lavoroprevidenza

lunedì 14 gennaio 2008

MOBBING: NECESSITA’ DI UNA NORMA INCRIMINATRICE AD HOC

della Dr.ssa Maria Teresa Cortese - Cultrice di Diritto e Finanza Comunitaria - Prof.ssa a contratto in Diritto e Finanza Comunitaria-parte speciale Politecnico di Taranto

MOBBING: NECESSITA’ DI UNA NORMA INCRIMINATRICE AD HOC

Nel contesto attuale caratterizzato dalla presa di coscienza dei diritti sociali da parte dei lavoratori, da alcune produzioni cinematografiche (su tutte, i famosi film “Rivelazioni” con Demi Moore e Michael Douglas e quello, altrettanto originale, dal titolo “ Mi piace lavorare”, diretto da Francesca Comencini con protagonista Nicoletta Braschi) e dall’evolversi veloce della giurisprudenza verso l’inquadramento più attuale della attività antigiuridica del mobbing, sembra rendersi necessario un intervento legislativo più incisivo che sanzioni il mobber, ossia il soggetto che pone in essere l’attività persecutoria.

I tempi sono più che maturi atteso che, quale retroterra, si snodano una serie di pronunce dei giudici di merito e di legittimità, dalle quali emerge un inquadramento esaustivo della fattispecie, le cui connotazioni appaiono ora molto più chiare.

A riguardo, va ricordato che la nozione di mobbing (sul punto cfr. Monatei, Bona Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Giuffrè, Milano, 2000, p.6; Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore:alla ricerca di una fattispecie vietata, in DRI, 2001, p. 285 ss; Soprani, La sindrome da mobbing, in promo.24oreprofessioni.ilsole24ore.com/ambientesicurezza/archivio/142000/articololsicurezza.htm) delineatasi nella esperienza giuslavoristica, con la prima sentenza del tribunale di Torino, sez. lav. emessa il 16.11.1999, si individua nella condotta, protratta nel tempo, connotata da iniziative persecutive, finalizzate all'emarginazione del lavoratore.

Il mobbing, può essere definito, quindi, come una particolare forma di violenza psicologica che viene esercitata nell’ambito lavorativo nei confronti della vittima dal datore di lavoro o da propri colleghi o superiori allo scopo di “eliminare” un dipendente o un collega indesiderato, costringendolo a sbagliare per poi licenziarlo o provocarne le dimissioni (per le prime nozioni di mobbing cfr. Trib. Milano 9.05.1998; Trib. Torino 16.11.1999; Trib. Forlì 15.05.2001, Trib. Pisa 25.07.2001; Trib. Pisa 3.10.2001).

Nel nostro ordinamento non esiste una disciplina apposita del fenomeno mobbing che per lo più, come sottolineato in precedenza, è stato definito e disciplinato dalla giurisprudenza, di merito e di legittimità, con una serie di pronunce che ne hanno ma mano definito il concetto e l’ambito di applicazione.

Attualmente, il ruolo di supplente della norma mancante viene svolto, con una limitata efficacia, dall’art. 572 c.p. che, attraverso la recentissima sentenza della V Sezione della Corte di Cassazione del 29.8.2007 n.33624, viene implementato di ulteriore dignità, laddove è evocato quale “approdo giurisprudenziale”.

Tanto premesso, proprio al fine di agevolare tale orientamento, è opportuno richiamare la risoluzione A5-0283/2001, adottata dal Parlamento Europeo il 20/09/2001, in cui, presa coscienza della diffusione del fenomeno mobbing, si raccomandava agli Stati membri di porvi rimedio attraverso iniziative ritenute più opportune. Ebbene, la Risoluzione indicata era la risposta ad un visibile disagio emergente dal mondo del lavoro che poneva in luce, senza distinzioni geografiche o di sesso, una situazione ricorrente e riconoscibile, dai chiari contenuti di illegittimità, caratterizzata dall’azione persecutoria del cosiddetto mobber nei confronti del dipendente.

Nel nostro Paese ha acquistato importante rilievo la circolare n. 71/2003, diffusa dall’Inail sulla fattispecie del mobbing, contenente un documento ufficiale e decisivo ai fini della valutazione medico legale dell’illecito di cui si tratta.

La circolare fa riferimento a costrittività organizzative producenti disturbi psichici e segnala, tra i comportamenti mobbizzanti, quelli consistenti in marginalizzazione dell’attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, ripetuti trasferimenti ingiustificati, esercizio esasperato di forme di controllo, esclusione reiterata rispetto ad iniziative formative ed altro.

In sostanza viene inquadrato un iter diagnostico della malattia professionale da costrittività organizzativa che, in pratica, rappresenta una definizione di mobbing a livello medico legale.

Ne discende che l’allegato 1 alla circ. 71/2003, riferendosi espressamente al mobbing, elenca i principali quadri morbosi psichici e psicosomatici da esso discendenti. Vi è di più, la legge regionale del Lazio n°16 del 2002, ha introdotto disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro e all’art. 2 (primo caso in Italia da parte di un ente territoriale), infatti, ha inserito, una nozione della fattispecie mobbing.

Pertanto, per “mobbing s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, simili a vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”.

Lo stesso articolo ha, altresì, tipizzato i comportamenti che possono integrare gli estremi del mobbing, ovvero: a) pressioni o molestie psicologiche, b) calunnie sistematiche, c) maltrattamenti verbali ed offese personali, d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta, e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili, f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione, g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni, h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore, i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto, l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro, m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale, n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi, o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione.

Ma, sta di fatto che la vita della L.R. 16/2002 è stata breve, in quanto, la Corte Costituzionale, con la sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 359, (Gazz. Uff. 24 dicembre 2003, n. 51, prima serie speciale), ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in quanto “deve ritenersi precluso alle Regioni la possibilità di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, con norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali” (per ulteriore commento cfr. M. Orecchio, Il mobbing entra nella giurisprudenza costituzionale, in ldirittolavoro.altervista.org/incostituzionale_mobbing_lazio.html e R. Nunin, La Consulta boccia la legge antimobbing della Regione Lazio, nota a C. Cost., 19.12.2003,n. 359, in Lav. Giur., 2004, p. 358 ss)

La legge in questione, contenendo nell'art. 2 una definizione generale del fenomeno mobbing, che costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, è evidentemente viziata da illegittimità costituzionale che si riverbera, dalla citata norma definitoria, sull'intero testo legislativo.

Va rilevato, comunque, che la pronuncia della Corte Costituzionale ha impresso alla materia ulteriore attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza che hanno raffinato le rispettive prospettazioni, pervenendo a conclusioni molto più adeguate ad un inquadramento equilibrato dell’ormai diffuso fenomeno. Difatti, il convergente impegno di giuristi e magistrati è stato quello di non dilatare troppo l’ambito applicativo e, nel contempo, non ridurlo eccessivamente, concludendo sul punto che il mobbing è una vessazione premeditata, continuata e finalizzata ad “un linciaggio psicologico”, e/o un’intenzionale manifestazione di ostilità.

In altre parole, il mobbing è una guerra combattuta soprattutto sul piano psicologico, una sorta di terrorismo psicologico, di solito sul posto di lavoro, che disarticola la stabilità psichica del mobbizzato, procurandogli oggettivi e gravi danni fisici.

Proprio per queste considerazioni, appare opportuno definire il fenomeno attraverso una normativa che individui, in modo chiaro ed esaustivo, gli elementi costitutivi del fenomeno, tenendo presente gli ultimi interessanti studi della dottrina e le recenti sentenze della Cassazione e dei Tar.

Appare degna di attenzione la definizione adottata dall’Inail, con la già citata circolare n. 71/01, che ai fini dell’inquadramento della malattia professionale, definisce che è qualificabile come mobbing strategico tutto ciò che “è ricollegabile a quell’insieme di azioni poste in essere nell’ambiente di lavoro con lo scopo di allontanare o emarginare il lavoratore e riconducibile a quegli elementi di costrittività organizzativa”.

Come si nota, tale definizione si allontana da quella giurisprudenziale, in quanto, scompare il requisito della ripetitività del comportamento, mentre acquista rilevanza quello specifico del fine perseguito.

In merito si richiama la Sentenza della Corte Costituzionale n. 113/04 che, in materia di responsabilità contrattuale del datore per danno da mobbing, si è espressa sancendo la incostituzionalità dell’art. 2751 bis c.c.. Tale pronuncia prova che il mobbing è ufficialmente entrato nella giurisprudenza costituzionale.

Difatti, la Corte ha stabilito che è incostituzionale l'art. 2751-bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili, il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro.

In particolare si legge, nella citata sentenza, che “nell'elaborazione dei giudici ordinari è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda, danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo, danni alla salute psichica e fisica.

L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione - situazioni in cui si risolve la violazione dell'articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) - può comportare, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la violazione dell'art. 2087 cod. civ.”.

Merita attenzione anche la sentenza del Tribunale di Tempio Pausania (n.157/2003 ), che rappresenta la prima pronuncia in cui si accorda il risarcimento del danno causato da mobbing al ricorrente, nel caso in questione, un lavoratore del pubblico impiego. La fattispecie considerata riguarda la concreta esistenza di mobbing all’interno di un ente locale, un Comune per la precisione, per effetto del quale vengono liquidate alla vittima diecimila euro per procurato danno esistenziale. Va sottolineato che la sentenza segue il nuovo orientamento della Corte di Cassazione che, considerando superata la ripartizione del danno non patrimoniale nelle categorie del danno biologico e del danno morale, attribuisce autonoma rilevanza alla categoria del danno esistenziale, comprendente qualsiasi danno subito dall’individuo, limitante le attività realizzatrici della propria persona ( cfr. Cass 7713/00, 8827/03 e 8828/03 ).

Alla luce di quanto esposto, non si giustifica come tale materia, divenuta in Europa e nel mondo di eccezionale attualità e, quindi, oggetto di attenzione da parte di dottrina e magistratura, non trovi ancora in Italia un inquadramento definitivo in una norma di legge ad hoc, quale approdo finale e non giurisprudenziale, nel segno della civiltà giuridica e della obbligata difesa della dignità della persona.

Dr.ssa Maria Teresa Cortese

Cultrice di Diritto e Finanza Comunitaria

Prof.ssa a contratto in Diritto e Finanza Comunitaria-parte speciale

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