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mercoledì 31 maggio 2006

LAVORO AUTONOMO E SUBORDINATO: LE POSIZIONI IN DOTTRINA E GIURISPRUDENZA

di approfondimento della dott.ssa Ermelinda Biesuz -componente del comitato scientifico di LavoroPrevidenza.com

LAVORO AUTONOMO E SUBORDINATO: LE POSIZIONI IN DOTTRINA E GIURISPRUDENZA




Sommario: 1. I termini della questione - 2. Il rapporto di lavoro nel codice civile del 1865 - 3. La fase della legislazione sociale: dalla nozione di locatio operarum alla dipendenza dal datore di lavoro - La teoria delle obbligazioni di mezzi e di risultato - 5. Teoria socio-economica della subordinazione: la subordinazione come soggezione socio-economica - 6. La modularizzazione del diritto del lavoro - 7. La collaborazione come causa del contratto di lavoro subordinato - 8. I criteri utilizzati dalla giurisprudenza.- 8.1.La soggezione ai poteri del datore di lavoro - 8.2. Altri indici: l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione - 8.3. Il nomen juris dato dalle parti al contratto – 8.4. Verso la subordinazione c.d. attenuata.





1. I termini della questione


La distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e subordinato ha costituito fertile oggetto di dibattiti e scontri in dottrina e giurisprudenza, data l’indubbia rilevanza che essa riveste sia sotto il profilo teorico sia sotto l’aspetto più strettamente pratico.


A tale distinzione si ricollegano, infatti, diverse conseguenze.


Ed invero, al rapporto di lavoro subordinato si applica la tutela giuslavoristica prevista dal codice civile, dalle leggi speciali e dai contratti collettivi di lavoro, laddove il rapporto di lavoro autonomo soggiace alla disciplina del contratto d’opera, se ha carattere personale, ovvero alla disciplina sull’impresa, nel caso in cui rivesta carattere imprenditoriale.


Più precisamente, al rapporto di lavoro subordinato si ricollegano diversi effetti, distinti dalla dottrina in effetti diretti ed indiretti.


I primi incidono sullo stesso contenuto del rapporto di lavoro, investendo diversi aspetti (applicazione dei contratti collettivi, diritto alla retribuzione, trattamento di fine rapporto).


I secondi incidono sulle conseguenze riconnesse all’instaurazione del rapporto di lavoro, a cui si ricollegano situazioni giuridiche di carattere previdenziale, amministrativa e finanche penale.[1]


Il rapporto di lavoro autonomo e subordinato, in particolare, è stato al centro di un’accesa querelle non ancora sopita, concernente l’individuazione di criteri atti a distinguere le due tipologie di lavoro.


Referente normativo in materia è l’art. 2094 c.c. ai sensi del quale: “E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.


Il suddetto articolo è frutto di una lenta evoluzione, nel corso della quale sono stati enfatizzati di volta in volta diversi aspetti del rapporto di lavoro.




2. Il rapporto di lavoro nel codice civile del 1865


Nel codice civile del 1865 il rapporto di lavoro subordinato, così come oggi inteso, non era regolamentato, ma era di fatto disciplinato secondo lo schema della locazione.


Particolare rilevanza rivestono al riguardo gli artt. 1570, 1627 e 1628 del vecchio codice.


Segnatamente, l’art. 1570 sanciva che “La locazione delle opere è un contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”.


L’art. 1627 distingueva tre specie di locazioni d’opere e d’industria, includendovi “quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio”.


L’art. 1628, infine, enunciava il principio per cui l’obbligo di prestare la propria attività all’altrui servizio deve essere temporaneo “o per una determinata impresa”.


Il codice del 1865 consacra, quindi, quale eredità della non troppo lontana Rivoluzione Francese, il principio di libertà, in virtù del quale nessuna attività può essere prestata per un tempo indeterminato.


Partendo da quanto previsto dal codice, si distinse quale criterio per individuare il rapporto di lavoro subordinato, fra locatio operarum, in cui il soggetto si obbliga a prestare semplicemente la propria attività, e locatio operis, in cui un soggetto si obbliga a garantire un dato risultato.


La prima forma di locazione disciplinava il lavoro subordinato, laddove la seconda disciplinava il lavoro autonomo.


La ricostruzione del rapporto di lavoro subordinato secondo il modello della locatio operarum comportò una ripartizione dei rischi dell’utilità del lavoro e dell’impossibilità del lavoro.


Il primo dei suddetti rischi (c.d. commodum obligationis) è quello che incide sull’utilità scaturente dalla prestazione di lavoro e dipende dalla difficoltà – sotto il profilo tecnico-economico - del risultato.[2]


Il rischio dell’impossibilità del lavoro (c.d. periculum obligationis) è connesso al sopravvenuto verificarsi del caso fortuito o della forza maggiore che impediscano lo svolgimento della prestazione lavorativa.[3]


Per quel che concerne la ripartizione del rischio dell’utilità del lavoro esso si ricollega alla variabilità del rendimento delle energie prestate dal soggetto, che comporta un’incertezza dell’entità del risultato derivante dall’attività lavorativa.


Tale rischio è ripartito in modo diverso nella locatio operis e nella locatio operarum, in quanto nella prima è posto per intero a carico del locatore - lavoratore autonomo, che deve assicurare il conseguimento di un dato risultato (c.d. opus perfectum), sopportando i costi necessari.


Nella locatio operarum, invece, tale risultato è a carico del conduttore - datore, limitandosi il lavoratore a prestare la propria attività lavorativa.


Il rischio dell’impossibilità è, invece, disciplinato in modo eguale in entrambe le forme di locatio, in virtù del principio in base al quale casum sentit debitor[4].


In base a tale principio il debitore la cui prestazione sia divenuta impossibile è liberato dall’obbligo di eseguirla, ma non ha diritto a conseguire la controprestazione.




3. La fase della legislazione sociale: dalla nozione di locatio operarum alla dipendenza dal datore di lavoro


Con l’affermarsi della fase c.d. di legislazione sociale, che costituisce la prima fase del diritto del lavoro, muta il modo di considerare il modello di rapporto di lavoro subordinato.


In particolare, si passa dall’approccio di tipo formale del c.c. del 1865, che enfatizzava l’oggetto del contratto (contrapponendo le energie lavorative al risultato), ad un approccio di tipo sostanziale, che si concentra sulla dipendenza del lavoratore dal datore di lavoro (le “catene” di cui parla Marx), e topografico, basato sull’inserimento nella fabbrica del lavoratore.


Alla fine dell’800 la giurisprudenza, in particolare quella dei probiviri[5], aggiunse, quale ulteriore elemento atto a distinguere il rapporto di lavoro autonomo e subordinato, la disponibilità del tempo del lavoratore da parte del datore di lavoro, evidenziando che l’inserimento e la dipendenza costituiscono solo le modalità mediante le quali il datore di lavoro decide di impiegare il tempo del lavoratore.


La nozione di subordinazione nasce nel 1901, anno in cui Ludovico Bassi pubblica “Il contratto di lavoro nell’ordinamento giuridico italiano”, primo manuale di diritto del lavoro.


Nell’opera, lo studioso costruisce una nozione unitaria, derivante dal complesso degli elementi costituiti dall’inserimento nella fabbrica, dalla disponibilità del tempo e dalla dipendenza del lavoratore, utilizzando, appunto, tale nozione.


Il concetto di subordinazione è frutto, quindi, di un’evoluzione sociale e giuridica, che, partendo dalla nozione di contratto di locatio operis ed operarum funzionale alla ripartizione del rischio, affianca ad essa altri criteri (dipendenza, inserimento in fabbrica e disponibilità del tempo), fino a giungere all’elaborazione di un termine unitario.


Esso è stato consacrato nel c.c. del 1942, cui collaborò lo stesso Barassi.


Nonostante l’espressa definizione di lavoratore subordinato contenuta nell’art. 2094 c.c. dottrina e giurisprudenza si sono dovute confrontare con le difficoltà sostanziali e giuridiche derivanti dalla lettera della norma.


Sotto il primo profilo, vi sono ipotesi particolari di lavoro, rispetto ai quali l’utilizzo degli elementi prospettati dell’art. 2094 c.c. non si rivela sufficiente ai fini di una loro qualificazione.


Sotto il profilo giuridico, ci si è invece chiesti se gli elementi di dipendenza e direzione, utilizzati dall’art. 2094 c.c. come criteri qualificanti il rapporto di lavoro subordinato, di fatto manchino nel lavoro autonomo.


In particolare, si è osservato che nel lavoro autonomo il lavoratore deve garantire un dato risultato, per come richiesto dal soggetto che ha commissionato il lavoro, il quale può dettare le caratteristiche che l’opus deve possedere per essere perfetta.


Tale critica ha trovato una conferma a livello normativo nelle previsioni contenute in tema di contratto d’opera e di appalto.


Segnatamente, l’art. 2224 c.c. prevede che il prestatore d’opera deve procedere all’esecuzione dell’opera secondo le condizioni stabilite dal contratto ed a regola d’arte, stabilendo che, in mancanza, il committente può fissare un congruo termine, entro il quale il prestatore d’opera deve conformarsi a quanto prescritto.


La suddetta norma prevede, quale sanzione per l’inutile decorrenza del termine, il diritto del committente a recedere dal contratto, salvo il diritto al risarcimento del danno.


In materia di appalto, l’art. 1661 riconosce al committente il diritto di apportare variazioni al progetto.


Le predette disposizioni, secondo quanto osservato da attenta dottrina e giurisprudenza, confermerebbero che anche il lavoro autonomo è un lavoro in qualche modo eterodiretto, ponendo in crisi la qualificazione del solo lavoro subordinato come lavoro caratterizzato dalla dipendenza e dalla direzione.


Ciò, ha determinato il sorgere di diverse teorie volte ad individuare la vera essenza del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo.


A ciò si aggiunga la critica formulata dalla dottrina in ordine alla distinzione (che richiamava il rapporto tra locatio operis ed operarum ) tra attività e risultato.


In particolare, tale dottrina osserva come “i concetti di attività e di risultato posseggono un ineliminabile margine di relatività”, in quanto “ogni attività lavorativa produce un risultato immediato prima di quello finale”, cosi come anche nel contratto d opera può rilevare il mero svolgimento di un attività.[6]




4. La teoria delle obbligazioni di mezzo e risultato


Parte consistente della dottrina ha utilizzato, al fine di distinguere tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, la ripartizione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, classificazione elaborata originariamente in Francia e ripresa in Italia con riferimento alla teoria generale delle obbligazioni.


Con il termine di obbligazioni di mezzo[7] si indicano le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a svolgere una determinata attività a prescindere dal conseguimento o meno di un dato risultato.


Con il termine di obbligazioni di risultato (definite anche obbligazioni generali di prudenza e diligenza) si fa riferimento alle obbligazioni in cui il debitore deve assicurare un dato risultato a prescindere dalle modalità di svolgimento di una determinata attività.


La distinzione fra i suddetti tipi di obbligazione si riflette sul contenuto della prestazione e, quindi, sul regime della responsabilità.


Ciò in quanto, nelle obbligazioni di mezzo la prestazione prescinde dall’esito dell’attività posta in essere dal debitore, con la conseguenza che la prestazione è esattamente adempiuta quando l’attività è svolta dal debitore nel modo dovuto.


Nelle obbligazioni di risultato, invece, è quest’ultimo che deve essere assicurato e che costituisce, quindi, quanto dovuto dal debitore.


Il mancato conseguimento del risultato comporta l’inadempimento del debitore a prescindere dalla prova del comportamento diligente da questi tenuto.


Secondo la teoria delle obbligazioni di mezzo e risultato, il lavoro autonomo costituisce una tipica obbligazione di risultato, mentre il lavoro subordinato rappresenta un’ipotesi di obbligazione di mezzi.


Tuttavia, tale teoria è stata sottoposta a serrate critiche da parte di chi ha evidenziato la presenza di ipotesi non riconducibili allo schema prospettato.


In particolare, si è richiamata l’esistenza di ipotesi di lavoro autonomo caratterizzato da un’obbligazioni di mezzi e, al contrario, l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato caratterizzati dalla presenza di un’obbligazione di risultato.


Con riferimento alla prima ipotesi, si pensi al caso di un medico, libero professionista, il quale si obbliga a svolgere la propria attività di cura ed assistenza medica, ma non a guarire il paziente.


Con riferimento alla seconda ipotesi, può richiamarsi il caso del programmatore di computer, dipendente presso una società, che deve assicurare la realizzazione di un programma e, quindi di un dato risultato.




5. Teoria socio-economica della subordinazione: la subordinazione come soggezione socio-economica


Secondo questa teoria, di matrice marxiana, il lavoratore subordinato si caratterizza per non essere mai proprietario né dei mezzi di produzione né dei risultati della stessa, a differenza del lavoratore autonomo.


La qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato si fonda su un presupposto di carattere socio-economico, costituito dalla debolezza e dall’inferiorità del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.


Tale debolezza si verifica in ogni fase del rapporto di lavoro, anche nella fase antecedente al suo instaurarsi, e determina la totale alienazione del lavoratore dal processo di produzione e dall’organizzazione dell’attività lavorativa, nonché dalla proprietà o dal controllo dei mezzi di produzione.


Tuttavia, anche la suddetta teoria è stata oggetto di critiche, essendosi osservato che anche il lavoratore autonomo può non essere proprietario dei mezzi di produzione e che una situazione di inferiorità fra le parti del rapporto può verificarsi anche in ipotesi diverse dal rapporto di lavoro subordinato.




6. La modularizzazione del diritto del lavoro


Alle teorie propugnate dalla dottrina, si è affiancata l’opera della giurisprudenza, che ha elaborato degli indici di subordinazione.


Essa ha adottato un approccio diverso, abbandonando una prospettiva astratta per analizzare, in concreto, le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, distinguendo al suo interno gli elementi propri della subordinazione e quelli propri dell’autonomia.


A tale prima fase di scomposizione del rapporto di lavoro segue poi una qualificazione dello stesso in termini di lavoro autonomo o subordinato.


Tale qualificazione segue un iter diverso a secondo del metodo utilizzato: il metodo c.d. tipologico, adoperato dalla giurisprudenza maggioritaria fino alla metà degli anni ottanta ed il metodo c.d. sussuntivo, prevalente nella giurisprudenza più recente.
Il primo, attraverso la tecnica dell’approssimazione, tenta di avvicinare per quanto possibile la fattispecie concreta al tipo[8], il secondo riconduce invece la fattispecie concreta alla fattispecie astratta, partendo da una rigorosa definizione del modello di lavoro subordinato e procedendo secondo un giudizio c.d. sillogistico.



Attraverso il metodo tipologico si costruiscono diversi gradi di subordinazione, dalla più intensa (il lavoratore nella catena di montaggio) alla più ridotta (per es. il dirigente) fino a giungere al lavoratore autonomo.




Lav. Subordinato----------------------------------------------------------Lav. Autonomo


­| | |


| | |


Catena di Dirigente Libero


Montaggio Professionista




L’utilizzo di un metodo piuttosto di un altro influenza le stesse modalità di ricorso, da parte della giurisprudenza, ai c.d. indici di subordinazione.


Secondo il modello sussuntivo, infatti, seguito da rilevante parte della dottrina e consistente giurisprudenza, la riconduzione di un rapporto di lavoro nell’alveo della fattispecie astratta di rapporto di lavoro subordinato può verificarsi solo nel caso in cui ricorrano tutti gli elementi della subordinazione e non solo alcuni indici.


La considerazione di un diverso grado di subordinazione ha condotto molti giuristi ad invocare una modularizzazione del diritto del lavoro, ovvero ad un’applicazione della disciplina in materia di lavoro subordinato in modo più o meno intenso a seconda dell’intensità della subordinazione.


In tal senso, il diritto del lavoro dovrebbe essere applicato mediante moduli, cioè attraverso pacchetti di tutela diversi a seconda del quantum di subordinazione.


Tale proposta è stata, peraltro oggetto di serrate di critiche.


Si è infatti osservato, in primis, che una differenziazione della disciplina è gia presente nel nostro ordinamento, in cui non a tutti i lavoratori si applica l’intera disciplina costituente il diritto del lavoro, come nel caso delle norme in materia di licenziamento, non operanti nei confronti dei dirigenti.


Si è inoltre evidenziato sotto il profilo strutturale, che la considerazione del quantum di subordinazione pone l’accento sull’effetto derivante dal contratto di lavoro e non sulla sua causa.




7. La collaborazione come causa del contratto di lavoro subordinato


Secondo un consolidato orientamento è alla causa che occorre guardare al fine di distinguere tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato.


Infatti, se tanto il contratto di lavoro autonomo quanto quello subordinato sono contratti sinallagmatici, ponendosi le prestazioni in termini di corrispettività (scambio lavoro – compenso), tuttavia, nel contratto di lavoro subordinato vi è un peculiare elemento, costituito dall’organizzazione, che manca nel contratto di lavoro autonomo.


Ciò in quanto il datore di lavoro ha interesse all’organizzazione dell’attività lavorativa, per la realizzazione della quale deve esservi una prestazione continuata, la disponibilità del lavoratore ed il suo inserimento nell’organizzazione.


Questi tre presupposti vengono linguisticamente unificati con l’espressione di collaborazione, per cui causa del contratto di lavoro subordinato è la collaborazione, o meglio lo scambio tra la subordinazione (data dall’inserimento del lavoratore nell’impresa, dalla continuità della prestazione e dalla sua disponibilità funzionale) e la retribuzione, funzionale alla collaborazione.


In tal senso la collaborazione costituisce causa del contratto, mentre la subordinazione ne rappresenta l’effetto.


Quest’ultima, infatti, costituisce la modalità attraverso la quale il lavoratore viene inserito nell’organizzazione e sottoposto ai poteri direttivi e sanzionatori del datore, necessari ad assicurare la collaborazione del lavoratore.


Questa teoria supera il problema del quantum di subordinazione, precisando che se sul piano formale vi può essere una maggiore o minore subordinazione, sotto il profilo sostanziale la subordinazione è eguale, perché esprime il vincolo giuridico derivante dal contratto di lavoro subordinato, cioè l’assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro.


E’ stato al riguardo affermato che: “la collaborazione nell’impresa è il risultato della prestazione dell’attività del lavoratore e, nello stesso tempo, i criterio per la tipicizzazione della subordinazione: si identifica, insomma, con lo scopo tipico della prestazione e quindi con la stessa causa individuatrice del tipo negoziale del contratto di lavoro subordinato. Nella struttura dell’obbligazione di lavoro, l’elemento della collaborazione sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore al risultato della prestazione e, perciò, del suo interesse al coordinamento, quindi alla organizzazione, dell’attività lavorativa del debitore. Non tratta, peraltro, del risultato, finale dell’organizzazione produttiva nel suo complesso, ma del risultato dell’attività prestata dal lavoratore nell’adempimento della sua obbligazione”.[9]




8. I criteri utilizzati dalla giurisprudenza: inquadramento sistematico


La difficoltà di stabilire in modo certo la sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo o subordinato è confermato dalle pronunce, spesso contrastanti, della giurisprudenza, che ha di volta in colta delineato dei criteri di distinzione fra le due tipi di rapporto di lavoro..


Secondo la giurisprudenza prevalente, c’è la subordinazione quando si accerta la sussistenza di un vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro (c.d. eterodirezione), cui, peraltro, può affiancarsi una posizione di minore o maggiore autonomia – a seconda del contenuto della prestazione – del lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa.


Facendo applicazione del requisito dell’eterodirezione, la Cassazione ha ad esempio ritenuto incompatibile con il rapporto di lavoro subordinato la facoltà, riconosciuta al prestatore, di rifiutare in qualunque momento ed insindacabilmente la propria prestazione.[10]


L’esistenza di un vincolo di dipendenza e di assoggettamento ai poteri del datore di lavoro costituisce quindi il criterio fondamentale cui la giurisprudenza ricorre.[11]


Al contempo, essa ha individuato altri criteri c.d. sussidiari, costituiti dalla continuità temporale della prestazione, dallo stabile inserimento dal lavoratore nell’organizzazione lavorativa, dal coordinamento dell’attività del lavoratore con l’assetto organizzativo deciso dal datore di lavoro, dall’esclusività del rapporto, dall’inesistenza di una organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore,


Dai suddetti elementi sarebbe possibile desumere l’esistenza di un vincolo di soggezione del lavoratore ai poteri del datore di lavoro.


Per parte della dottrina tali elementi invece costituiscono non criteri sussidiari ma elementi fondamentali[12], che devono sussistere al fine di qualificare il rapporto come lavoro subordinato.


Infine, ulteriori criteri sussidiari, che possono concorrere alla qualificazione del rapporto di lavoro, sono costituiti dall’osservanza di un orario di lavoro predeterminato, dal pagamento di una retribuzione a cadenza periodica senza rischio del risultato, dalla mancanza in capo al lavoratore del rischio d’impresa.


La giurisprudenza ha, inoltre affiancato, quale ulteriore criterio, la volontà delle parti contrattuali di qualificare il rapporto di lavoro come lavoro subordinato.




8.1. La soggezione ai poteri del datore di lavoro


Si è già evidenziato che il criterio principale utilizzato per la qualificazione del rapporto di lavoro come rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla soggezione del lavoratore ai poteri direttivi e disciplinari del datore.


L’esercizio di tali poteri, secondo consolidata giurisprudenza, distingue il rapporto di lavoro subordinato dal lavoro autonomo, in cui vi possono essere, tutto al più, delle direttive, impartite al fine dell’esecuzione dell’opera.


La soggezione del lavoratore nei confronti dei potere direttivo, organizzativo e disciplinare costituisce l’essenza stessa del requisito della subordinazione (cfr. ex multis Cass. n. 5905/05, n. 20549/04, 9151/04, 8569/04).


Così, in un caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte (sentenza n. 9151/04) e concernente il ricorso di una segretaria volto ad accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con una ditta di autonoleggio.


Nel caso in esame, il ricorso era stato accolto in primo grado, ma riformato dalla Corte d’Appello, che aveva affermato la natura autonoma del rapporto di lavoro per l’esistenza di una retribuzione variabile, perché ricollegata in parte ad una percentuale sui corrispettivi dei noleggi), e dalla mancanza di un vincolo assoluto di presenza in ufficio della ricorrente, che doveva limitarsi in alcuni casi a garantire la mera reperibilità telefonica.


Riformando la sentenza dei giudici di secondo grado, la Corte di Cassazione ha individuato, quale criterio decisivo ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, “l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo (e disciplinare) del datore di lavoro, ossia al potere di precisare il contenuto della prestazione lavorativa e di controllarne l’esecuzione”.


Secondo la Corte l’esercizio dei suddetti poteri “si estrinseca in specifiche disposizioni e non in generali direttive, compatibili anche con il lavoro autonomo, nel relativo controllo sull’esecuzione e, quindi, si risolve nell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva diretta dal datore”.


La Corte cassa quindi la sentenza con rinvio per aver omesso la Corte di Appello di utilizzare il criterio ribadito dalla Corte, omettendo di accertare, al riguardo, le precise mansioni, l’orario di lavoro e la responsabilità in caso di danni.


Laddove non sia possibile accertare in modo diretto l’esistenza dell’elemento dell’eterodirezione, secondo parte della giurisprudenza è possibile ricorrere ai criteri sussidiari, i quali, possono essere valutati nel loro insieme e concorrere in via indiziaria al convincimento del giudice sull’esistenza del requisito della subordinazione, qualora rivestano i caratteri delle “presunzioni gravi, precise e concordanti” , previste dall’art. 2729 c.c.[13]


A tale orientamento se ne contrappone un altro più restrittivo, che nega la possibilità per il giudice di qualificare come di lavoro subordinato un rapporto che sia privo dell elemento dell’eterodirezione , anche in presenza di indici sussidiari.[14]




8.2. Altri indici:l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione


L’’inserimento del lavoratore nell’organizzazione datoriale riveste particolare rilevanza ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, tanto che secondo l’orientamento prevalente fino alla metà degli anni ’80, l’ “inserimento organico” del lavoratore nel processo produttivo dell impresa (c.d. etero-organizzazione), costituiva elemento sufficiente per affermare l’esistenza della subordinazione, anche in mancanza di una completa eterodirezione.[15]


Tale orientamento è stato, peraltro, seguito da alcune più recenti pronunce, con riferimento a particolari figure professionali, come, ad esempio gli addetti alla ricezione di scommesse nelle agenzie ippiche o i soggetti che svolgono l’attività giornalistica.


Con riferimento ai primi, la Cassazione ha affermato che: “in materia di qualificazione giuridica del rapporto di personale addetto alla ricezione di scommesse in sala corse, elementi di fatto dai quali è desumibile la natura subordinata del rapporto sono l inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale con prestazione di sole energie lavorative corrispondenti all attività dell impresa, nel rispetto di un orario di lavoro strettamente collegato con gli orari di apertura e chiusura delle sale corse, nonché il pagamento della retribuzione non in base al risultato raggiunto, ma secondo le ore prestate nei diversi turni, mentre resta irrilevante la discontinuità della prestazione che non sia dovuta ad una libera scelta del lavoratore, ma risponda, al contrario, a criteri di distribuzione del lavoro in turni prefissati dal datore e con modalità di erogazione prestabilite in considerazione delle esigenze aziendali”[16].


Con riferimento al lavoro giornalistico, la Cassazione ha affermato che in presenza di un inserimento del lavoratore nell organizzazione produttiva e del suo assoggettamento al potere gerarchico dell imprenditore deve riconoscersi la natura subordinata della prestazione, anche laddove essa venga svolta per un tempo molto limitato nell arco della giornata.[17]
Più recentemente, si è osservato che: “i caratteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato sono costituiti dall inserimento del lavoratore nell organizzazione aziendale e dal suo assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro (con conseguente limitazione di autonomia) e tali caratteri sono i medesimi per qualunque tipo di lavoro, pur potendo essi assumere aspetti e intensità diversi in relazione alla maggiore o minore elevatezza delle mansioni esercitate o al contenuto (più o meno intellettuale e/o creativo) della prestazione pattuita; con riguardo al lavoro giornalistico, ed in ragione delle caratteristiche di esso e delle connesse difficoltà di cogliere in maniera diretta e immediata i suddetti caratteri distintivi, può farsi ricorso ad alcuni indici rivelatori della natura subordinata del rapporto, rilevando a tal fine la circostanza che il giornalista si tenga stabilmente a disposizione dell editore, per eseguirne le istruzioni, anche negli intervalli tra una prestazione e l altra, e rilevando invece in senso contrario la circostanza che le prestazioni siano singolarmente convenute in base ad una successione di incarichi con retribuzione commisurata alla singola prestazione”.[18]


A tali decisioni, che esaltano l’importanza dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione datoriale, si contrappone un orientamento contrario della stessa Cassazione[19], che esclude l inserimento del lavoratore nell azienda dagli indici di qualificazione, in quanto esso rappresenterebbe una mera conseguenza dell obbligo di disponibilità delle energie del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, con la sua conseguente soggezione al suo potere direttivo e disciplinare.


In particolare, la Cassazione ha osservato che: “Nelle situazioni ove, per la particolare attività (come in alcune forme di lavoro in agricoltura), alcuni aspetti (orari, mansioni) non assumono natura rigida, il mero inserimento del lavoratore nell azienda non è parametro di qualificazione nel senso della subordinazione, nè può costituire elemento esclusivo per dedurre la subordinazione stessa; il parametro di qualificazione si risolve, quindi, necessariamente negli elementi (non diversamente deducibili) dei quali l inserimento è mera conseguenza: la sussistenza e la permanenza dell obbligo del lavoratore di mantenere a disposizione del datore l attività lavorativa nella sua indifferenziata materialità (come "operae") e la sussistenza e la permanenza del suo conseguente assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro stesso”.




8.3. Il nomen juris dato dalle parti al contratto


Diverso il ruolo attribuito dalla giurisprudenza al nomen juris dato dalle parti al contratto di lavoro stipulato.


A partire dagli anni ’70 si è, infatti, diffuso un orientamento che considera il nomen iuris utilizzato dalle parti e, più in generale, la volontà da loro espressa in sede di stipulazione del contratto, un “elemento di carattere fondamentale e prioritario”, ai fini della qualificazione del rapporto “salva sempre la necessità di verificare alla stregua delle effettive modalità di svolgimento del rapporto l esattezza della qualificazione operata dalle parti”.[20]


Si fa, a riguardo, applicazione del criterio ermeneutico posto dall art. 1362 c.c., rappresentato dall’interpretazione del contratto secondo “la comune intenzione delle parti”, da ricostruire tenendo conto, peraltro, del comportamento dei contraenti nel corso dello svolgimento del rapporto.[21]


E’ stato, tuttavia, osservato che tale orientamento ha in sé un’ambiguità di fondo, data dal fatto che in alcune pronunce si fa riferimento al mero dato esteriore rappresentato dal nomen iuris dato dalle parti, in altre, invece, si rinvia alle dichiarazioni riguardanti il contenuto del rapporto - ossia il programma negoziale pattuito - o un suo aspetto avente valore essenziale e qualificante.[22]


La giurisprudenza più recente ha affermato che il nomen juris, pur costituendo un elemento importante ai fini della qualificazione del rapporto in termini di lavoro subordinato, non riveste un ruolo assoluto ed assorbente.


In particolare, la Cassazione ha affermato che: “Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato (per quest ultimo il fondamentale requisito della subordinazione configurandosi come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, estrinsecantesi nell emanazione di ordini specifici, oltre che nell esercizio di un assidua attività di vigilanza e controllo nell esecuzione delle prestazioni lavorative, da apprezzarsi concretamente con riguardo alla specificità dell incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione) non deve prescindersi dalla volontà delle parti contraenti e, sotto questo profilo, va tenuto presente il nomen juris utilizzato, il quale però non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi altresì conto, sul piano della interpretazione della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell art. 1362, comma 2, c.c., e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi. Tuttavia, quando sia proprio la conformazione fattuale del rapporto ad apparire dubbia, non ben definita o non decisiva, l indagine deve essere svolta in modo tanto più accurato sulla volontà espressa in sede di costituzione del rapporto”.[23]


L’orientamento che ha attribuito rilevanza decisiva al nomen juris è stato, peraltro, oggetto di critiche di parte della giurisprudenza, secondo cui ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come lavoro subordinato deve essere data prevalenza al dato fattuale delle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro.


A ciò si aggiunga la scarsa affidabilità che la qualificazione del contratto di lavoro da parte dei contraenti riveste nella prassi, in cui accade spesso che le parti qualifichino un contratto come autonomo al fine di sottrarsi alla disciplina prevista per il rapporto di lavoro subordinato.


Per tali ragioni, la giurisprudenza ha da ultimo affermato che il nomen juris dato dalle parti al rapporto di lavoro ha solo rilevanza probatoria residuale.




8.4. Verso la subordinazione c.d. attenuata


La progressiva evoluzione delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro ed, in particolare, della sua organizzazione, l’affermarsi di professionalità sempre più specializzate e l’imporsi di processi di esteriorizzazione e terziarizzazione di intere fasi del ciclo produttivo, hanno condotto parte della giurisprudenza a proporre un nuovo modello, definito della c.d. subordinazione “attenuata”.


Tale giurisprudenza ha, infatti, evidenziato come i suddetti fattori abbiano reso sempre più difficile il configurarsi, con riferimento a particolari fattispecie di rapporto di lavoro, di un vincolo di subordinazione, stante l’impossibilità di un effettivo esercizio del potere di controllo sulle singole fasi dell’attività lavorativa.


La Suprema Corte ha, in particolare, affermato che: “Ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro - inteso come sottoposizione a ordini specifici e al diretto e costante controllo datoriale delle diverse fasi di esecuzione delle prestazioni lavorative - diviene, con l evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro verso una sempre più diffusa esteriorizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di una serie di professionalità specifiche, sempre meno significativo della subordinazione, mentre, in riferimento a tali nuove realtà, assume valore di indice determinante della subordinazione l assunzione per contratto dell obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle, con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione, per il perseguimento dei fini propri dell impresa datrice di lavoro”.[24]


A questa innovativo orientamento giurisprudenziale si è andata affiancando la posizione di attenta dottrina, che al fine di adeguare la distinzione fra lavoro autonomo e subordinato all’evoluzione dell’organizzazione dell’attività lavorativa, ha distinto tra autonomia tecnico-esecutiva, propria anche del rapporto di lavoro subordinato e che lo caratterizzerà sempre più, in ragione del mutamento delle forme di organizzazione del lavoro, ed autonomia economico-organizzativa, assente, invece, nel lavoro subordinato.[25]



























[1] Si pensi alla disciplina della sicurezza sui luoghi di lavoro.




[2] Rientra in tale alea il difetto del materiale di lavoro che comporti un allungamento dei tempi di lavorazione o l’aumento del costo della materia prima, in quanto fattori che si traducono in un abbassamento del margine di utile della prestazione.




[3] Tale impedimento dell’esecuzione della prestazione può fondarsi su ragioni soggettive, inerenti la persona del lavoratore (malattia, infortunio, ecc.) ovvero su circostanza oggettive, attinenti ad esempio alla forzosa cessazione del processo produttivo dovuto alla mancanza della materia prima oggetto del processo di lavorazione.




[4] Il principio era sancito dall’art. 1225 del vecchio codice ed è attualmente previsto dall’art. 1463 c.c.




[5] I probiviri sono una magistratura di tipo privato e paritetico perché costituiti da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Essi rivestono una grande rilevanza, perché attraverso l’intervento dei probiviri si crea un canale di formazione autonoma delle regole da applicare ai rapporti di lavoro.




[6] Cfr. R. Scognamiglio, Diritto del lavoro, 1994, 99.




[7] Vedi MENGONI, Rdcomm, 1954, I, 185, 280.




[8] Cfr. Cass. 2 settembre 2000, n. 11502, secondo la quale il giudice deve procedere alla qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato o autonomo secondo un giudizio di carattere sintetico, rilevando alcuni indici significativi e valutandoli nel complesso nel rispetto delle peculiarità del caso concreto.




[9] E. GHERA, Diritto del Lavoro, 2000, pag. 65.




[10] E’ il caso del “pony express”, deciso dalla Cassazione con sentenza 10 luglio 1991, n. 7608.




[11] Posizioni analoghe sono assunte in dottrina: Cfr. A. Ianniello, Subordinazione e dintorni, D&L, 2001, 13; C. Smuraglia, Lavoro e lavori: subordinazione, collaborazioni non occasionali, lavoro in cooperativa, LG, 2001, 1013.




[12] Cfr. Napoli, Contratto e rapporti di lavoro oggi, Questioni di diritto del lavoro, Giappichelli, 1996, 61.




[13] Cfr. Cass. 1 aprile 1995, n. 3853, in DPL, 1995, n. 36, 2384; Cass. 10 luglio 1999, n. 7304, GLav, 1999, n. 32-33, 30.




[14] Cfr. ex pluribus Cass. 17 aprile 1990, n. 3170, in RGL, 1991, II, 195; Cass. 5 dicembre 1998, n. 12357, in RFI, 1998, voce Lavoro (rapp.), 576.




[15] Cfr. in tal senso, Cass. 14 ottobre 1985, n. 5024, in IP, 1986, 381; Cass. 1 settembre 1986, n. 5363, ivi, 1987, 923.




[16] Cass. civ. , 1 marzo 2001, n. 2970, in Giust. Civ. Mas., 2001, 375.




[17] Cfr. Cass. 16 maggio 2001, n. 6727.




[18] Cass. civ. 9 aprile 2004, n. 6983 in Gist. Civ. Mass., 2004, f. 4.




[19] Cfr. Cass. 25 febbraio 2000, n. 2171.




[20] Cass. 7 aprile 1992 n. 4220, in Riv. it. dir. lav. 1993, II, 258.




[21] Cfr. Cass 20 gennaio 1995 n. 649, in Lav. giur. 1995, 600.




[22] Cfr. L. Battista, Brevi note sul lavoro subordinato: rilevanza della volontà nella sua qualificazione, in Dir. lav. 1994, II, 123.




[23] Cass. civ. 23 luglio 2004, n. 13884 in Giust. Civ. Mas., 2004, f. 7-8.




[24] Cass. Civ. 6 luglio 2001, n. 9167. Nel caso sottoposto al suo esame, in base al suddetto principio essa ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva escluso il carattere subordinato del rapporto di lavoro di una propagandista di prodotti farmaceutici la cui prestazione doveva svolgersi, seppure con margini di discrezionalità, secondo le direttive di ordine generale impartite dalla casa farmaceutica che immetteva sul mercato i prodotti e per le finalità proprie dell impresa stessa.




[25] Cfr. M. Roccella.





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