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sabato 6 maggio 2006

IL DANNO ESISTENZIALE: LA PAROLA DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE. RECENTISSIMA SENTENZA

Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 24.03.2006 n° 6572 con breve nota a cura della Redazione di LavoroPrevidenza.com

IL DANNO ESISTENZIALE


Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare reddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. La stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale da dequalificazione) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Ma deve essere condivisa la seconda delle tesi richiamate: colui che lamenti un danno esistenziale deve darne prova, a mezzo di documenti, testimonianze, presunzioni. Dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 Cc, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizi.


Cade alla luce della sentenza odierna, l’impostazione teorica di Cass. civ. 15022/2005, la quale aveva espunto dall’ordinamento la categoria del dommage esistenziale.





Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 24.03.2006 n° 6572




SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE


SEZIONI UNITE CIVILI


sentenza 2 febbraio-24 marzo 2006, n. 6572


Presidente Carbone – Relatore La Terza


Pm Martone – difforme – Ricorrente Rete Ferroviaria Italiana Spa



Svolgimento del processo


Con sentenza in data 31 gennaio 2000, il Tribunale del lavoro di Roma dichiarava la nullità del licenziamento intimato dalle Ferrovie dello Stato Spa a F. C. e per l’effetto condannava la società suindicata alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra, nonché al risarcimento del danno derivante dal demansionamento, che faceva decorrere dal 1992, pari a lire 486.660.000.


A seguito dell’impugnazione dalla società, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava nullo, per violazione dell’articolo 112 Cpc, il capo di sentenza concernente la reintegra nel posto di lavoro perché ad essa il ricorrente aveva rinunciato e dichiarava inammissibile, perché nuova, la domanda di reintegra proposta in grado di appello; dichiarava altresì l’illegittimità del licenziamento intimato il 29 maggio 1998 e condannava la società a pagare al C., a titolo di risarcimento danni derivanti dall’illegittimo licenziamento, una somma pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione; ravvisata altresì l’esistenza del demansionamento, che faceva decorrere dal 1996, condannava la società appellante al pagamento della somma, pari a sei mensilità di retribuzione, di lire 186.696.000, in luogo della maggior somma liquidata a tale titolo in primo grado, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dì della maturazione, i primi sino al saldo, la seconda sino alla data della sentenza.


In punto di danno da demansionamento, la Corte di appello riteneva indiscutibile che l’inattività del C. avesse prodotto una serie di risultati negativi i quali – ancorché non direttamente attinenti alla sfera economica – si presentavano come conseguenze patrimoniali di un danno di diversa natura ed erano, quindi, legittimamente suscettibili di valutazione. In particolare, la Corte di appello indicava la lesione della personalità professionale e morale del prestatore, il discredito che l’avvenuto declassamento aveva comportato a suo carico nell’ambiente di lavoro e il pregiudizio che tutta la vicenda, la cui responsabilità era da ascrivere alla società appellante, aveva comportato sul curriculum vitae e sulla carriera del C., quali circostanze che, pur non avendo un immediato prezzo economico, si ripercuotevano indubbiamente, oltre che nell’ambito personale e morale, anche sotto il profilo patrimoniale. Nella specie – attese le caratteristiche del pregiudizio e considerato che l’impossibilità di prova di cu parla l’articolo 1226 Cc, va’intesa in senso relativo e con riferimento ai mezzi e facoltà di cui la parte è fornita – il danno doveva essere necessariamente oggetto di valutazione equitativa da parte del giudice, ed a tal fine la Corte territoriale faceva ricorso, come chiesto dal lavoratore, al disposto dell’articolo 9 del contratto collettivo, il quale prevede, nell’ipotesi di mutamento di funzioni, il diritto del dirigente, di risolvere il rapporto con diritto ad una indennità pari a quella sostitutiva del preavviso, che doveva essere limitata, stante il minore periodo di dequalificazione riconosciuto rispetto alla sentenza di primo grado, in misura pari a sei mensilità.


Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Rete Ferroviaria Italiana Società per azioni, già Ferrovie dello Stato di Trasporti e Servizi per azioni, sulla base di quattro motivo, cui ha resistito con controricorso F. C., il quale ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a quattro motivi, cui la società ha risposto con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.


La trattazione dei ricorsi è stata rimessa alle Su per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza concernente la questione dell’onere probatorio in caso di domanda di risarcimento danni del demansionamento professionale del lavoratore prospettata con il quarto motivo del ricorso principale.



Motivi della decisione


Con il primo motivo del ricorso principale la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, in relazione agli articoli 99, 414, 420, 436 e 437 Cpc, in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione, in conseguenza della ravvisata illegittimità del licenziamento, dell’indennità supplementare di cui all’articolo 30, comma 10, del Ccnl Dirigenti Ferrovie dello Stato 29 maggio 1990, giacché la domanda in tal senso, non contenuta nel ricorso introduttivo, sarebbe stata inammissibilmente proposta dal C. solo nelle note autorizzate dal giudice di primo grado.


Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 n. 5 Cpc, insufficiente, contraddittoria e omessa motivazione su punto determinante della controversia in tema di criteri di liquidazione della indennità supplementare.


Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 416, 115 e 116 Cpc, in relazione all’articolo 2697 e all’articolo 2103 Cc e difetto di motivazione. La censura si riferisce all’accertamento del giudice di appello circa l’avvenuto demansionamento del C. nel periodo successivo al 1996. In proposito, ricorda che sin dall’atto della sua costituzione in giudizio aveva formulato articolate deduzioni circa il riassetto dell’organigramma di Fs del 1997, richiedendo in proposito prova per interpello del ricorrente e per testi, al fine di dimostrare l’effettività e la dimensione del processo ristrutturativi in atto dal 1997 in poi, il coinvolgimento dei settori cui il C. era stato preposto, il suo esito con ridefinizione dell’organigramma e dei compiti di tutta la struttura coinvolta, l’evidenza, all’esito, di eventuali posizioni di esubero, quale quella del C. e l’incollocabilità del medesimo in posizioni consimili, nonché l’attività svolta dal C. in tale periodo presso la società Metropolis. La Corte d’appello aveva considerato del tutto generiche e infondate le difese di essa società concernenti il processo di ristrutturazione aziendale in atto nell’anno 1997, senza però palesare, sostiene la società ricorrente, i motivi per i quali i fatti esposti e dedotti ad oggetto di prova sarebbero generici, e, soprattutto, perché le relative difese sarebbero infondate.


Con il quarto motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 414 e 420 Cpc, in relazione all’articolo 2697 Cc e agli articoli 432 Cpc e 1226 Cc. Si assume che nessuna prova era stata offerta, né tanto meno nessun fatto specifico era stato allegato in linea assertiva in ordina alla dimostrazione di un qualsivoglia danno derivante a carico del C. per la lamentata dequalificazione, e comunque nessuna domanda poteva essere accolta a tale titolo per difetto di prova. La sentenza, prosegue la ricorrente, sarebbe errata per avere individuato il presupposto della condanna risarcitoria non già sulla base delle allegazioni della parte, che difettavano completamente (rasentando il ricorso la nullità assoluta), ma in vere e proprie “illazioni imperscrutabili e putative”. Inoltre, la motivazione sarebbe assolutamente apparente, o comunque insufficiente, non consentendo di verificare da quali elementi del processo il giudice avrebbe tratto il convincimento della verificazione del pregiudizio. Tali ipotesi (non suffragate da fatti di sorta, né da prova di essi) nella loro genericità ed astrattezza non integrerebbero la prova specifica del danno – il cui onere gravava a carico del ricorrente – e quindi del presupposto che consente di ricorrere, nella determinazione del quantum, alla valutazione equitativa, vigendo anche nella giurisprudenza relativa all’articolo 1226 Cc il principio secondo il quale l’equità è solo un criterio di determinazione di una riconosciuta pretesa. In subordine, con il medesimo motivo di ricorso, la ricorrente censura anche l’applicazione dei criteri liquidativi del danno con ricorso all’equità ex articoli 432 Cpc e 1226 Cc.


Con il primo motivo, il ricorrente incidentale deduce, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 e 5, Cpc violazione e/o falsa applicazione degli articoli 420 e 416 Cpc, in relazione agli articoli 2696 e 2103 Cc, sulla valutazione del danno da demansionamento con riferimento all’articolo 9 Ccnl dirigenti Fs, nonché omessa o contraddittoria motivazione in relazione agli articoli 2103 e 2087 Cc, in ordine alla determinazione del medesimo e omessa insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia, per avere escluso il demansionamento, pure riconosciuto dal giudice di primo grado, per il periodo 1992-1996; per avere ritenuto compensativi incarichi privi di contenuto operativo; per avere disatteso la clausola del Ccnl (articolo )) pur ad essa facendo riferimento; per non avere tenuto conto del danno emergente consistente nella perdita, conseguente alla rimozione dell’incarico di direttore finanziario, dei premi ex articolo 38 Ccnl e dell’indennità di funzione ex articolo 37 del medesimo Ccnl.


Con il secondo motivo, il C. deduce violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, sulla domanda di reintegra nel posto di lavoro, contestando che in alcun atto vi è stata rinuncia a tale domanda da parte di esso ricorrente, né valida rinuncia da parte del procuratore.


Con il terzo motivo si deduce la nullità del licenziamento in relazione al difetto di poteri del funzionario che lo aveva disposto. La inefficacia della procura al direttore delle risorse umane 27 luglio 1997 in materia di assunzione e licenziamento dei dirigenti con contratto a tempo indeterminato regolato dalla contrattazione collettiva.


La violazione e falsa applicazione dell’articolo 435 Cpc in relazione agli articoli 416 e 420 Cpc e all’articolo 2697 Cc. Insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia.


Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc, violazione o falsa applicazione dell’articolo 429 comma 3 Cpc, in materia di rivalutazione monetaria e interessi su somme dovute a titolo di risarcimento del danno. Omessa motivazione su un punto determinante della controversia.


Appare logicamente preliminare – rispetto alla questione oggetto del contrasto, di cui al quarto motivo del ricorso principale ed al primo motivo del ricorso incidentale – la trattazione del terzo motivo del ricorso principale, perché con esso si critica la sentenza per avere ravvisato l’esistenza, dal 1996, del dedotto demansionamento e quindi il presupposto stesso da cui è stato fatto discendere il diritto al risarcimento del danno.


Il motivo non è fondato.


In primo luogo in ricorso non si contesta una circostanza decisiva affermata nella sentenza impugnata, e cioè essere pacifico – avendolo ammesso la stessa società – che il C., una volta dimessosi da tutte le cariche precedentemente rivestite, lasciata la società Metropolis e rientrato presso le Ferrovie dello Stato, era rimasto del tutto inoperoso. La società invero si giustifica allegando, e lamentando la mancata ammissione di prova sul punto, il profondo riassetto organizzativo, delinea compiutamente in ricorso il nuovo organigramma, con l’indicazione di tutte le numerose direzioni e del personale che ne era rispettivamente a capo, al fine di dimostrare una sorta di impossibilità sopravvenuta di assegnare al C. una qualsiasi mansione. Ma il riassetto organizzativo che si intende provare non appare però decisivo per infirmare le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito, giacché proprio la complessità della organizzazione, la pluralità di settori di intervento, con articolazione in molteplici direzioni (che comprendevano l’amministrazione, la finanza operativa e straordinaria, gli acquisti, il patrimonio, il settore legale, la tesoreria, il bilancio, la contabilità, il settore fiscale ed altro) portano invece logicamente ad escludere l’esistenza di detta impossibilità, rendendo poco credibile che non si fosse in condizione di reperire – nell’ambito di un ragionevole periodo di tempo quale è quello trascorso dal 1996 al licenziamento del maggio 1998 – una posizione compatibile con la qualifica e le competenze professionali del C.. In particolare, mentre si deduce che il medesimo era esperto in materia fiscale, non si spiega in ricorso il motivo per cui il medesimo non potesse trovare utile collocazione in detto settore, che pure risulta essere stato variamente articolato (adempimenti fiscali, imposte dirette, Iva ed altre imposte indirette e contenzioso).


Il terzo motivo del ricorso principale è quindi infondato.


Parimenti infondato è il primo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta che non sia stato ravvisato il demansionamento fin dal 1992, allorquando il C. era stato rimosso dalla posizione di direttore dell’area finanziaria e patrimonio, avente un peso che non sarebbe stato adeguatamente valutato dai giudici di merito.


La prospettiva in cui si muove il ricorrente appare invero erronea, non potendosi il demansionamento ritenere integrato solo dalla revoca di un incarico di direzione, ancorché prestigioso, e remunerativo, essendo pur sempre rimesso al datore il cosiddetto ius variandi, ossia l’assegnazione a mansioni diverse, purché equivalenti a quelle svolte da ultimo; ed infatti, diversamente opinando, ne conseguirebbe la impossibilità di modificare in alcun modo l’organizzazione aziendale, il che però si porrebbe in patente contrasto con i poteri riservati all’imprenditore dall’articolo 2094 Cc ed anche con i principi di rango costituzionale (articolo 41 Costituzione). E quanto alla equivalenza delle nuove mansioni, assegnate dopo la revoca di quell’incarico, nella sentenza impugnata sono state puntualmente indicate le funzioni di vertice svolte dal 1992 al 1996 (dal 30 aprile 1992 al 30 aprile 1994, era stato assistente dal presidente per la diversificazione delle attività ferroviarie e responsabile per le Diversificate e il Patrimonio; contemporaneamente era stato consigliere di amministrazione di Metropolis fino al 18 novembre 1996 e vice presidente della medesima società del 18 maggio 1993 al 28 giugno 1996); inoltre non si indicano in ricorso gli elementi comprovanti la tesi difensiva svolta, per cui detti incarichi sarebbero stati privi di contenuti operativi e che la società Metropolis avrebbe agito solo sulla carta, per cui non si può ascrivere alla sentenza impugnata né di averli pretermessi, né di averli incongruamente valutati.


Il primo motivo del ricorso incidentale va quindi rigettato.


Quanto al quarto motivo del ricorso principale, concernente i danni derivanti dal demansionamento per il periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai giudici di merito, è effettivamente sussistente un contrasto nella giurisprudenza della sezione lavoro di questa Corte. La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cosiddetto esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all’assolvimento, da parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio.


Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova.


1. Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cassazione 13299/92, 11727/99, 14443/00, 13580/01, 15868/02, 8271/04, 10157/04, le quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 Cc, anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze dal caso concreto».


2.Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cassazione 7905/98, 2561/99, 8904/03, 16792/03, 10361/04, le quali enunciano il seguente principio «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche sulla sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificatine del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’articolo 2697 Cc». Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificatine fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall’adempimento dell’obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale.


Le Su ritengono di aderire a quest’ultimo indirizzo.


1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 8tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i casi, giacchè l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione in inadempimento contrattuale regolato dall’articolo 1218 Cc, con conseguente esonero dall’onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessine con l’articolo 1223 dello stesso codice. Vi è da aggiungere che l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 Cc (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall’articolo 2059 Cc (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte costituzionale 233/03 e l’indirizzo inaugurato da Cassazione 7283/03), verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del Cc.


2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 Cc, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale 372/94). D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta – ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento.


3. È noto poi che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra.


Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 Cpc – non può invece mai sopperire all’inere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cassazione Su 1099/98).


4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno.


Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.


Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.


5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacchè questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della legge 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’articolo 13 del D.Lgs 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte costituzione con la sentenza 233/03).


6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.


Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.


Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema gabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.


Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza 378/94 per cui «È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato».


6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 Cc venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 Cpc a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.


D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi.


7. Applicando detti criteri al caso di specie, la Corte territoriale afferma essere indiscutibile che il dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto una serie di risultati negativi ed indica a tale fine la lesione della personalità professionale e morale, il discredito derivante dal declassamento nell’ambiente di lavoro ed il pregiudizio sul cv e sulla carriera dell’istante.


In primo luogo detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente, perché non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l’espressione usata «Si pensi alla lesione della personalità professionale e morale al “discredito” nell’ambiente di lavoro» sembra alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto autonomamente, in altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti dalla parte nel processo, così contravvenendo all’obbligo di decidere iuxta alligata ed provata di cui all’articolo 115 Cpc.


Inoltre ciò di cui si da conto è, non già – come si dovrebbe – il danno conseguenza della lesione, e cioè l’esistenza dei riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita, ma l’esistenza della lesione medesima, essendosi fatto ricorso ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette controversie con l’apposizione di un formulario “fisso” e quindi con elusione delle specificità delle singole fattispecie. Del tutto generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al cv ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative dell’interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero state frustrate dall’inadempimento datoriale, né alla conoscenza della vicenda al di fuori dell’ambiente di lavoro, né alla perdita di [omissis] del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale. La causa va poi rimessa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi.



PQM


La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il quarto motivo del ricorso principale e cassa la sentenza impugnata in relazione al medesimo motivo. Rigetta il terzo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale. Rimette la causa alla Sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi.




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