lavoroprevidenza

domenica 17 settembre 2006

DIFFICILE LAVORARE OLTRE I 50 ANNI

dell Avv. Simone Stagnaro

Difficile lavorare oltre i 50 anni



(Avv. Simone Stagnaro)




La difficoltà di ricollocazione degli “over 40/50” nel mondo del lavoro è un tema di attualità che va ad inserirsi nel più ampio contesto di riforma di un impianto normativo, in materia occupazionale-previdenziale-sociale, non al passo con i tempi e le modifiche della società ma, soprattutto, non al passo con l’Europa.


I numeri, per un breve inquadramento del problema, non sono incoraggianti; in Italia, infatti, sono stati individuati in almeno 700.000 gli “over 45” che non riescono a trovare una ricollocazione lavorativa, e nella fascia “over 50” ogni 4 disoccupati, uno non troverà mai lavoro, ossia il 25 % circa rimarrà disoccupato fino alla pensione (dati, questi, emersi alla presentazione del libro “Troppo vecchi a quarant’anni. Come sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro”, di P. Iacci - G. Rebora - G. Soro - R. Trabucchi, edito da Ilsole24ore).


Tali dati trovano conferma anche in un’indagine condotta da Eurispes, ove è emerso che il nostro Paese è quello con la più bassa quota di lavoratori “over 50”.


Rileva l’istituto di ricerche che fra i lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni, in Italia lavora solamente il 31%, contro il 41% della Francia, il 43% della Germania, il 57% dell’Inghilterra ed il 70 % della Svezia.


A seguito dei riportati indici percentuali, il Presidente di Eurispes ha dichiarato come “il sottoutilizzo degli ultracinquantenni nel mercato del lavoro rappresenta un nodo problematico di notevole rilevanza … tale dinamica, collegata ai trend demografici, rischia di creare pericolose ripercussioni sulla sostenibilità dei sistemi previdenziali, già pesantemente oberati nell’attuale congiuntura; …la discriminazione dei lavoratori ultracinquantenni rischia di acuire il disagio già esistente e di rappresentare, con l’intensificarsi dei fenomeni di invecchiamento, un elemento di diffuso allarme sociale”.


Riflessione, questa, che evidenzia come se da un lato l’età media è aumentata, e presumibilmente tenderà ad aumentare, con conseguenti erogazioni di trattamenti pensionistici per più anni, e dall’altro i contributi con i quali pagare le pensioni si riducono (poiché se non vi sono lavoratori, in quanto non si provvede ad un equo adeguamento dell’età pensionabile o vi sono disoccupati con scarse possibilità di ricollocazione, non vi sono versamenti), il sistema non può che essere fallimentare, con futuro e certo collasso.


Le ragioni di questa situazione sono diverse, a titolo esemplificativo, si rammenta il mutamento della cultura aziendale, se un tempo si investiva anche sul ruolo sociale delle imprese per ottenere attaccamento e fedeltà da parte del lavoratore (es. Olivetti, Fiat, Pirelli), ora l’attenzione si focalizza strettamente sul rapporto costi/ricavi (ed un lavoratore giovane, grazie agli incentivi, “costa” meno all’azienda); l’abbreviarsi dei tempi per fare carriera all’interno dall’azienda, oggi un laureato inizia a lavorare a circa 27 anni e, mediamente, raggiunge, la posizione di dirigente intorno ai 42 anni, ossia nell’arco di circa 15; e se non approda alla dirigenza nell’arco di 15/18 anni, difficilmente riuscirà a raggiungerla poiché, dopo tale soglia, l’interesse dell’azienda ad investire nella formazione del lavoratore “anziano” viene a cadere; basti pensare che la media delle imprese italiane che investono in tale settore è del 23 %, mentre la media europea è del 57%, e la percentuale scende ulteriormente con l’aumentare dell’età, difatti si riscontra un 22% per lavoratori di età compresa tra i 40 e i 50 anni ed un 18% per gli “over 50”; ancora, l’uso scorretto di strumenti di flessibilità (co.co.co., co.co.pro.), determinanti, invece, precarietà, che portano i lavoratori a permanere in una situazione di limbo, e raggiunta una determinata età, da un lato non possono più lavorare come precari, dall’altro non vengono assunti poiché già “over” per l’azienda.


Ed in tale contesto, le donne hanno certamente un percorso ancor più pesante e difficoltoso, soprattutto se la ricerca di una ricollocazione, ad esempio, coincide con il rientro da una maternità, determinante un’assenza, magari, protrattasi per qualche anno. In tale ipotesi, il reinserimento è ancor più arduo o, se va bene, subordinato all’accettazione di un’occupazione con perdita di professionalità.


Il problema, quindi, è dipeso sia dal mutamento del contesto sociale, che da una scarsa attenzione dell’azione politica negli ultimi anni, la quale ha contribuito ad alimentare disuguaglianze e reali discriminazioni.


Al riguardo, analizzando gli strumenti normativi ad oggi vigenti per evitare una vera e propria discriminazione per l’età, emerge D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, con il quale il precedente Governo ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.


Tale decreto, da un lato, prevede, agli artt. 1 e 2, disposizioni tese alla parità di trattamento tra le persone indipendentemente da religione, handicap, orientamento sessuale ed età; anzi, chiarisce che, in materia occupazionale, il trattamento discriminatorio, contro il quale si può reagire di fronte all’Autorità Giudiziaria, si sviluppa sia in modo diretto, ossia quando una persona per ragioni di età (oltre alle altre) è trattata meno favorevolmente di quanto lo sia stata, o lo sarebbe stata, un’altra persona in situazione analoga; che in modo indiretto, ossia quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto od un comportamento apparentemente neutro ponga le persone di una particolare età in una situazione di svantaggio rispetto ad altre persone.


Tuttavia, il D.Lgs. 216/2003, prevede una norma di salvaguardia talmente ampia che, di fatto, ne svuota i contenuti, fornendo, sostanzialmente, “carta bianca” alle aziende senza particolari controlli.


Difatti, l’art. 3, comma 3, del citato decreto, dispone che “nell’ambito del rapporto di lavoro o nell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento dovute …all’età…qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tatti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.


Risulta evidente come una norma di tale ampiezza permetta a qualunque azienda di fare ciò che vuole poiché la locuzione “un requisito essenziale e determinante” vuol dire tutto e niente, ed in essa può farsi rientrare qualunque motivazione.


Non v’è dubbio che debbano essere previste eccezioni per permettere alle aziende di assumere il personale di cui necessitano, ma le eccezioni, in quanto tali, devono essere circoscritte, con l’indicazione di elementi dotati di maggior oggettività, altrimenti, come nel decreto citato, evidentemente contraddittorio, se da un lato si riconosce un diritto, dall’altro lo si sottrae.


Per risolvere o, quantomeno, mitigare il problema, a livello regionale già sono stati posti in essere interessanti interventi, ad esempio in Toscana o, pochi mesi fa, la Regione Liguria, ha varato il “Programma integrato ricomincio da 40” con il quale si operano incentivi per la ricollocazione, nell’ambito della già esistente rete dei servizi per l’impiego.


Tale programma prevede, a titolo esemplificativo, servizi sia alle persone (es. programmi individuali, professionali e formativi, per la realizzazione di un obbiettivo professionale concordato) che alle imprese (es. erogazione di contributi alle imprese per assunzioni a tempo indeterminato).


Questi sono segnali incoraggianti di interventi, territorialmente circoscritti, che, tuttavia, devono essere supportati da un intervento di carattere nazionale che non sia settoriale, ma che consista in una riforma organica dell’intero sistema occupazionale-previdenziale-sociale.



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