Sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni di assunzione ed obbligo di repechage
Autore : Veronica Passarella (Dottore in Scienze Politiche, specializzazione in Consulenza del lavoro)
Nota alla sentenza : Cass.Sez.Lav. 10 ottobre 2005, n.19686
Riferimenti : art.2697 c.c. – art.2103 c.c. – Legge n.604/66 – Sez.Unite 7 agosto 1998 n.7755
L’autrice commenta la sentenza della Corte di Cassazione del 10 ottobre 2005 n.19686 e svolge brevi considerazioni a proposito del diritto alla conservazione del posto di lavoro nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni contrattuali.
La sentenza della Corte di Cassazione n.19686 del 10 ottobre 2005 chiude la vicenda giudiziale di un lavoratore subordinato divenuto, nel corso del rapporto di lavoro, fisicamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni per le quali era stato assunto.
Il lavoratore, giunto davanti al Tribunale di Napoli, chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento con il quale era stato destinato a mansioni inferiori e congiuntamente pretendeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito.
Il giudice di primo grado, sulla base di una perizia tecnica, accoglieva il ricorso del lavoratore e dichiarava il suo diritto allo svolgimento di altre mansioni all’interno del livello contrattuale di appartenenza e, di conseguenza, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno cagionato.
Deve essere specificato che il lavoratore era divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni di giuda, comprese nel sesto livello contrattuale, e le nuove mansioni di assegnazione corrispondevano ad incarichi dissimili a quelli previsti per un conducente ed inclusi in un livello inferiore.
La Corte d’Appello riformava la decisione del giudice di primo grado affermando l’esigenza della prova, da parte del lavoratore, dell’esistenza nell’organico aziendale di posti scoperti per addetti a diverse mansioni nello stesso livello al cui espletamento il lavoratore si reputava idoneo. In altri termini, il lavoratore non doveva limitarsi a sostenere la capacità di svolgere mansioni incluse nel sesto livello, ma anche provare la sussistenza concreta di posizioni ricopribili in quel livello.
La Corte di Cassazione, a sua volta, stabiliva il principio di diritto secondo cui “Il datore di lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art.2697 c.c., pur con le ragionevoli limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio”.
La Corte di Cassazione, nel motivare la sua decisione, elogiava l’insegnamento impartito dalle Sezioni Unite che, con sentenza del 7 agosto 1998 n.7755, componendo il contrasto insorto nella Sezione Lavoro in ordine alla licenziabilità del dipendente divenuto parzialmente inidoneo alla prestazione per la quale era stato assunto, affermava che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità di esecuzione della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi degli artt. 1 e 3 della legge n.604/66, se risulti ineseguibile non solo la concreta attività del dipendente, ma sia anche esclusa la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere una diversa attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti secondo quanto disposto dall’art. 2103 c.c. e, persino, in mancanza di altre soluzioni, a mansioni inferiori compatibili con le residue capacità del lavoratore, purché l’azienda non debba operare un mutamento dell’assetto organizzativo.
Merita di essere ribadito che l’intervento delle Sezioni Unite, nel valutare le due posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul tema delle conseguenze che l’aggravarsi delle condizioni di salute del lavoratore comportano sul piano lavorativo (dove una posizione maggioritaria sosteneva la possibilità per l’azienda di procedere automaticamente alla risoluzione del rapporto, ed una posizione minoritaria individuava invece nel licenziamento l’alternativa estrema), risolveva il conflitto rafforzando la validità della tesi secondo la quale il datore di lavoro, per procedere al licenziamento, deve fornire la prova di aver esperito ogni utile tentativo per individuare una nuova collocazione per il lavoratore.
La sentenza della Corte di Cassazione riaffermava dunque il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, eventualmente derivabile dal consenso ad un patto di dequalificazione consistente per l’appunto nell’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente espletate.
Va rilevato che l’orientamento favorevole alla conservazione del posto di lavoro e perciò alla validità del patto di dequalificazione, muove dalla premessa che non si tratti di una deroga all’art.2103 c.c., bensì di un adeguamento del contratto ad una nuova situazione di fatto.
L’onere probatorio gravante sul datore di lavoro recedente dal contratto si sostanzia nella giustificazione oggettiva dell’impossibilità di assegnare il lavoratore inidoneo alle mansioni abituali, ad altre mansioni equivalenti nello stesso livello, o a mansioni intermedie fra le precedenti e quelle di fatto attribuite.
E’ da tener conto che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore ai compiti per i quali è stato assunto dà luogo ad una specifica responsabilità in capo al datore di lavoro, dal momento in cui egli dovrà assumere una decisione in merito alla nuova situazione di fatto, considerando tanto l’interesse del lavoratore alla salvaguardia del suo posto di lavoro secondo modalità confacenti alle sue residue capacità, quanto agli specifici interessi dell’azienda relativi ai presumibili costi derivanti dall’impiego del lavoratore inidoneo ma anche attinenti l’eventualità di dover stravolgere l’apparato organizzativo per concepire la ricollocazione del lavoratore.
In adempimento all’obbligo di cooperazione il datore di lavoro sarà tenuto alla predisposzione delle condizioni materiali necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa ed anche impiegare appieno le capacità del lavoratore anche fuoriuscendo, in ragione del consenso del lavoratore, dai limiti imposti dall’art.2103 c.c.
E’ dunque ormai consolidato che il dovere datoriale di ricollocazione del dipendente in azienda debba essere praticato antecedentemente l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ove, però, la ricollocazione non risultasse fattibile e dato il divieto di impiegare il lavoratore in mansioni pregiudizievoli il suo stato di salute, è concesso al datore di lavoro far valere l’infermità del lavoratore e giustificare il recesso in ragioni inerenti l’attività produttiva ed organizzativa.
Risulta tuttavia intuibile che l’assegnazione ad altre mansioni si configuri come un’operazione agevole solo allorquando sussistono in azienda reali posti vacanti nel medesimo livello o altre posizioni in cui collocare il dipendente, anche a livelli inferiori.
Il che vale a dire che il datore di lavoro non dovrà, per puro assistenzialismo, creare posizioni superflue ove impiegare il dipendente addossandosi, per conseguenza, il costo di una posizione di lavoro caratterizzata da una vana proficuità.
Si vuole pertanto sottolineare che il dovere datoriale di tutela dell’interesse del lavoratore, nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità alle mansioni di assunzione, esuli dall’imposizione di operare uno stravolgimento dell’assetto organizzativo e perciò dalla ridistribuzione dei compiti o dalla creazione di una nuova figura professionale ad hoc cui adattare le residue capacità del lavoratore menomato.
Per concludere, mi preme ribadire che il dovere datoriale di ricollocazione deve mirare fondamentalmente alla tutela del superiore interesse dell’occupazione ma non certamente nella sconvolgente riconfigurazione dell’apparato organizzativo per porre in essere la condizione di cooperare all’accettazione della prestazione.