IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
dott. Domenico Crescenzo
Un’ulteriore fattispecie di licenziamento illegittimo è quello del licenziamento discriminatorio.
Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie, già previsto dagli art.
Al momento dell’entrata in vigore della legge n. 108/1990 il nostro Ordinamento non contemplava ancora alcuna definizione di discriminazione: il legislatore, nell’art. 4 della legge n. 604/1966, nell’articolo 15 della legge n. 300/1970 e nella stessa legge n. 903/ 1977 parlava di discriminazione senza fornire una definizione.
La situazione è significativamente cambiata con l’entrata in vigore della legge 10 aprile 1991, n. 125, il cui articolo 4 contiene una definizione (generale) di discriminazione, sia vera novità, una definizione di discriminazione indiretta, di derivazione nord americana e rielaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
In forza del primo comma dell’art. 4, “costituisce discriminazione ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminatorio anche in via indiretta ai lavoratori in ragione del sesso”.
Stante la lettera della legge, possiamo affermare con tranquillità che la definisce citata si può e si deve applicare a qualsiasi atto discriminatorio ai sensi della legge n. 903/1977, e quindi anche ai licenziamenti discriminatori di cui all’art. 3 legge n. 108. E’ da sottolineare vivamente che la prima definizione di discriminazione può essere rinvenuta nella convenzione OIL n. 111/1958 (ratificata dall’Italia con legge n. 93/1963), là dove la discriminazione viene definita come ogni distinzione, esclusione o preferenza, basata su razza, colore, sesso o religione, opinioni politiche, origine nazionale o estrazione sociale che abbi l’effetto di annullare o danneggiare l’eguaglianza di opportunità di trattamento nell’impiego o nell’occupazione”.
Il comma 2 dello stesso art. 4 legge n. 125/1991 evidenzia la nozione di discriminazione indiretta, secondo la quale “costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa”.
La nozione di discriminazione trova oggi un importante riscontro nella legge 6 marzo 1998, n. 40, secondo l’art. 41, infatti costituisce discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione o, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza e l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti unami e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
Recentemente è entrato in vigore il d.lgs. 9 luglio 2003, n° 216 relativo all’attuazione della direttiva 2000/78 CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. L’art. 1 del d.lgs. 9 luglio 2003, n° 216, nel ribadire il principio di parita’ di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, prevede l’azione di misure necessarie affinchè tali fattori non siano causa di discriminazione, ma in un’ ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini.
Le disposizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. 216/2003 relative alla nozione di discriminazione diretta ed indiretta, oltre ad essere il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale Comunitaria che si è succeduta nel corso degli anni, riprendono le definizioni contenute nel rispettivo art. 2 della direttiva 2000/78 CE.
Per il legislatore comunitario costituisce discriminazione diretta ogni atto o comportamento, attivo od omissivo, diretto a pregiudicare coscientemente un soggetto in ragione della sua appartenenza ad un gruppo determinato: l’illegittimità del comportamento è in questo caso rinvenibile nella motivazione posta a base del trattamento in pejus ed è quindi agevolmente definibile e verificabile. Costituiscono invece ipotesi di discriminazione indiretta le condotte e i comportamenti adottati in base all’applicazione di criteri che, sebbene formalmente neutri, si rilevano idonei a produrre effetti proporzionalmente sfavorevoli a danno della collettività o dei gruppi tutelati dalla norma antidiscriminatoria. In altre parole, tali criteri, astrattamente imparziali, di fatto provocano un disparate impact su una collettività effettiva o potenziale di lavoratori e devono considerarsi illegittimi a meno che non siano giustificati da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi causa di giustificazione.
Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle cause di discriminazione e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
La legittimazione ad agire in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione spetta alle rappresentane locali della organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di una delega, rilasciata a pena di nullità per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Gli stessi soggetti sono inoltre legittimati ad agire anche nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.
L’onere di provare il carattere discriminatorio o illecito del motivo di licenziamento grava sul lavoratore: trattasi di prova normalmente difficile, in quanto il motivo illecito attiene al momento della formazione della volontà piuttosto che alla sua esternazione, che presenta solitamente connotazioni formalmente legittime.
Per quanto attiene agli elementi di prova che il ricorrente può dedurre in giudizio, l’art. 4 comma 4 del d.lgs. 216/2003, prevede la possibilità di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, anche sulla base di dati statistici, che il giudice valuterà ai sensi dell’art. 2729 comma 1 del Codice Civile.
La prova dell’intento discriminatorio per motivi politici deve essere fornita dal lavoratore licenziato: tale intento può escludersi qualora il datore si sia sforzato di ricercare il consenso del dipendente su possibili soluzioni bonarie ad una difficoltà occupazionale (2);
Sono utilizzabili per stabilire il carattere discriminatorio e antisindacale del licenziamento elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che, nelle fattispecie concreta, sono risultati essere la mancanza di effettiva consistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, l’accesa conflittualità sindacale tra le parti e la provata insofferenza del legale rappresentante della società nei confronti della lavoratrice, sfociata in insulti e propositi di liberazione (3);
Il licenziamento adottato per motivi discriminatori , in violazione dell’art. 15 S L, è nullo ed a esso consegue l’applicazione dell’art. 18 della legge citata (nella fattispecie la ricorrente era stata licenziata dopo aver denunciato le molestie sessuali subite da parte di un altro dipendente) (4).
La prova, inoltre, può essere raggiunta anche per presunzioni: in base all’art. 421 cod. proc. Civ. , nel processo del lavoro il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova , anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto (5).Il regime della presuntiva, chè è prova piena quando ricorrono i presupposti di cui all’art. 2729 c.c. , è stato adottato dal legislatore in tema di discriminazione sessuale, e trova applicazione anche in caso di licenziamento determinato da motivo discriminatorio, imponendo al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 4 c.
In realtà non va dimenticato che in Italia, nonostante l’onere della prova gravi comunque sul soggetto che ritiene di essere stato discriminato, esiste una protezione molto forte per il lavoratore colpito da un licenziamento, discriminatorio. Il datore di lavoro, infatti qualora fosse accertata l’esistenza di una delle cause di discriminazione, sarebbe costretto, al di la dei limiti dimensionali della propria azienda, reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno.
Nella liquidazione del danno il giudice terrà conto dell’eventualità in cui l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta a d ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.(8)
NOTE 1. Cass. n.8237/1994; Cass. n.662/1994;Cass. 1295/1933; Cass. 4131/1993; 2. Corte d’ Appello de l’Acquila 5/8/2003, Pres. Finucci Rel. Sordi, in Lav. Nella giur. 2004, 400; 3. (Pret. Milano 28/2/94, est. Ianiello, in D & L 1995, 93); 4. Pret. Milano 25/5/1996, est. Curcio, in D & L 1997, 157; 5. Cassazione Sez. lavoro n. 6366 del 16 maggio 2000, Pres. Trezza , Rel. Filadoro; 6. Pret. Milano 28/2/94, est. Ianiello, in D & L 1995, 93; 7. Corte d’ Appello de l’Acquila 5/8/2003, Pres. Finucci Rel. Sordi, in Lav. Nella giur. 2004, 400; 8. MAZZOTTA ORONZO - i licenziamenti commentario: le norme del codice civile della legge 15.07.1966 n. 604 con la collaborazione di Dino Buoncristiani [et.A1.] seconda edizione- Milano Giuffrè-1999; |