La responsabilità per danno “all’immagine” nella P.A.
Prof. Sergio Sabetta
Le SS.RR. della Corte dei conti hanno codificato il danno “all’immagine” come danno “esistenziale” che viene ad investire il cuore delle strutture pubbliche, pertanto indipendente da un aspetto puramente reddituale o patrimoniale dell’evento considerata la gravissima lesione dei valori costituzionali che informano la P.A. ( Corte dei conti, SS.RR. 23/4/2003, n. 10/Qm ).
Al di fuori dell’ambito della contabilità pubblica gli interessi non economici sarebbero, di massima, non risarcibili in assenza di un esplicito avallo normativo volto ad evitare che il diritto al risarcimento diventi occasione di abusi a carico del danneggiante, questo in omaggio al principio tradizionale del diritto privato come ordinamento costituito a tutela di interessi economici, pertanto il codice civile ha sancito la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo nei casi determinati dalla legge ( art. 2059 c.c. ) e principalmente in ipotesi derivanti da reato ( art. 185. c.p. ).
Tuttavia la necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona ha indotto dottrina e giurisprudenza a riconoscere da una parte un risarcimento circoscritto al danno c.d. morale, limitato peraltro ai casi previsti dalla legge, dall’altro ad estendere la nozione di danno non patrimoniale a tutte le ipotesi di pregiudizio arrecato ad interessi non economici aventi rilevanza sociale, con particolare riguardo alle lesioni dei diritti fondamentali dell’uomo e di altri soggetti giuridici, l’evoluzione giurisprudenziale ha inoltre introdotto un concetto di danno non patrimoniale sganciato dall’ipotesi del reato, lasciando per tale via l’ingresso aperto anche al danno non patrimoniale da inadempimento con particolare riferimento alla violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di servizio.
L’ampliamento del danno non patrimoniale, fondato comunque su lesioni di interessi non suscettibili di valutazione strettamente economica, è attratto nell’ambito del potere cognitivo del Giudice contabile, tutore di interessi essenzialmente patrimoniali dell’Erario, non come ristoro a sofferenze fisiche o morali dello Stato bensì quale danno derivante all’immagine e alla personalità pubblica dello stesso, considerando le spese a cui la Pubblica Amministrazione è chiamata a far fronte direttamente e in prospettiva per il ripristino del bene della fiducia da parte dei cittadini ( c.d. danno patrimoniale indiretto).
Il danno all’immagine, se pure è stato talvolta individuato quale danno-evento, è dalla Corte dei conti, Sez. I/A con sent. n. 160 del 12/6/2007 inquadrato nella tradizionale costruzione del c.d. danno-conseguenza elaborato dalla Corte di Cassazione a SS.RR. con sent. n. 5668/97.
Abbiamo detto che il danno all’immagine della P.A. consiste nella perdita di prestigio della personalità pubblica dello Stato non comportante una diminuzione patrimoniale diretta, ma valutabile patrimonialmente in rapporto agli oneri necessari per il suo ripristino.
La conseguenza patrimoniale della lesione è accertata e valutata sia in relazione alla spesa già sostenuta e documentata, sia in relazione alla spesa necessaria per il ripristino dell’immagine a seguito della straordinaria attività di riorganizzazione necessaria per il ristabilimento del clima di fiducia.
Il danno patrimoniale indiretto si configura tanto in termini di danno emergente, costituito dalla spesa sostenibile per la ricostruzione dell’immagine, quanto di lucro cessante, il tempo necessario per ottenere una piena efficienza operativa dopo la riorganizzazione, la quantificazione del danno va effettuata ai sensi dell’art. 112 c. p. c. e dell’art. 1226 c. c. , in termini equitativi vista la complessità degli elementi costitutivi del danno che rendono impossibile provare con precisione l’ammontare dello stesso.
( Corte dei conti, Sez. I/A, n. 171 del 20/6/2007, n. 173 del 21/6/2007, n. 187 del 4/7/2007 ).
Dobbiamo considerare che la condotta contraria al codice di comportamento ha riflessi non solo all’esterno per l’eventuale notorietà dei fatti, ma anche su quei dipendenti che con difficoltà svolgono onestamente le proprie funzioni e che su tale agire fondano pretese di rispetto e di prestigio per sé e per l’amministrazione di appartenenza, tutte circostanze demotivanti per i colleghi e devianti per l’amministrazione .
(Corte dei conti, Sez. Giur. Reg. per l’Emilia Romagna, n. 1408/2004)
Circostanza scusante per una eventuale responsabilità è la evidente complessità e scarsa chiarezza delle norme che il funzionario doveva applicare, ma anche l’ambiente tipico in cui viene ad agire può costituire elemento valutabile ai fini delle attenuanti.
( Corte dei conti, Sez. Giur. Reg. per l’Emilia Romagna, n. 1269/2004)
Il personalizzare la responsabilità non può portare a deresponsabilizzare sulle proprie azioni quando queste sono influenti anche se puramente istruttorie e prodromiche alla decisione, la quale resta comunque una responsabilità a sé dell’organo decidente. Né le disfunzioni del più ampio contesto organizzativo possono costituire scusante non per errori più o meno gravi ma per una precisa volontà di perseguire, seppure con diverse probabilità di riuscita, un diverso risultato favorevole.
Inoltre, il fatto che l’organo di vertice non possa decidere con sufficiente certezza sulla corretta istruttoria costituisce intralcio al buon funzionamento demolendo il rapporto di fiducia sul rispetto delle regole e rinforzando comportamenti opportunistici basati sull’incertezza del diritto. E’ opportuno, al riguardo, ricordare che il rapporto etico non può limitarsi al rispetto più o meno formalistico di obblighi giuridici, ma si realizza solo nel senso di responsabilità sociale del proprio agire consapevoli, delle conseguenze sui terzi derivanti dall’esercizio dei poteri pubblici.