TRIBUNALE DI LECCE 24 dicembre 2005
Avv. Cristina Ravera, Foro di Milano
La pronuncia verte sulla legittimità dell’atto con il quale il datore di lavoro dispone in via unilaterale la distribuzione dell’orario di lavoro e la variazione dei relativi turni. Nel caso di specie, i dipendenti di un’impresa di pulizie lamentano lo SDOPPIAMENTO DEL TURNO DI LAVORO GIORNALIERO IN DUE TURNI BREVI E VARIABILI, FISSATO DAL DATORE DI LAVORO IN VIA UNILATERALE.
Il Tribunale di Lecce, chiamato ad affrontare la questione, afferma un principio generale, consolidato in dottrina e in giurisprudenza, secondo il quale l’orario di lavoro non è un elemento costitutivo del contratto individuale di lavoro, sicché la sua modificazione non postula necessariamente l’accordo delle parti del rapporto, ma, al contrario, essa rientra nello ius variandi del datore di lavoro e, pertanto, può essere oggetto anche di un atto unilaterale di un solo contraente.
Si tratta, peraltro, precisa il Tribunale, di un potere che incontra limiti sia interni che esterni. I primi, in particolare, sono connessi alla ratio dello stesso potere datoriale e fanno capo, precipuamente, alle esigenze organizzative dell’azienda, nel senso che il potere datoriale deve ricollegarsi all’interesse obiettivo dell’organizzazione del lavoro e della produzione. I secondi discendono, invece, dai limiti legali all’orario di lavoro e sono correlati alle posizioni soggettive attribuite al lavoratore dal contratto collettivo o dai principi generali dell’ordinamento. In questo senso, costituiscono un limite allo ius variandi del datore di lavoro le esigenze familiari (artt. 29 e 31 Cost.), le esigenze personali del lavoratore e, in particolare, la salute (art. 32 Cost.), la sicurezza, la libertà e la dignità (art. 32, primo comma Cost.), la buona fede e la correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro (art. 1375 cod. civ.) e l’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore (art. 2087 cod. civ.). La violazione di tali limiti, poi, è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro, il quale, secondo l’opinione consolidata in dottrina, è tenuto anche alla riparazione del danno esistenziale, patito dal lavoratore per effetto di un esercizio illegittimo del potere di determinazione e variazione dell’orario di lavoro.
Diversamente, nel rapporto di lavoro part-time, dove la riduzione dell’orario di lavoro nell’esecuzione della prestazione lavorativa e, di riflesso, della retribuzione, consente al lavoratore di programmare lo svolgimento di altre attività, fra le quali anche quelle finalizzate ad apportare un incremento di retribuzione volto ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma Cost.). In questo contesto, la giurisprudenza costante della Suprema Corte, avallata anche da un intervento della Corte Costituzionale (Corte Cost. 11 maggio 2002, n. 210), esclude infatti il potere del datore di lavoro di determinare o modificare in via unilaterale l’orario lavorativo ed afferma, del pari, l’illegittimità delle pattuizioni contrattuali volte ad attribuire al datore di lavoro un siffatto potere. Ne consegue, dunque, che, con riferimento a tale fattispecie contrattuale, la fissazione dell’orario di lavoro e la sua variazione possono avvenire solo per effetto del mutuo consenso delle parti, giacchè tale modalità è volta a salvaguardare la facoltà del lavoratore di programmare altre attività integrative del proprio reddito.
Il Tribunale, osserva poi, che lo sdoppiamento dell’orario di lavoro è oggetto di una puntuale previsione normativa comunitaria (direttive 93/104CE e 2000/34CE) e nazionale (D.Lgs. 66/2003), la quale, con specifico riferimento all’attività di pulizia, contempla la possibilità di un frazionamento dello svolgimento del periodo lavorativo, anche e soprattutto in considerazione della natura e delle modalità di svolgimento di tale attività. Nello stesso senso si collocano, poi, anche il contratto collettivo (contratto nazionale per le imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati multiservizi, art. 4), il contratto aziendale e il contratto individuale di lavoro, sicché risulta pacifica la titolarità di un siffatto potere da parte del datore di lavoro. Al più, la questione, puntualizza il Tribunale, potrà vertere sull’abuso nell’esercizio concreto del potere ad opera dal datore di lavoro.
A tale ultimo proposito, il Tribunale ha cura di precisare che il rispetto della vita privata del lavoratore si impone all’osservanza del datore di lavoro solo a seguito del superamento dei limiti legali, giacché solo in tale eventualità si profila un inadempimento contrattuale con conseguente responsabilità risarcitoria anche per il danno esistenziale.
Nè, nel caso di specie, può essere invocata, secondo il Tribunale, l’operatività della previsione normativa di cui all’art. 2112 cod. civ., la quale contempla il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, giacchè, secondo l’insegnamento della giurisprudenza prevalente, l’acquisizione di personale già impiegato nell’appalto per effetto della successione di un nuovo soggetto nel contratto di appalto non integra gli estremi del trasferimento d’azienda ma, per converso, comporta esclusivamente un obbligo del datore di lavoro di esaminare la situazione lavorativa con le organizzazzioni sindacali e non un obbligo specifico di garantire l’assunzione del personale precedentemente occupato e l’identità delle pregresse condizioni di assunzione (Cas. Civ. 18 marzo 1996, n. 2254; Trib. Napoli 12 luglio
segue testo sentenza
Tribunale di Lecce – Sezione Lavoro
Grazioli + altri (avv. Renna) c. Supernova scrl (avv. Caracuta)
Il giudice del lavoro
Visto il ricorso con il quale i ricorrenti, LSU stabilizzati quali dipendenti della resistente con orario di lavoro già di 36 ore presso il precedente appaltatore e poi di 33 ore presso la resistente, lamentano che la resistente abbia disposto unilateralmente il frazionamento dell’orario di lavoro in due turni giornalieri, peraltro variabili secondo schemi comunicati con preavviso di due giorni, così compromettendo le loro esigenze esistenziali connesse con la disposizione sicura e stabile del tempo di vita extralavorativa, e chiedono in via cautelare ordinarsi al datore di lavoro di disporre l’articolazione dell’orario di lavoro dei dipendenti in turno unico;
vista la memoria di costituzione della resistente con la quale la stessa deduce che il frazionamento dell’orario, peraltro recepito in apposito accordo sindacale si è reso necessario per ragioni oggettive, ricollegate alla riduzione dell’appalto rispetto al precedente datore, alla conseguente riduzione dell’orario di lavoro giornaliero (dovuta anche al fatto che in precedenza vi era in via ulteriore l’esercizio da parte di taluni operatori dell’attività di supporto al personale sanitario, non prevista nell’attuale capitolato, sicché tale attività consentiva agli stessi di completare l’orario giornaliero effettuando un turno unico), e all’esigenza organizzativa del lavoro su due turni in quanto per esigenze operative la pulizia deve essere eseguita in orari compatibili con il regolare svolgimento della primaria attività delle strutture di riferimento;
uditi i procuratori all’udienza;
OSSERVA:
Il tema dei limiti al potere datoriale di fissare a suo piacimento la distribuzione dell’orario di lavoro si è manifestato nel pieno della sua centralità nel periodo più recente, trattandosi di un tema di grande rilevanza per i notevoli interessi in conflitto: da un lato, la crescente accentuazione dei profili di flessibilità dell’organizzazione aziendale e quindi il bisogno di organizzare la produzione secondo tempi e modi che la domanda e le variabili del mercato richiedono, dall’altro lato, il fattore umano che rifiuta di subordinare integralmente i propri tempi a quelli dell’impresa ed esige di conciliare l’attività lavorativa con la coltivazione di interessi personali. Pertanto, a fronte dell’interesse dell’imprenditore ad utilizzare e coordinare la forza lavoro nel modo ritenuto più utile al raggiungimento degli obiettivi economici perseguiti, sta quello del lavoratore a non vedere stravolte le modalità di godimento del tempo libero, e quindi alterati i ritmi e le abitudini di vita.
Venendo al caso concreto, i ricorrenti lamentano lo sdoppiamento in due turni brevi e variabili del tempo di lavoro giornaliero, in assenza peraltro di un progetto anche di medio periodo; deducono i ricorrenti che essi, in gran parte residenti i comuni del circondario di Gallipoli, sono costretti per tale ragione a fare su e giù dal domicilio al luogo di lavoro per due volte al giorno, sicché si trovano di fatto a disposizione del datore di lavoro per l’intera giornata, senza la possibilità di acquisire un altro lavoro part-time e senza la possibilità di dedicare alle relazioni ed alle cure familiari il tempo dovuto: in sintesi, tali lavoratori non hanno la possibilità di godere di quell’alternanza tra tempo di lavoro e tempo di vita (che comprende il riposo e lo svago ed in genere lo svolgimento di attività esistenziali extralavorative), tempo quest’ultimo peraltro utile allo stesso datore di lavoro indirettamente, in quanto serve per preservare l’incolumità psicofisica del lavoratore e consente al datore di trarre maggior vantaggio da un dipendente che il giorno seguente si presenta al lavoro più sereno e riposato.
Ciò posto, occorre verificare se, sulla base delle norme disciplinanti la materia, lo sdoppiamento di turno e la relativa variabilità con atto datoriale unilaterale siano o meno legittimi.
In dottrina è in linea generale ammessa la configurabilità di un potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente l orario di lavoro: superato infatti l’orientamento di chi ha ritenuto che l’orario di lavoro sia un elemento del contenuto del contratto, sicché la sua modificazione richiederebbe l’accordo delle parti individuali del rapporto di lavoro, si ritiene ormai dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che la modifica dell’orario di lavoro rientri nello jus variandi datoriale, e dunque nei poteri unilaterali del datore di lavoro.
Si tratta di un potere unilaterale che non è assolutamente libero, avendo limiti interni (connessi con la ratio attributiva del potere organizzativo: il datore di lavoro ha solo il potere unilaterale di determinazione dell’orario di lavoro in relazione alle proprie esigenze organizzative, e non per altri fini) ed esterni (derivanti dai limiti legali all’orario di lavoro, nonché ad eventuali posizioni soggettive attribuite al lavoratore dal contratto collettivo o da principi dell’ordinamento).
Nel caso non rilevano pacificamente i limiti interni, atteso che tali limiti implicano che l’esercizio del potere datoriale debba ricollegarsi obiettivamente all’interesse dell’organizzazione del lavoro e della produzione e non a fini diversi, e considerato che nella fattispecie è pacifico che il datore non abbia esercitato lo jus variandi superando tali limiti.
Con riferimento ai limiti esterni, oltre ai limiti di durata massima dell’orario di lavoro ed alle norme sui risposi contenute nella legislazione (che qui pacificamente non vengono in gioco), la giurisprudenza ha riconosciuto l’operatività di altri limiti, enucleati dalla stessa giurisprudenza o dalle parti a protezione di interessi costituzionalmente rilevanti facenti capo al lavoratore e tutelati dall’ordinamento.
Così, si è ritenuto che, qualora il CCNL applicato preveda che gli orari di lavoro debbano essere fissati dal datore di lavoro armonizzando le istanze del personale con le esigenze dell azienda e sia configurabile in capo alla lavoratrice un interesse apprezzabile (e, comunque, prevalente su quello del datore di lavoro) al mantenimento di un determinato orario di lavoro in considerazione di particolari esigenze familiari, deve ritenersi illegittima la decisione del datore di lavoro di assegnare alla lavoratrice un nuovo orario di lavoro che non le consenta di far fronte a tali esigenze familiari (Pret. Milano 20/1/95, in D&L 1995, 618).
Si è altresì ritenuto (trib. Lecce 17.4.03, in www.salentolavoro.it) che la variazione di orario di lavoro deve essere sempre espressamente motivata (con riferimento alle esigenze produttive), deve avvenire nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza che presiedono all’esecuzione del rapporto di lavoro, e deve poi tener conto in alcune situazioni particolari delle esigenze personali e famigliari del lavoratore, specie quando per l’azienda sia indifferente la determinazione di un orario piuttosto che di un altro, (sicché l’assegnazione dei dipendenti ai turni di lavoro deve riguardare turni compatibili con le loro esigenze familiari, specie ove non importino modifiche organizzative, rimettendosi invece agli accordi collettivi le modifiche organizzative del lavoro: nel caso oggetto di quella pronuncia, la contrattazione collettiva aveva previsto addirittura modifiche di procedure e metodologie di lavoro al fine di “conciliare tempo di vita e di lavoro del personale interessato”).
Si è pure rilevato che il potere datoriale di determinazione e modifica degli orari di lavoro non è assoluto, ma trova un limite nei diritti e nei principi dell ordinamento giuridico, quali tra gli altri il diritto al riposo, il diritto alla salute ed il principio di ragionevolezza (Trib. Lodi 22/11/2002, in D&L 2003, 125).
La giurisprudenza si è occupata, oltre che della materia del danno da permessi, ferie e riposi settimanali negati, del danno da superlavoro, derivante dall’espletamento di un’intensa attività di lavoro straordinario, mentre non constano pronunce in tema di danni da lavoro o superlavoro notturno. La Cassazione ha in tale ambito individuato, quale limite al potere organizzativo datoriale, l obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e, richiamati l art. 32 primo comma Cost. e l art. 2087 c.c., l obbligo del datore di lavoro, costituzionalmente imposto, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità fisio-psichica del lavoratore.
La più accorta e recente dottrina ha poi evidenziato le responsabilità risarcitorie del datore di lavoro anche per il risarcimento del danno esistenziale derivante da atti illegittimi di esercizio dello jus variandi relativo all’orario di lavoro.
Tra l’altro, si è osservato in tale ambito che, mentre l’obbligo datoriale di protezione dell’integrità fisica lavoratore opera anche nell’ambito del monte ore previsto come limite di durata massima del lavoro, riguardando l’interesse prevalente della tutela della salute del lavoratore, l’obbligo datoriale di rispetto della vita privata del lavoratore può operare solo al superamento dei limiti legali, perché solo allora è configurabile un inadempimento di un obbligo contrattuale idoneo a fondare una responsabilità risarcitoria del danno esistenziale: ne deriva secondo tale orientamento che l’intervento giudiziale a tutela del lavoratore è astrattamente configurabile solo nel caso in cui sia prospettata una illegittimità del potere datoriale, ossia il superamento dei limiti fissati dall’ordinamento (siano essi contenuti in norme di legge espresse o desumibili da principi generali), e non per la mera lesione di interessi, pur costituzionalmente tutelati in altri ambiti, del lavoratore (il quale ha una posizione di mero interesse legittimo privatistico nei confronti degli atti di esercizio del potere unilaterale altrui).
Con riferimento al rapporto di lavoro part-time, è addirittura intervenuta la Corte Costituzionale (C.Cost. 11.5.02, n. 210), che ha affermato i principi di seguito riportati. Si è così ritenuto che l ammissibilità di un contratto di lavoro a tempo parziale nel quale sia riconosciuto il potere del datore di lavoro di determinare o variare unilateralmente, a proprio arbitrio, la collocazione temporale della prestazione lavorativa, sarebbe in contraddizione con le ragioni alle quali è ispirata la disciplina di tale rapporto. Infatti, il rapporto di lavoro a tempo parziale si distingue da quello a tempo pieno per il fatto che, in dipendenza della riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione), lascia al prestatore d opera un largo spazio per altre eventuali attività, la cui programmabilità, da parte dello stesso prestatore d opera, deve essere salvaguardata, anche all ovvio fine di consentirgli di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva che sia sufficiente (art. 36, primo comma, della Costituzione) a realizzare un esistenza libera e dignitosa. E su tali rilievi la giurisprudenza ha basato l affermazione che il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine a tale riduzione nonché alla collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario (reputato dalle parti come il più corrispondente ai propri interessi) comporta che ogni modifica di detto orario non possa essere attuata unilateralmente dal datore di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell attività aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le parti (Cass., sez. lav., 22 marzo 1990, n. 2382). Si è pertanto ritenuto del tutto evidente, peraltro, che le stesse ragioni che escludono il potere del datore di lavoro di variare unilateralmente la pattuita collocazione temporale della prestazione lavorativa ridotta, conducono altresì ad escludere l ammissibilità di pattuizioni che attribuiscano al datore di lavoro un simile potere. Clausole di questo genere, infatti, farebbero venir meno la possibilità, per il lavoratore, di programmare altre attività con le quali integrare il reddito lavorativo ricavato dal rapporto a tempo parziale. Tale possibilità - come è stato osservato - deve invece essere salvaguardata, poiché soltanto essa rende legittimo che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un esistenza libera e dignitosa. Del resto, sarebbe inoltre certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall attività lavorativa. A questo riguardo non è superfluo ricordare quale particolare rilievo riveste il rapporto a tempo parziale per il lavoro femminile: per molte donne è questa, infatti, la figura contrattuale che rende possibile il loro ingresso o la loro permanenza nel mondo del lavoro, perché consente di contemperare l attività lavorativa con quegli impegni di assistenza familiare che ancor oggi gravano di fatto prevalentemente sulla donna. Ma è chiaro che queste esigenze verrebbero completamente obliterate ove fosse consentito pattuire la variabilità unilaterale della collocazione temporale della prestazione lavorativa (Corte costituzionale 11.5.02, n. 210).
Bisogna ora valutare l’applicabilità di tali principi nel caso di specie.
Occorre intanto premettere che il rapporto di lavoro dei ricorrenti non è part-time,non avendo i requisiti di forma e contenuto di questo, sicché non sono applicabili i principi sopra enunciati dalla Corte costituzionale in ordine alle finalità indirette che il rapporto a tempo parziale consente di perseguire.
Vero è che vi è stata una riduzione dell’orario di lavoro dei ricorrenti, peraltro di poche ore, e tuttavia ciò non basta per qualificare il rapporto come part-time, anche in considerazione dell’entità ridotta delle ore eliminate e della distinzione dei due istituti nella contrattazione collettiva di categoria, ad es. sub art. 4 lett. b): in questa sede non si vuole peraltro affrontare il problema (che probabilmente andrebbe risolto anche alla stregua delle previsioni collettive di cui si dirà infra) della legittimità della riduzione di orario, non essendo oggetto del presente giudizio (ma se del caso di altro eventuale, preannunciato dai ricorrenti in ricorso).
Occorre allora ricercare altrove, e non nella disciplina del part-time, eventuali vizi del potere datoriale esercitato.
In proposito, occorre rilevare che l’orario di lavoro comprende qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle proprie attività, e che l’art. 36 co. 2 della Costituzione prevede che la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge; la materia è poi oggi disciplinata dal d.lgs. 8.4.2003, n. 66, di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, sulla base della legge delega 1.3.02, n. 39.
Tali fonti normative non si occupano espressamente ed in modo diretto della continuità dell’orario di lavoro nel rapporto a tempo pieno ed indeterminato, privilegiando altri aspetti della disciplina, quali i limiti di durata massima del lavoro ed i riposi.
I principi sopra richiamati in tema di tutela del lavoratore e del suo tempo di vita potrebbero peraltro far ritenere, come sostenuto in modo approfondito e brillante dal procuratore dei ricorrenti, che l’orario di lavoro normale sia un orario continuativo, proprio perché il lavoratore ha interesse a disporre del tempo di vita fuori dall’orario di lavoro senza alcun condizionamento, e ciò per realizzare la propria personalità tutelata dall’art. 2 Cost.
La tesi è senza dubbio suggestiva, ma non può essere essere condivisa nello specifico settore di lavoro cui i ricorrenti sono addetti (settore delle pulizie).
Al riguardo, deve rilevarsi che i ricorrenti lamentano un demansionamento nel passaggio dell’appalto alla resistente, e tuttavia tale demansionamento non è oggetto di tale giudizio cautelare (anche qui i ricorrenti hanno fatto riserva di azione in separata sede): la verifica della fondatezza della domanda cautelare dei ricorrenti come spiegata nel presente giudizio allora non può che essere fatta sul presupposto che i ricorrenti svolgano in via esclusiva mansioni di pulizia (nel caso, nell’ospedale di Gallipoli).
Ciò posto, va rilevato che la direttiva 93/104/CE del Consiglio Europeo del 23 novembre 1993 concernente taluni aspetti della organizzazione dell orario di lavoro, detta la disciplina dei periodi minimi di riposo giornaliero, riposo settimanale e ferie annuali nonché della pausa e della durata massima settimanale del lavoro, e di taluni aspetti del lavoro notturno, del lavoro a turni e del ritmo di lavoro; la fonte normativa precisa (all’art. 17) che si può stabilire una disciplina speciale e derogatoria per via legislativa, regolamentare o amministrativa o mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata:
a) per le attività di lavoro a turni, ogni volta che il lavoratore cambia squadra e non può usufruire tra la fine del servizio di una squadra l inizio di quello della squadra successiva di periodi di riposo giornaliero e/o settimanale;
b) per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare del personale addetto alle attività di pulizia.
Del pari, iI d.lgs. 66/2003 di recepimento della disciplina comunitaria, recante attuazione della disciplina comunitaria in materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno, durata massima settimanale, prevede all’art. 17 deroghe alla disciplina dei riposi di cui all articolo 7, per le attività caratterizzate da periodo di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare del personale addetto alle attività di pulizie.
Dunque, la disciplina comunitaria e quella nazionale legale prevedono espressamente per le attività di pulizia la configurazione di un frazionamento del periodo di lavoro giornaliero, attribuendo rilievo alle particolare natura della attività che può richiedere interventi ripartiti in periodi diversi della giornata da parte degli stessi lavoratori (tanto che si consentono addirittura deroghe alle norme sulla durata minima del riposo giornaliero).
In altri termini, lo sdoppiamento dell’orario di lavoro è astrattamente legittimo proprio perché previsto dalla legge.
Nel caso concreto, poi, il frazionamento dell’orario di lavoro in due turni è previsto altresì dalla contrattazione collettiva.
Il contratto nazionale per le imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati multiservizi prevede all’art. 4 che in caso di cessazione dell’appalto con modificazione di termini, modalità e prestazioni contrattuali, come pacificamente è nel caso di specie, l’impresa subentrante procederà insieme alle oo.ss. indicate dalla norma ad un esame della situazione, al fine di armonizzare le mutate esigenze tecnico organizzative dell’appalto con il mantenimento dei livelli occupazionali, tenuto conto delle condizioni professionali e di utilizzo del personale impiegato, anche facendo ricorso a processi di mobilità ovvero a strumenti quali part-time, riduzione di orario di lavoro, e flessibilità delle giornate lavorative.
Anche la contrattazione aziendale intervenuta (v. verbale 28.7.05 in atti) ha affrontato, oltre al problema della riduzione dell’orario di lavoro, anche quello della distruzione dell’orario di lavoro pro capite su turno unico di lavoro, dando una soluzione negativa: il Consorzio CNS, sulle richieste delle oo.ss., ha dichiarato che l’organizzazione del lavoro prevede necessariamente la mobilità tra i vari presidi e stabili enti ospedalieri e l’articolazione dell’orario di lavoro su due turni, sicché non si è pervenuti a soluzioni concordate diverse.
Da ultimo, non va sottaciuto che nel caso l’articolazione del lavoro su due turni è oggetto di specifica previsione anche nell’ambito dei contratti individuali sottoscritti dai ricorrenti al momento dell’assunzione presso la resistente subentrante nell’appalto: nel caso, allora, si potrebbe porre solo un problema di abuso datoriale nel concreto esercizio del potere astrattamente previsto dalla disciplina convenzionale del rapporto e non una astratta illegittimità dello stesso.
I ricorrenti pretenderebbero di porre nel nulla la pattuizione individuale sulla base dell’invocata applicazione della disciplina inderogabile relativa alla conservazione dei diritti dei lavoratori nel caso di trasferimento di azienda: in altri termini, sembra di potere desumere dal tenore complessivo del ricorso, che i ricorrenti intenderebbero ottenere incidentalmente declaratoria di nullità –nella parte relativa alla determinazione dei due turni orari di servizio- dei contratti di assunzione stipulati con la resistente in quanto contrastanti con le norme inderogabili dettate dall’art. 2112 c.c. e riconoscimento del diritto al mantenimento delle condizioni orarie di lavoro (turno unico) già godute presso il precedente appaltatore.
Sul tema, va rilevato che il nuovo testo dell’art. 29, co.3, del d.lgs 276/2003 (come modificato dal d. lgs. 251/2004), prevede che l acquisizione del personale già impiegato nell appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d appalto, non costituisce trasferimento d azienda o di parte d azienda.
Tale previsione è in linea con l’orientamento della giurisprudenza italiana di legittimità e di merito, che ha sempre escluso l’applicabilità in materia di successione nell’appalto dell’art. 2112 cod.civ: (così Cass. 18.3.96, n. 2254; pret. Milano 15.7.94, OGL, 1994, 545; pret. Roma 5.1.95, LG, 1996, 47; trib. Napoli 12.7.00, OGL, 2000, 693): si è ritenuto, in particolare, che nella successione nell’appalto non si verifica il trapasso di un complesso di beni organizzati tra il vecchio ed il nuovo appaltatore.
Sebbene oggi l’art. 29 sopra richiamato, come detto, abbia definitivamente risolto la questione, escludendo che l’acquisizione di personale in sé costituisca trasferimento d’azienda, la disciplina non esclude che per la ricorrenza di elementi ulteriori sia configurabile un trasferimento di azienda nei passaggi di gestione nell’appalto; anzi, la nuova nozione europea e nazionale di trasferimento di azienda consente astrattamente soluzioni più articolate.
Si è così rilevato che la differenza tra subentro nell’appalto e cessione d’azienda scema tutte le volte in cui vi siano indici rivelatori dell’avvenuta cessione ulteriori rispetto al mero passaggio di personale: così, ad esempio, nelle ipotesi in cui l’attività sia altamente specialistica e l’elemento personale caratterizza e condiziona l’attività aziendale a discapito degli elementi reali.
Nel caso, tuttavia, i ricorrenti che vi erano onerati non hanno allegato né dimostrato in alcun modo la presenza di tali ulteriori indici, essendo per converso risultante la diversità delle società succedute nell’appalto.
La pattuizione individuale relativa all’assunzione dei ricorrenti da parte della resistente è dunque valida ed ha importato la costituzione ex novo di un rapporto di lavoro, senza alcuna possibilità di identificazione con il precedente e distinto rapporto di lavoro alle dipendenze del vecchio appaltatore.
Peraltro, secondo la contrattazione collettiva applicabile nel caso, come già si è ricordato (art. 4), in caso di cessazione dell appalto con modificazione di termini, modalità e prestazioni contrattuali, l impresa subentrante procederà insieme alle oo.ss. indicate dalla norma ad un esame della situazione, al fine di armonizzare le mutate esigenze tecnico organizzative dell appalto con all art. 4 che in caso di cessazione dell appalto con modificazione di termini, modalità e prestazioni contrattuali, come pacificamente è nel caso di specie, l impresa subentrante procederà insieme alle oo.ss. indicate dalla norma ad un esame della situazione, al fine di armonizzare le mutate esigenze tecnico organizzative dell appalto con il mantenimento dei livelli occupazionali, tenuto conto delle condizioni professionali e di utilizzo del personale impiegato, anche facendo ricorso a processi di mobilità ovvero a strumenti quali part-time, riduzione di orario di lavoro, e flessibilità delle giornate lavorative.
Ne deriva l’esistenza di un mero obbligo procedimentale della resistente di un esame con le oo.ss. della situazione (ai fini indicati dalla norma del mantenimento dei livelli occupazionali e tenendo conto delle condizioni professionali e di utilizzo del personale impiegato), senza che da ciò derivino obblighi specifici di assunzione del personale precedentemente occupato o della garanzia dell’identità delle condizioni di assunzione, tanto più relativamente all’orario di lavoro in relazione al quale anzi al norma collettiva consente il ricorso a strumenti quali part-time, riduzione di orario di lavoro, e flessibilità delle giornate lavorative (oltre che addirittura mobilità).
Nel caso, non vi sono elementi per ritenere che l’esercizio concreto del potere determinativo dell’orario sia avvenuto in assenza di ragioni obiettive e in violazione del generale dovere di buona fede: risulta anzi che il frazionamento dell’orario si è reso necessario per ragioni oggettive, ricollegate alla riduzione dell’appalto rispetto al precedente datore, dalla conseguente riduzione dell’orario di lavoro giornaliero (dovuta anche al fatto che in precedenza vi era in via ulteriore l’esercizio da parte di taluni operatori dell’attività di supporto al personale sanitario, non prevista nell’attuale capitolato, sicché tale attività consentiva agli stessi di completare l’orario giornaliero effettuando un turno unico), e dall’esigenza organizzativa del lavoro su due turni in quanto per esigenze operative la pulizia deve essere eseguita in orari compatibili con il regolare svolgimento della primaria attività delle strutture di riferimento.
Né può dirsi che l’esercizio concreto della fissazione dei turni giornalieri sia illegittimo per il preavviso di appena due giorni reso ai lavoratori: infatti, non può non rilevarsi in fatto che i turni sono grosso modo sempre i medesimi ed hanno scostamenti orari modesti (v. tabella dei turni in atti prodotta dai ricorrenti), ciò che consente al lavoratore grosso modo una costante programmazione del proprio tempo di vita extralavorativo, ed in diritto, che il termine di due giorni del preavviso è previsto addirittura dalla disciplina del part time (art. 3 co. 7 del d.lgs. 25.2.00, n. 61, recante attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES), la quale come si è detto risponde ad esigenze del lavoratore ben più tutelate (per le ragioni evidenziate dalla sentenza della Corte costituzionale sopra riportata).
Da ultimo, va ricordato, con la dottrina sopra richiamata, che l’obbligo datoriale di rispetto della vita privata del lavoratore può operare solo al superamento dei limiti legali, perché solo allora è configurabile un inadempimento di un obbligo contrattuale idoneo a fondare una responsabilità risarcitoria del danno esistenziale (in ciò distinguendosi dall’obbligo datoriale di protezione dell’integrità fisica del lavoratore, che opera anche ove altri limiti legali non siano in alcun modo superati, riguardando l’interesse prevalente della tutela della salute del lavoratore).
Ciò implica peraltro, secondo il richiamato e condiviso orientamento, che l’intervento giudiziale cautelare in funzione inibitoria del danno esistenziale derivante al lavoratore dall’esercizio del potere del datore determinativo o modificativo dell’orario di lavoro è astrattamente configurabile solo nel caso in cui sia prospettata una illegittimità del potere datoriale, ossia il superamento dei limiti fissati dall’ordinamento (siano essi contenuti in norme di legge espresse o desumibili da principi generali), restando escluso negli altri casi.
Per tutto quanto detto, il ricorso deve essere respinto.
La particolarità della questione e la considerazione della pozione giuridica ed economica delle parti dà ragione della compensazione integrale delle spese di lite.
p.q.m.
rigetta il ricorso e compensa le spese.
Il giudice del lavoro
Lecce, 24.12.05 Francesco Buffa
Depositato in pari data