Tizio il 5 gennaio 2005 si reca di notte nei pressi di un cavalcavia posto a protezione della sottostante sede stradale, e per puro divertimento, comincia a lanciare sassi di grande dimensione, sia pure senza avere l’intenzione di colpire gli automobilisti in transito sulla carreggiata.
Nel frattempo, un automobilista non riesce ad evitare un sasso e viene colpito riportando ferite gravi.
Successivamente, Tizio si allontana indisturbato, ma viene riconosciuto e tratto in arresto con l’accusa di lesioni personali.
Il candidato, premessi brevi cenni sul tentativo di reato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere, illustrando la fattispecie criminosa imputabile allo stesso, tenendo presente che Tizio non conosceva la vittima né aveva del luogo del lancio una visuale sull’autostrada.
pronunce della Cassazione, si affianca ormai quella di prendere spunto, altresì, da noti casi giudiziari, invalsi all’onore della cronaca. Come l’anno scorso il primo parere di diritto penale traeva origine dal clamoroso fatto degli aborti clandestini di “Villa Gina”, stavolta la Commissione ha tratto spunto dall’inconsulta vicenda del lancio di sassi dal cavalcavia, che tanto ha allarmato l’opinione pubblica negli anni passati.
La sentenza di riferimento è la n. 5436 del 2005 (1), con cui
In quell’occasione, la difesa si lamentò innanzi al giudice di legittimità proprio dell’erronea applicazione dell’art. 56 c.p. in relazione (però) all’art. 575 c.p., avendo i giudici di merito ritenuto la sussistenza del tentativo di omicidio volontario in assenza del dolo diretto di tale reato. Il ricorrente si richiamava, in particolare, alla dottrina e giurisprudenza prevalente sull’incompatibilità del dolo eventuale con l’istituto del tentativo, insistendo sull’assenza della volontà di uccidere in capo all’imputato, che - nella specie - neppure conosceva la persona offesa e, comunque, non poteva vedere le autovetture in transito, avendo lanciato il sasso dalla parte opposta del cavalcavia rispetto alla direzione di marcia della sottostante autostrada.
Senonché la Cassazione – con la sentenza succitata – ha confermato la condanna a quattro anni e quattro mesi per tentato omicidio volontario ed attentato alla sicurezza dei trasporti, statuendo come - quella in parola - costituisce senz’altro un’ipotesi di dolo diretto, al più qualificabile come dolo alternativo, essendosi l’agente rappresentato, indifferentemente e alternativamente, il verificarsi di uno degli eventi causalmente ricollegabili alla propria condotta cosciente e volontaria: nella specie, che muoia una persona o più persone, ovvero che una o più vetture finiscano fuori strada.
Secondo i Supremi giudici, la mancanza del motivo di uccidere – dedotta dalla difesa e pure evincibile nel parere in esame – era del tutto irrilevante poiché, secondo l’insegnamento consolidato della dottrina e della giurisprudenza, l’inadeguatezza del motivo alla stregua del sentire dell’uomo comune non incide sulla sussistenza o meno della volontà omicida.
La massima ufficiale – facilmente reperibile nei codici commentati, purché aggiornati – aiutava senz’altro il candidato ad illustrare quali sarebbero state le conseguenze penali cui il proprio assistito sarebbe andato incontro: «In tema di delitti omicidiari, deve individuarsi il dolo diretto nella condotta dell’agente che, sforzandosi di superare un’alta rete metallica protettiva, lanci un sasso di rilevante massa (circa tre chilogrammi) in corrispondenza della corsia di scorrimento delle macchine su un’autostrada, notoriamente molto trafficata in determinate ore del giorno, da un punto di un cavalcavia da cui non sia possibile vedere le auto che transitano in basso» (C.E.D. Cass. n. 230813).
A tale massima, se ne annoverano poi altre due, sempre in tema di sassi dal cavalcavia, del medesimo tenore: «Costituisce tentativo di omicidio plurimo il lancio “pioggia”, dall’alto di un cavalcavia sulla sottostante sede autostradale, in ora notturna, di sassi, pietre, cocci e simili, in quanto tale azione, seppure non diretta a colpire singoli autoveicoli, è idonea - per la non facile avvistabile presenza degli oggetti sulla carreggiata, data anche l’ora notturna, e per la consistente velocità tenuta generalmente dai conducenti in autostrada - a creare il concreto pericolo di incidenti stradali, anche mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve ritenersi diretta la volontà dell’agente» (Cassazione, Sezione prima penale, 19897/03, Lenzi, rv. 224798); «Il tentativo di violenza privata può essere commesso non solo nei confronti di persone determinate, di cui l’agente abbia nozione, ma anche nei confronti di persone sconosciute, contro le quali si diriga indiscriminatamente l’azione violenta o minatoria» (Cassazione, sezione quinta penale, 1628/95, Gioventù, rv. 201041: fattispecie relativa al lancio di sassi da un cavalcavia sulla sottostante carreggiata autostradale. La S.C. ha stabilito che è indubbia l’efficacia deterrente sia del getto che del collocamento delle pietre, ancorché coloro che percorrono il tratto di strada non interrompano la marcia.
Le precisazioni – pure espresse nella traccia in commento – circa la non volontà di Tizio di colpire gli automobilisti in transito sulla carreggiata, oppure circa la non conoscenza della vittima, non dovevano evidentemente fuorviare il candidato a “precipitarsi” verso la soluzione assolutoria. Ché anzi, stando alla richiamata giurisprudenza di rigore, palese ed ineluttabile parrebbe la responsabilità di Tizio, quantomeno per il reato di lesioni personali (se non – come visto – per tentato omicidio).
Sicché corretta sarebbe stata una stesura del parere che, in prima battuta, premessi i cenni di parte generale sul tentativo (senz’altro “abbordabili” per chiunque), si fosse soffermata sull’incompatibilità dell’art. 56 c.p. col dolo eventuale, figura “minore” invocabile, nella specie, a favore del Cliente. In tal senso il candidato avrebbe dovuto citare la prevalente giurisprudenza di legittimità che – in uno con la dottrina dominante – predica ormai da anni l’impossibilità di conciliare il requisito dell’univocità degli atti con lo stato di dubbio tipico del dolo eventuale.
Alla luce però della richiamata giurisprudenza di rigore – e trattandosi, peraltro, di parere (e non di atto giudiziario) – il Candidato avrebbe dovuto pure prospettare, in sede di svolgimento, le possibili conseguenze penali imputabili a Tizio, sia in termini di omicidio volontario (non contestato ma, in ipotesi, ravvisabile come detto), sia in termini di lesioni personali dolose. Del resto contro l’Assistito – come si evince dalla lettura della traccia – deponevano comunque taluni elementi fattuali senz’altro “probanti”: l’essersi recato “di notte presso nei pressi di un cavalcavia”; l’aver agito “per puro divertimento”; l’aver lanciato sassi “di grandi dimensioni”.
L’aspetto “ostico” della traccia in esame poteva individuarsi nell’individuazione degli esatti profili discretivi tra “dolo alternativo” e “dolo indeterminato”, aspetto non direttamente coglibile dal candidato (ed in effetti “afferrabile” solo dalla lettura integrale della motivazione della sentenza 5436/05 ma non dalla sua massima ufficiale). Sicuramente un “ottimo candidato” avrebbe potuto aggiungere questo anche aspetto, ma non era indispensabile.
Ad ogni buon conto, va ricordato – per completezza d’analisi – come tali categorie non sono autonome forme di dolo, diverse da quelle tradizionali (cioè dal dolo intenzionale, diretto ed eventuale): ognuno dei risultati, alternativamente o congiuntamente, ma comunque indifferentemente presi di mira dall’agente o sono intenzionali, o non lo sono. In quest’ultimo caso, si ricadrà nel campo del dolo eventuale, che non tollera, per incompatibilità ontologica col prescritto requisito dell’univocità degli atti, l’anticipazione della soglia della consumazione al livello del tentativo; nel primo caso, si versa invece nel terreno del dolo diretto od intenzionale, perfettamente coniugabile con l’articolo 56 Cp. E allora – come nella specie – sussisterà responsabilità penale per il delitto tentato in relazione agli eventi (indifferentemente voluti ma) non realizzati quando anche rispetto ad essi gli atti posti in essere siano idonei ed inequivoci. Ed è questa la tesi sposata dalla Cassazione nella sentenza in oggetto, la quale rifugge quasi aprioristicamente dall’idea che il soggetto agente possa perseguire con la propria condotta uno scopo ulteriore lecito od illecito che sia, data proprio la particolare connotazione del rischio attivato.