, i quali -si diceva- “pur traendo fonte e giustificazione da elementi diversi da quelli che integrano il danno patrimoniale, rappresentano pur sempre una componente del risarcimento”.
Pertanto, l’intera indennità Inail era ripetibile dall’assicuratore sociale nei confronti del terzo responsabile, nei limiti di quanto dal medesimo dovuto a titolo di risarcimento del danno, senza alcuna distinzione al riguardo (Cass. III, 27/4/1984 n.2635).
Tali principi sono stati espressamente ritenuti ius receptum da Cass. Sez. III, 25 maggio 1987 n.4689.
E’ interessante evidenziare che, nel giudizio instaurato davanti alla Suprema Corte, Sez. III, e deciso con sentenza 11/8/1988 n.4928, la parte resistente, come già i giudici di merito, sostenevano che la rivalsa dell’Inail potesse esercitarsi soltanto con riferimento alle voci di danno previste nella copertura assicurativa.
Sennonché la Corte ribatté, in primo luogo, che “di tale limitazione non v’è traccia nella legge: l’art. 11 della legge speciale fa salvo il diritto di regresso dell’Istituto assicuratore per tutte le somme pagate a titolo di indennità e per le spese accessorie, senza distinzione alcuna e, per quanto concerne la surrogazione, l’art. 1916 c.c. non distingue tra diritti dell’assicurato che possano formare oggetto della stessa, ponendo come unico limite l’ammontare delle somme pagate”.
In secondo luogo - proseguì la Corte - devono considerarsi “la particolare funzione economico-sociale dell’assicurazione obbligatoria ed il preminente interesse pubblico alla reintegrazione del patrimonio dell’Ente, ponendoli in relazione con la diversità dei criteri di liquidazione del danno seguiti in sede previdenziale, rispetto a quelli adottati dal giudice civile”. “Può accadere che si verifichi una discrepanza fra i risultati delle due diverse forme di liquidazione, si chè, costringendo il diritto di rivalsa dell’Inail entro i limiti della somma liquidata dal giudice per il danno patrimoniale, non risulterebbe coperto l’intero ammontare delle somme già corrisposte al lavoratore a titolo di indennità previdenziali ed il credito dell’Ente, sia per il recupero di tali somme che per il rimborso delle spese, verrebbe ad essere ingiustamente decurtato”. “Correlativamente, si verificherebbe un indebito arricchimento del lavoratore infortunato che, avendo percepito una somma maggiore con l’erogazione delle prestazioni previdenziali, potrebbe incrementare il suo patrimonio con il risarcimento del danno non patrimoniale, in contrasto con quanto espressamente dispone l’art.10 pen. comma della legge speciale, secondo cui egli ha diritto al risarcimento solo per la parte eccedente le indennità liquidategli a norma degli artt. 66 e segg. stessa legge”.
Il principio del doppio limite alla rivalsa dell’Inail (complessivo ammontare del risarcimento/ammontare delle prestazioni assicurative erogate) valeva ed operava, ovviamente, tanto nel caso di surroga ex art.1916 c.c. che di regresso nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile dell’infortunio, ai sensi degli artt. 10 e 11 T.U. n.1124/1965 (Cass. Lav. 18/5/1981 n.3277; Sez. III, 11/8/1988 n.4928).
L’orientamento conseguente all’affermarsi del danno biologico.
L’introduzione della figura del danno biologico nell’ambito del sistema risarcitorio civilistico e la constatazione che tale danno non forma oggetto della copertura assicurativa Inail, hanno notevolmente influito sulla estensione della rivalsa dell’Ente previdenziale.
In sintesi, si è ragionato nei seguenti termini: dal momento che la rendita corrisposta dall’Inail copre soltanto i riflessi di tipo patrimoniale, non può consentirsi all’Istituto di previdenza, nell’esercizio della rivalsa, di avvalersi anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di ristoro del danno biologico, perché altrimenti si sacrificherebbe il diritto dello stesso all’integrale risarcimento.
Così, la giurisprudenza successiva alle note pronunce della Corte costituzionale n.319/1989, n.356/1991 e n.485/1991, ha affermato il principio secondo cui la rivalsa non può e non deve sacrificare, oltre i limiti imposti dal contenuto del rapporto assicurativo, il diritto dell’assicurato all’integrale risarcimento del danno; con la conseguenza che non può estendersi anche al danno non patrimoniale (danno biologico – danno morale) non coperto dalla garanzia assicurativa (Cass. Sez. III, 20/6/1992 n.7577, asseverata poi da Corte cost. 17/2/1994 n.37; ed anche Cass. Sez. III, 14/12/1992 n.13173; 11/6/1994 n.5683; 6/12/1995 n.12569 secondo cui non è possibile “compensare” i danni di tipo non patrimoniale con le somme ad altro titolo corrisposte dall’Inail; Cass. 14/11/1997 n.11262; 10/11/1998 n.11315; 24/4/1998 n.4218; 3/12/1998 n.12247; 10/11/2000 n.14638).
In poche parole, dall’ammontare globale del danno, civilisticamente determinato, andavano scisse quelle voci (danno biologico – danno morale), estranee alla copertura dell’assicurazione sociale, per riconoscerle, con priorità, a favore del danneggiato.
La giurisprudenza di legittimità ha persino escluso la parziale sovrapposizione tra danno biologico e danno da riduzione della capacità di lavoro generica, così statuendo: nessun abbattimento è possibile operare nella liquidazione del danno biologico a favore dell’infortunato, non essendo configurabile un “danno biologico previdenziale patrimoniale” sul quale l’Inail abbia facoltà di rivalersi, in quanto tale riconoscimento importerebbe un sacrificio del diritto dell’assicurato all’integrale risarcimento del danno (Cass. Sez. III, 27/8/1999 n.8998; Sez. Lav. 21/3/2002 n.4080; 30/7/2003 n.11704).
Pronunce più accorte, tuttavia, pur affermando il principio della unitarietà del danno biologico, hanno suggerito l’applicazione di (più) adeguati criteri di liquidazione del danno medesimo, cui fosse estranea la considerazione del profilo della “attitudine al lavoro”, in modo da evitare un eccesso riparatorio (Cass. Sez.III, 22/1/1998 n.605).
L’intervento del D. Leg.vo n.38/2000 e le conseguenze sui limiti della rivalsa dell’Inail.
Come s’e visto, prima della “nascita” del danno biologico, l’unico limite che l’Inail incontrava nell’azione di recupero, in via surrogatoria, delle indennità versate al lavoratore, era individuato esclusivamente nell’ammontare complessivo del risarcimento dei danni, dovuto dal terzo.
La necessità di distinguere in relazione ai diversi titoli di danno è dipesa, poi, dalla successiva constatazione che alla copertura assicurativa pubblica era estraneo il danno biologico.
Una volta che, anche il rischio della menomazione dell’integrità psicofisica del lavoratore, prodottasi nello svolgimento e a causa delle sue mansioni, è stato fatto oggetto di garanzia differenziata, tale da consentire una effettiva, tempestiva ed automatica riparazione del danno (secondo le sollecitazioni della Corte cost. n.87/1991), non può che ritenersi nuovamente e logicamente operante l’originario principio della indivisibilità del danno.
Il principio opposto era stato affermato, al fine di assicurare al lavoratore l’integrale risarcimento.
Ciò vuol dire, però, che al soggetto danneggiato bisogna garantire il ristoro di tutto il danno e soltanto (e non più) del danno sofferto.
La riparazione del pregiudizio effettivamente subìto, costituendo nel contempo funzione, ma anche limite del risarcimento, porta a ritenere che, qualora si consentisse la scomposizione dei titoli indennitari, si verificherebbe un ingiustificato arricchimento del lavoratore infortunato, in dipendenza del medesimo evento lesivo.
Tornando all’esempio iniziale, se si tenessero distinte la quota corrispondente all’indennizzo del danno biologico da quella corrispondente all’indennizzo del “danno patrimoniale”, il lavoratore percepirebbe € 58.000,00 dall’Inail più € 14.000,00 dal responsabile civile (€ 39.000,00 - € 25.000,00 rimborsati all’Inail): in totale € 72.000,00.
Un comune cittadino, della stessa età, che subisse il medesimo danno si vedrebbe liquidato il solo danno biologico (€ 39.000,00).
Mentre, da un lato, dunque, si verificherebbe una ingiustificata locupletazione a favore del lavoratore, l’Inail, dal canto suo, vedrebbe notevolmente pregiudicata la sua rivalsa, limitata ad € 25.000,00 (corrispondenti alla quota di danno biologico), anziché € 39.000,00. Del pari, risulterebbe anche sacrificato, senza ragione, l’interesse pubblico alla reintegrazione del patrimonio dell’Ente.
Non solo, ma ripercussioni si avrebbero sul rapporto Inail-datori di lavoro e, segnatamente sulla misura dei contributi.
In definitiva, a prescindere dalla interpretazione della locuzione “conseguenze patrimoniali”, di cui all’art.13, c.2, lett.b) del D. Leg.vo n.38/2000 (cfr. sul punto l’articolo citato, “Danno biologico INAIL e danno differenziale del lavoratore”), non v’è dubbio che la rivalsa dell’Inail torna ad essere soggetta al doppio limite quantitativo, rappresentato dall’ammontare delle prestazioni e dal complessivo ammontare del risarcimento che sarebbe dovuto dal responsabile all’infortunato, secondo le norme generali sui danni da fatto illecito.
Vi è margine per il c.d. “differenziale” solamente nel caso in cui residuino somme, una volta detratto dall’intero importo del danno civile quello delle prestazioni INAIL.
La nuova questione della inscindibilità del “danno non patrimoniale” civilisticamente risarcibile (rinvio).
Come già in passato per il danno biologico, si ripropone adesso la questione se possa configurarsi un diritto di prededuzione a favore del lavoratore infortunato, con riguardo al danno morale e al c.d. “danno esistenziale”, in quanto voci di pregiudizio estranee alla copertura assicurativa pubblica.
Lo specifico problema è stato affrontato, e risolto in senso negativo, nel medesimo articolo sopra menzionato ( al quale si rinvia).
Va osservato che la giurisprudenza è sempre più conscia della unitarietà del danno non patrimoniale, così da evitare, quanto meno, duplicazioni risarcitorie (di recente, Cass. Sez. III, 25/5/2004 n.10035).
La franchigia ed i limiti della rivalsa.
Per completare la trattazione dell’argomento, occorre accennare ad una questione spesso ricorrente e, per lo più intesa in modo palesemente errato.
Con riguardo alle c.d. micropermanenti, tante volte avviene che, per la diversità dei criteri di determinazione del grado di menomazione, valevoli in sede previdenziale ed in ambito civilistico, ovvero per il decorso del tempo rispetto alla valutazione operata dall’Inail, si verifica una discrepanza tra quanto accertato dall’Ente di previdenza e quanto riscontrato nel contesto della ordinaria responsabilità civile.
Può, ad esempio, accadere che un grado di menomazione del 6%-7% riconosciuto dall’Inail, possa risolversi in un 4% -5% in ambito civilistico.
Ebbene, non poche Compagnie di Assicurazione corrispondono, per intero, il danno biologico all’infortunato-danneggiato e nulla riconoscono a favore dell’Inail che avanza pretesa di rivalsa, per avere provveduto ad indennizzare (in capitale) il danno alla integrità psicofisica.
Si sostiene che l’Inail non possa esercitare, nella specie, la rivalsa, in quanto il danno, civilisticamente determinato, rientra nella c.d. franchigia INAIL (inferiore cioè al 6%).
Infatti, secondo le previsioni dell’art.13, c.2, lett. a) del D. Leg.vo n.38/2000, il danno biologico non viene indennizzato per le menomazioni di grado inferiore al 6%, ritenute, per la loro lieve entità, non rilevanti in un sistema di tutela sociale e considerate, quindi, in franchigia.
L’assunto, appena riferito, non può tuttavia essere condiviso.
La franchigia riguarda i rapporti tra l’Inail e il lavoratore infortunato, nel contesto indennitario, nel senso che, se l’Istituto accerta un grado di menomazione inferiore al 6% non corrisponderà alcuna somma, a titolo di danno biologico, al danneggiato, al quale non rimane che rivolgersi, per lo stesso titolo, al soggetto civilmente responsabile.
In tal caso, evidentemente, l’Inail avrà diritto al rimborso solamente della indennità di temporanea e delle spese.
Se, per contro, l’Istituto accerta ed indennizza in capitale un danno biologico per menomazione di grado pari o superiore al 6% che, però, secondo i (differenti) parametri civilistici non supera tale percentuale, l’Ente previdenziale avrà, senza dubbio, diritto al rimborso di quanto erogato, sia pure nel limite del quantum corrispondente alla valutazione operata in ambito civilistico.
Ciò non esclude che, di fatto, l’Inail recuperi l’intero costo dell’infortunio.
Basta esaminare il caso recentemente deciso con sentenza del Giudice di Pace di Cascina n. 108/2004 del 9/7/2004.
Nella specie, l’Inail aveva erogato a favore del lavoratore, in dipendenza di infortunio in itinere, € 3.687,50 per un danno biologico del 7% (oltre indennità di temporanea e spese).
Il nominato CTU ha ritenuto del 5% il grado di menomazione (quindi, inferiore al 6%).
In base alla L. 57/2001, risultava un importo di € 3.780,97 , per il danno biologico.
Il Giudice di Pace ha liquidato a favore dell’Inail la somma corrispondente al costo dell’infortunio, interamente recuperato dall’Istituto, malgrado la minore percentuale determinata in campo civilistico.
Il danno biologico di cui all’art.13 D. Leg.vo n.38/2000, non differisce ontologicamente dal danno biologico di cui all’art. 5 L. n.57/2001 (ed in generale, dalla nozione accolta nel contesto della responsabilità civile). Inoltre, è un unicum che inerisce al valore dell’uomo come persona.
Attesa la omogeneità e la unitarietà del danno biologico ed attesa l’estensione della copertura assicurativa dell’Inail a tale tipo di pregiudizio, non ha, chiaramente, senso sostenere che, nell’ipotesi di mancato raggiungimento del 6% (secondo i criteri civilistici), l’intero ammontare del risarcimento spetta al danneggiato, negando conseguentemente il diritto di rivalsa dell’assicuratore sociale.
Seguendo tale tesi, si giungerebbe all’assurda conseguenza che, in caso di riconoscimento, in campo civilistico, di una percentuale inferiore al 6% il lavoratore-infortunato lucrerebbe, cumulandoli, sia, per intero, la somma capitale corrisposta dall’Inail per il danno biologico, sia, per intero, quella dovuta, allo stesso titolo e per il medesimo evento lesivo, dal responsabile civile.
L’Inail, dal canto suo, pur avendo indennizzato il danno biologico, non avrebbe la concreta possibilità di recuperarlo.
Non solo, ma risulterebbe evidente la disparità di trattamento tra il comune cittadino che subisce un danno alla persona, in seguito al verificarsi di un incidente, e il lavoratore assicurato INAIL: sebbene il danno biologico inerisca al valore uomo come persona, il lavoratore beneficerebbe, irrazionalmente, di un doppio ristoro.