IL LAVORO A PROGETTO ALLA LUCE DELLE RECENTI PRONUNCE DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO
Il D. Lgs. 276/2003 nell’attuare la Legge delega 30/2003 si è fatto portatore di nuove linee di modernizzazione del mercato del lavoro in concomitanza con la c.d. “strategia Europea per l’occupazione”.
Accanto alla definizione di nuove figure di lavoro subordinato atipico volte a creare, almeno teoricamente, un mercato del lavoro più efficiente e flessibile, è stata attuata la riforma delle collaborazioni coordinate e continuative con l’introduzione del c.d. lavoro a progetto (artt. 61-69 D. Lgs. 276/03).
La finalità principale di tale nuovo istituto che, secondo alcuni, è una semplice collaborazione coordinata e continuativa differenziantesi dai classici co.co.co per il solo progetto, doveva e deve essere quella di evitare le facili e continue elusioni della legge soprattuto in relazione ai costi del lavoro subordinato.
La relazione governativa al decreto legislativo del 2003 nell’evidenziare tale scopo giustificava, altresì, l’esigenza di stabilire nuove tutele a favore della dignità e della sicurezza del lavoratore conferendo riconoscimento giuridico ad una tendenza, quella delle collaborazioni, ancorchè coordinate e continuative, diffusesi dagli anni novanta in poi “soprattutto in ragione della terziarizzazione dell’economia”.
In sostanza, accanto al classico e tanto tutelato lavoro subordinato si pongono, ora, da una parte, la collaborazione coordinata e continuativa utilizzabile, ex art. 61 D. Lgs. 276/03, solamente per alcune particolari categorie di soggetti o per lo svolgimento di prestazioni occasionali, e, dall’altra, la collaborazione coordinata a progetto.
Dunque, sulla base dell’art. 61 del decreto di riforma del mercato del lavoro i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere “riconducibili ad uno o più progetti di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente ed indipendentemente del tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.
I requisiti essenziali del lavoro a progetto che possiamo estrapolare dall’azidetto articolo sono, dunque: 1) l’esistenza e la pianificazione di un progetto o programma; 2) l’autonomia gestionale, organizzativa ed esecutiva del lavoratore; 3) la realizzazione di un risultato; 4) la totale irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione; 5) il coordinamento con l’organizzazione aziendale.
A tutt’oggi, dopo due anni e mezzo dall’entrata in vigore della riforma del mercato del lavoro sono ancora molti i dubbi e le lacune inerenti la disciplina del lavoro a progetto.
Accanto al proliferare della dottrina giuslavoristica la giurisprudenza di merito è intervenuta solamente con quattro pronunce, l’ultima delle quali quella del Tribunale di Modena del 21 febbraio 2006 (ordinanza di rigetto della domanda proposta ex art. 700 c.p.c.), proprio sui temi più scottanti relativi al lavoro a progetto e cioè su cosa debba intendersi per progetto, sulla rilevanza del termine apposto al contratto di lavoro e sulla importanza della forma scritta.
La già citata ordinanza del Tribunale di Modena interviene nel delineare il confine del progetto che, pur se determinato dal committente, deve essere realizzato dal co.co.pro. in funzione di un risultato finale che, si badi bene, “non può essere quello cui tende l’organizzazione del committente quale interesse finale dell’impresa (cioè il progetto gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato non potrebbe mai essere quello aziendale) ma è quello dotato di una sua compiutezza ed autonomia ontologica realizzato dal collaboratore con la propria prestazione e resa all’impresa quale adempimento della propria obbligazione……volta alla realizzazione di un bene o di un servizio a vantaggio del committente; la tesi è in sintonia con l’art. 67 del D. Lgs. 276/03 che prevede quale ipotesi di risoluzione del contratto la realizzazione del progetto in tal modo sancendone il ruolo del risultato” (Tribunale Modena ordinanza del 21 febbraio 2006- estratto).
Tale intervento chiarisce alcuni punti dell’istituto del co.co.pro.: a) il progetto non deve essere confuso con la modalità di esecuzione dell’attività lavorativa ma deve consistere nella creazione di una nuova idea o di un nuovo aspetto, di qui la specialità, inerente l’attività aziendale in cui possa trovarvi giovamento l’azienda; b) in tale ottica si inserisce il concetto di risultato quale scopo cui deve tendere la prestazione del co.co.pro. ed il cui raggiungimento giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro.
In questo modo il lavoro a progetto non potrà mai essere a tempo indeterminato, situazione giustificabile, con dubbia legittimità, solo nel momento in cui il risultato corrispondesse a quello aziendale ma è già stato detto che ciò non può accadere, ed il termine, determinato o determinabile, apposto a tale tipo di contratto non è un elemento posto a tutela del lavoratore nell’ipotesi di recesso ma è un carattere coessenziale allo stesso rapporto di lavoro (cioè se c’è un effettivo progetto ci sarà un risultato, nuovo per l’azienda, e, dunque, un termine al rapporto di lavoro.)
Ragionando a contrario quando mancano tali caratteristiche il contratto di lavoro a progetto è stato stipulato per mascherare un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato così che si avrà la sua automatica conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e subordinato sin dalla conclusione del contratto.
Un appunto in più va fatto in merito alla parte dell’ordinanza che precisa che “non costituisce indice di subordinazione, che possa far dedurre simulato un contratto di lavoro a progetto, il fatto che il collaboratore a progetto lavorasse abitualmente in ufficio o che dovesse comunque avvertire in caso di assenza……; né costituisce valida spia del potere gerarchico il fatto che alcune direttive fossero rivolte indifferentemente al collaboratore o progetto ed ad un dipendente….”
Tale condotta è, infatti, l’espressione delle esigenze di coordinamento con la struttura aziendale (requisito di cui al punto 5)) a voler dire che anche il collaboratore a progetto si deve coordinare senza che ciò significhi che lo stesso venga eterodiretto.
Continuando su questa scia, è opportuno citare la sentenza del Tribunale di Torino del 5 aprile 2005 la quale, dichiarando l’illegittimità del lavoro a progetto svolto dai ricorrenti, ha sancito la specificità del progetto commissionato escludendo che di lavoro a progetto si possa parlare quando vi è una standardizzazione di una pluralità di contratti a progetto in tutto e per tutto identici tra loro ed identici all’oggetto sociale; “tale standardizzazione confermerebbe, quindi, che ai singoli collaboratori non è stato assegnato uno specifico incarico o progetto o una specifica fase di lavoro ma, in totale, l’unica attività che non può che essere identica per tutti e cioè l’attività aziendale in sé stessa” (Tribunale Torino 5 aprile 2005- estratto).
Viene, quindi, confermata l’idea che il progetto deve essere determinato dal committente ad hoc per il singolo lavoratore per raggiungere un risultato che dovrà conseguirsi in maniera completamente svincolata dal potere direttivo e gerarchico del datore di lavoro, con una organizzazione e gestione autonoma, pur se con i mezzi forniti dal datore di lavoro o all’interno dei luoghi aziendali, ma in ogni caso senza la sua ingerenza dal punto di vista dell’esecuzione.
Veniamo ora ad un’altra questione molto controversa su cui si è pronunciato il Tribunale di Ravenna con la sentenza del 24 novembre 2005.
L’art. 62 del D. Lgs. 276/03 dispone che “il contratto di lavoro a progetto è stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova. I seguenti elementi: 1) indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro; 2) indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuato nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto; 3) il corrispettivo ed i criteri per la sua determinazione, nonché i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi; 4) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l’autonomia nella esecuzione dell’obbligazione lavorativa; 5) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto (oltre quelle previste ex art. 66, comma 4, del D. Lgs. 276/2003)”.
Il Tribunale di Ravenna interviene sostenendo che la norma detta un requisito di forma ad probationem in difetto del quale il contratto rimane comunque valido sul piano sostanziale, senza che si verifichi, quindi, alcuna nullità. Questo poichè sulla base del diritto civile il contratto si considera a forma libera mentre la forma a pena di nullità deve essere specialmente ed in maniera rigorosa indicata dalla legge (art. 1350 c.c.) o prevista dalle parti; e, alla luce di ciò, la norma sucittata non dice nulla a riguardo.
La convinzione che la forma scritta del contratto a progetto sia richiesta ad probationem anziché ad substantiam sarebbe spiegata con il fatto che la presunzione iuris tantum e, quindi, semplice, di cui all’art. 69, comma 1, D. Lgs. 276/2003 non è da correlare alla mancanza del requisito scritto ma esclusivamente alla mancanza dello specifico progetto anche quando ciò dipenda da una carenza probatoria.
Quanto detto va a sfavore della teoria c.d. contrattualistica del rapporto di lavoro poichè il rapporto di lavoro a progetto non si trasforma in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e subordinato se lo svolgimento dell’attività lavorativa è avvenuta anche prima della stipulazione del contratto ma solo se è venuto a mancare un progetto o la sua specificità.
Si apre a questo punto un nuovo dilemma.
L’autonomia organizzativa e di gestione del progetto, anche nei tempi di esecuzione, rende il co.co.pro un lavoratore autonomo che come tale dovrebbe subire il c.d. rischio di impresa, che nel caso di specie non è altro che la mancata realizzazione del risultato, e dovrebbe far si che la obbligazione dallo stesso resa sia, come tale, un obbligazione di risultato.
La dottrina è divisa sul punto poichè accanto al concetto del risultato di cui all’art. 61 D. Lgs. 276/2003 si pone la proporzionalità e l’adeguatezza del compenso alla quantità e qualità del lavoro eseguito di cui all’art. 63 del medesimo decreto che renderebbe in ogni caso il lavoro a progetto una obbligazione di mezzi.
Se si trattasse veramente di una obbligazione di risultato si affacerebbe all’orizzonte il problema di cosa dovrebbe accadere al lavoratore qualora non sia in grado di raggiungere il progetto nel termine stabilito ex contractu: teoricamente potrebbe non avere diritto ad alcun compenso anche se è prevista la proroga del contratto qualora sia necessario altro tempo per la sua realizzazione.
Non rimane che attendere un nuovo intervento della giurisprudenza per aggiungere un altro tassello alla già complicata vicenda del rapporto di lavoro a progetto senza dimenticare che, nonostante l’intento del legislatore di cristillazzare l’uso delle co.co.co. per fini elusivi, l’introduzione del lavoro a progetto sembra proliferare in ogni caso con il medesimo intento di raggirare le norme previste sui costi del lavoro subordinato.
Si lascia, inoltre, aperta la possibilità che, con il nuovo governo ed il suo nuovo indirizzo politico, si attui una ulteriore riforma del co.co.pro. e di tutto il D. Lgs. 276/2003.
Ancona, lì 17.05.2006
Avv. Cora Biondini