La perdita di valore del lavoro
Prof. Sergio Sabetta
Si è recentemente rilevato che la ricchezza prodotta e ridistribuita è percentualmente cresciuta a favore del capitale e a scapito del lavoro, facendo riferimento alla rivoluzione tecnologica e informatica, nonché alla globalizzazione che hanno ridotto il valore del lavoro con esclusione del lavoro intellettuale sofisticato legato allo sviluppo di nuove tecnologie e di nuovi prodotti o mercati e a servizi artigianali forniti di elevato know-how, anche i restanti settori pubblici proprio per le loro caratteristiche intrinseche hanno difeso con più o meno successo a seconda della struttura il loro valore.
Vi è stata parallelamente una svalutazione dell’etica del sacrificio e dell’impegno, considerata la possibilità balenante di un rapido successo secondo i nuovi modelli culturali relazionali proposti e i guadagni derivanti dall’impegno del capitale finanziario, per non parlare di una perdita del senso del lavoro inteso non solo quale sofferenza e maledizione biblica, bensì come occasione di formazione e crescita personale, liberazione di energie costruttive della personalità.
La trasformazione della mobilità in precariato ha indebolito ulteriormente il concetto di lavoro e il suo valore sul mercato, creando un ulteriore distacco dal lavoro intellettualmente ricco come innanzi esposto il quale per sua natura usufruisce della mobilità traendone beneficio.
Si è confusa l’autonomia decisionale con l’insicurezza sul posto di lavoro non permettendo la pianificazione esistenziale pertanto togliendo dignità al lavoro stesso, aspettando nel frattempo la crescita delle economie in via di sviluppo con l’inevitabile lievitare dei salari per l’accresciuto benessere delle popolazioni, circostanza che comporterà minimo una o due generazioni.
Il concentrarsi nei settori avanzati di conoscenze intensive, la diffusione di una autonomia decisionale nelle attività e conseguente responsabilità al fine di rendere maggiormente reattive le imprese, il creare in altre parole il clima organizzativo atto a realizzare tali principi e rendere più collaborativi l’impresa spetta comunque soprattutto ai dirigenti, ai quali deriva la responsabilità attraverso regole chiare e rispettate di cercare di rivalutare il valore del lavoro e i suoi significati positivi soggiacenti.
Lo sviluppo di un forte individualismo autoreferenziale, non limitato dai valori del lavoro di gruppo, crea le premesse ideologiche per la svalutazione di qualsiasi lavoro non immediatamente remunerativo, monetizza in forma esclusiva il lavoro dissipando tutto il capitale morale derivante dal riconoscimento sociale.
Anche lo specializzato deve lavorare in rete con altri specialisti connettendo specializzazioni differenti, vi la necessità di gestire delle relazioni che non siano consorterie e della complessità che non sia omertà, con una assunzione chiara del rischio quale seguito dell’autonomia gestionale.
Bibliografia
· E. Rullani, Una rivoluzione per il terziario, in “L’impresa”, 86-95, Libri Scheiwiller 5/2003;
· V. Perrone, La quinta stagione del lavoro, in “E. & M.”, 3- 10, Etas, 5/2007.