Parità uomo-donna per
Sommario: 1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale - 2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario - 3. Conferme dalla Cassazione.
1. La posizione inequivocabile della Corte costituzionale
Nonostante chiare ed univoche statuizioni di diritti paritari finalizzati all’affermazione costituzionale della stessa età massima lavorativa fra i due sessi (intesa quale garanzia della stabilità reale per l’identica durata della massima età lavorativa, attualmente fissata a 65 anni, in coincidenza con quella dell’uomo) persistono tentativi di negare, di fatto e in diritto, tale garanzia, avvalendosi strumentalmente di infelici formulazioni di un inadeguato legislatore che si è atteggiato a soggetto «disaccorto» nel momento di stabilire, con la mano sinistra, disposizioni in tema di tutela per la fase di risoluzione del rapporto senza tener conto delle implicazioni che introduceva, con la mano destra, con disposizioni afferenti l’elevazione dell’età pensionabile.
Ma tali disarmonie sono talmente intuitive e talmente sanabili sulla base della ratio equiparativa (in ordine all’età massima lavorativa che identifica la durata delle garanzie per il lavoratore di non essere sottoposto al recesso discrezionale dell’azienda ed al tempo stesso esonera da qualsiasi preventiva comunicazione - cd. opzione - colei che intenda proseguire il rapporto fino ai 65 anni) affermata da ben tre sentenze della Corte costituzionale (n. 137/1986, n. 498/1988, n. 256/2002) che coloro che ad esse non fanno riferimento alcuno, inducono nell’osservatore esterno il legittimo sospetto di voler deliberatamente compiere un atto di forza antigiuridico, avvalendosi strumentalmente di sussistenti disarmonie formali dell’ordinamento lavoristico.
Tentiamo di fornire una spiegazione chiarificativa, che necessita di una (tediosa) ricostruzione storica, da noi peraltro limitata allo stretto necessario.
Tramite l’art. 11 della l. n. 604/1966 (legge sui licenziamenti individuali) si stabilì che la disciplina vincolistica del licenziamento discrezionale (cd. ad nutum, ex art. 2118 c.c. con preavviso) non si applicava (oltreché ai dirigenti e ai lavoratori in prova, indirettamente esclusi dall’applicazione, per effetto del precedente art. 10) «nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia» (all’epoca 55 anni per la donna e 60 per l’uomo), con la conseguenza – dopo la l. n. 300/’70, e al ricorrere dei requisiti eminentemente dimensionali per la sua applicazione – di far beneficiare il datore di lavoro dell’esonero della reintegrazione, stante la non sindacabilità del recesso sotto il profilo del “giustificato motivo o giusta causa” di licenziamento, giustappunto in ragione dell’inapplicabilità della legge 604/1966.
La diversa età per il pensionamento di vecchiaia tra i sessi (55 anni per la donna, 60 anni per l’uomo) portava con se la conseguenza automatica – ai fini della sindacabilità giudiziale del licenziamento ingiustificato e dopo il 1970 dell’applicabilità del regime di stabilità reale garantita dall’art. 18 Stat. lav. – che l’uomo fruiva per 5 anni in più della donna della protezione contro il recesso discrezionale aziendale.
Con la legge di parità uomo-donna in materia di lavoro del 1977 (n. 903/77), tramite l’art. 4, si tentava in qualche modo di rimediare alla disparità stabilendo che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia». Pur accollando loro un onere di comunicazione a pena di decadenza, si garantiva alle donne, per questa strada, pressappoco la stessa tutela contro il licenziamento discrezionale stabilendo che, in caso di opzione, «si applicano alle lavoratrici le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n.604 , e successive modifiche ed integrazioni, in deroga all articolo 11 della legge stessa».
Intanto nel 1986, l’art. 11 della l. n. 604/66 – che consentiva il licenziamento ad nutum della donna anticipato rispetto all’uomo (a 55 contro i 60) veniva dichiarato incostituzionale, in parte qua, da Corte cost. n. 137/1986 con la seguente motivazione:«... poiché l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e le profonde riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro hanno determinato - col rendere il lavoro stesso, in via generale, meno usurante oltre che più sicuro - una graduale evoluzione, la quale, per quanto riguarda la donna, ha inciso profondamente non solo sulle condizioni di lavoro che la riguardano in modo particolare ma anche sull’attitudine lavorativa (comprensiva, tra l’altro, della capacità al lavoro e della resistenza fisica), è da ritenere che siano venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo per quanto concerne l’età del conseguimento della pensione di vecchiaia; e dunque del tutto priva di legittimità si rivela la disciplina del licenziamento fondata su tale evento. Sono pertanto costituzionalmente illegittimi - in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione (assorbito il profilo concernente l’articolo 38, comma secondo) - gli articoli 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (sui licenziamenti individuali) ecc. ... nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo». Ciò in considerazione del contrasto – tra l’altro - con l’art. 37 Cost. interpretato nel senso che al legislatore incombe oltre al dovere «di assicurare alla donna condizioni di lavoro tali che la pongano in grado di adempiere, unitamente all’attività lavorativa, anche la sua essenziale funzione familiare, quello di garantire alla lavoratrice, in applicazione del più generale principio di uguaglianza ed in armonia con gli articoli 4, 35 e 38 della Costituzione, il diritto alla parità giuridica con il lavoratore in situazioni obiettive eguali, diritto che ha un contenuto ampio e complesso, comprensivo di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro nelle sue varie fasi (accesso, attuazione, cessazione)».
Stabiliti questi principi,
Il combinato disposto delle due sentenze costituzionali aveva introdotto nell’ordinamento la regola chiara e precisa, secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo e, dunque, secondo la disciplina previdenziale dell’epoca, fino al sessantesimo anno di età (in coincidenza, cioè, con l’età pensionabile maschile).
Non vi sarebbe stato bisogno di aggiungere altro[1].
2. I pasticci del maldestro legislatore ordinario
Intanto sul versante della legislazione previdenziale, ai fini di ridurre l’incidenza della spesa previdenziale, il legislatore disincentivava il ritiro in quiescenza dei lavoratori e delle lavoratrici al compimento dei requisiti pensionistici dell’epoca, consentendo – prima con l’art. 6 della l. n. 54/1982, poi con l’art.
Sul versante prettamente lavoristico della tutela per la fase di risoluzione del rapporto, intanto, il legislatore abrogava l’art. 11 della legge n. 604/66 (già costituzionalmente inficiato da Corte cost. n.137/86 nella parte che consentiva il licenziamento della donna in età lavorativa inferiore a quella pensionistica di vecchiaia per l’uomo, fissata all’epoca nei 60 anni). E, in maniera del tutto disaccorta – atteso che già si ventilava l’elevazione dell’età pensionabile ad opera di una riforma pensionistica - in un ottica di ossequio ai principi della Corte costituzionale (staticamente cristallizzati e non proiettati dinamicamente per l’eventualità dell’innalzamento dell’età per il pensionamento di vecchiaia) nonché di (superflua) riconferma del principio paritario uomo-donna in ordine alle tutele per la risoluzione del rapporto, il legislatore stabiliva, nell’art. 4 della l. 11.5.1990 n. 108 (di riscrittura sostanziale della disciplina dei licenziamenti individuali) che le tutele contro il licenziamento ingiustificato e per la reintegrazione ex art. 18 Stat. lav., cessavano di applicarsi nei «confronti dei prestatori di lavoro, ultrassessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici...», salvo che non avessero optato per l’incremento della loro posizione contributiva, ai sensi delle leggi previdenziali al riguardo.
Questa disposizione formulata con evidente «miopia» [2] dette luogo a non pochi problemi di contenzioso, perché la parte datoriale – dimentica delle statuizioni di principio della Corte Costituzionale espresse nelle sentenze n. 137/1986 e 498/1988 – vi lesse l’autorizzazione alla risoluzione del rapporto delle lavoratrici che, in coincidenza con il compimento dell’età anagrafica dei 60 anni, avevano maturato anche il requisito (dei 60 anni) per il pensionamento di vecchiaia (attualizzatosi nel 2000), e non avevano avanzato e comunicato al datore di lavoro (nel termine di decadenza dei 6 mesi precedenti al compimento dei 60 anni), opzione per la prosecuzione del rapporto, ai fini previdenziali.
E vennero disposti licenziamenti.
La questione di costituzionalità, già risolta dalla due citate sentenze della Corte costituzionale, tornò pertanto di attualità, così da giustificare il nuovo intervento della Corte, avvenuto per il tramite della sentenza interpretativa di rigetto n. 256/2002.
La questione della divaricazione di trattamento in ordine alle tutele afferenti la risoluzione del rapporto era riemersa platealmente eminentemente dopo il 2000 per effetto dell’elevazione dell’età pensionabile maschile fino al 65° anno di età (art. 1, d.lgs. n. 503 del 1992) - dunque oltre il limite anagrafico alla stabilità del rapporto dei lavoratori pensionabili fissato dall’art. 4, co.
Per far comprendere la disparità formalmente - ma dal lato sostanziale (tenendo a mente i principi costituzionali ribaditi dalla Consulta) solo «apparentemente» - reintrodotta, si evidenzia come prendendo in considerazione i limiti anagrafici richiesti per il pensionamento di vecchiaia successivamente al 1 gennaio 2000 (ma analogo discorso è valido per i periodi tra il 1994 e il 31.12.1999), mentre i lavoratori non possono essere licenziati ad nutum se non dopo il compimento del 65 anno di età - giacché solo a quella età attualizzano ed integrano entrambi i requisiti di cui all’art. 4, comma 2, legge n. 108/90 («ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici») - le lavoratrici perfezionano i suddetti requisiti già al 60° anno di età.
Investita della questione
Si sarebbe infatti potuto eccepire che la soluzione paritaria di stabilità reale contro il licenziamento ad nutum nell’arco anagrafico fra i 60 e i 65 anni poteva essere recuperata (pur soggiacendo all’onere della previa comunicazione) dalla lavoratrice – che è caratterizzata dal beneficio «giustificato» dell’antecedente (rispetto all’uomo) età pensionistica di vecchiaia dei 60 anni – con l’opzione previdenziale che, peraltro, ripete lo schema ed assolve alla stessa funzione del costituzionalmente espunto art.
Ma va subito evidenziato che non sembra esatta neppure questa considerazione, giacché mentre per l’uomo il raggiungimento dell’età anagrafica dei 65 anni, occasionando la sottrazione alla stabilità reale, fa sì che la risoluzione del rapporto ad nutum sia assoggettata al preavviso[3] (e, consensualmente, all’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso medesimo, se non lavorato), la normativa previdenziale in tema di opzione di cui all’art. art. 6, co.
Ma come si è visto dalla lettura della motivazione di Corte cost. n. 256/2002, essa ha nuovamente confermato il non assoggettamento della donna all’onere dell’opzione previdenziale, per potere fruire della stabilità reale per la pari età lavorativa dell’uomo.
A chi si era posto[4] l’interrogativo se l’art. 4, secondo comma, l. n. 108/90 - a seguito della riforma previdenziale elevatrice delle età di pensionamento – vada interpretato nel senso che la lavoratrice, per mantenere la stabilità del rapporto fino al 65° anno di età, debba necessariamente esercitare, almeno sei mesi prima (ridotti, a quanto pare, a tre dall’art. 30 d. lgs. n. 198/2006) della data del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, l’opzione di cui alla l. n. 54/1982 e successiva n. 407/90, oppure se in applicazione dei principi di parità tra i sessi espressi dalla Corte costituzionale, anche alla lavoratrice che non abbia optato per la prosecuzione del rapporto sia garantita la stabilità del posto fino ai 65 anni, va quindi risposto con le considerazioni sottoriferite:
«L’età pensionabile per la donna, fissata al sessantesimo anno di età, continua a costituire un “giustificato beneficio” per le donne, ma non comporta alcuna contropartita sul piano della stabilità del rapporto. Vale ancora il principio che l’età lavorativa femminile debba continuare a coincidere (non con l’età pensionabile femminile, ma) con l’età pensionabile maschile (coincidente a sua volta con l’età lavorativa maschile, per il quale solo vale il principio di correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa). La donna pertanto, pur pensionabile al sessantesimo anno di età, può essere licenziata ad nutum solo se “ultrasessantacinquenne in possesso dei requisiti pensionistici”, così dovendo leggersi ormai, secondo
3. Conferme dalla Cassazione
Le conclusioni raggiunte ricevono il conforto dell’orientamento sufficientemente consolidato della Cassazione.
La più recente decisione della S. corte, sul tema, risulta Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045[6] (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato». Tale decisione ripercorre tutti i precedenti della Corte costituzionale sul tema (n. 137/86, n. 498/88, n. 256/2002) ed aderisce all’analogo significativo precedente di Cass. 24.4.2003 n. 6535[7]. Gli stessi principi di diritto – sia pure asseriti nell’esame di una fattispecie di una lavoratrice che non era legittimata a sottrarsi al licenziamento ad nutum, per essere fruitrice di pensione di vecchiaia che la privava ex art.
Dai principi di cui sopra si discosta (l’isolata) Cass. 6.2.2006 n. 2472 (est. Vidiri) le cui due massime sono le seguenti: «1. In tema di licenziamento della lavoratrice dipendente che, raggiunta l età pensionabile, non abbia provveduto, nei sei mesi precedenti il raggiungimento dell età pensionabile, ad esercitare l opzione per la prosecuzione del lavoro di cui all art.
2. Inoltre l aver il datore di lavoro trattenuto in servizio la lavoratrice per oltre due anni non può configurare un comportamento concludente da cui possa evincersi, in maniera inequivoca, la volontà datoriale di accettare una intempestiva opzione o di rinunziare a far valere il diritto di recedere dal rapporto senza quei vincoli fissati in materia di licenziamento dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970; il suddetto comportamento è idoneo ad attestare con certezza unicamente la volontà datoriale di continuare un rapporto lavorativo che, in ragione di un quadro normativo ipso iure mutato proprio per effetto del mancato tempestivo esercizio dell opzione, garantisce alla dipendente una stabilità nel posto di lavoro ed una efficace tutela solo a fronte di condotte discriminatorie poste in essere ai danni della dipendente medesima (art. 4, secondo comma, ultima parte, l. n. 108 del 1990), per essersi automaticamente operato un oggettivo spostamento del rapporto di lavoro dall area della stabilità a quella del libero recesso, con conseguente inapplicabilità di tutti i principi fissati dal legislatore in relazione al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, quale, ad esempio, quello della tempestività dell addebito posto a base del licenziamento stesso[8]».
Questo isolato dissenso, ha fornito a taluno l’occasione per auspicare un intervento risolutivamente chiarificatore delle Sezioni unite della S. corte, che - semmai ci sarà – riteniamo non possa che riaffermare i condivisibilissimi princìpi immessi nell’ordinamento positivo dalla Corte costituzionale, in ordine alla parità tra i sessi ed al divieto di diversificazioni di trattamento, in ragione di un presunto sbilanciamento del principio paritario rinvenuto dalla decisione dissonante nella fruizione da parte della donna di un «beneficio»(l’inferiore età pensionabile ai 60 anni) sempre riconosciuto eticamente giustificato dal consolidato orientamento giurisprudenziale.
Prof. Mario Meucci - Giuslavorista
[1] Così commenta condivisibilmente A. Pileggi, Limiti dell’età pensionabile e principio di parità tra i sessi, nota a Corte cost. n. 256/2002, in Mass. giur. lav. 1-2/2003, 45 e ss.
[2] Dice Pileggi, op. ult.cit., 47: «il legislatore, come detto, dimostrò miopia e sprovvedutezza e dispose l’inapplicabilità del regime di stabilità nei confronti degli “ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici”, fissando un limite, coincidente con l’età pensionabile maschile, destinato ben presto ad essere superato, e reso del tutto inutile nella propria originaria ispirazione perequatrice, proprio dall’elevazione dell’età pensionabile maschile».
[3] Sull’obbligo del preavviso nel rapporto di lavoro , non escluso per l’ipotesi del raggiungimento dell’età pensionabile, l’orientamento è consolidato sin dagli anni ’90. Tra le molte vedi: Cass. sez. lav. 25.7.1994 n.
[4] Vedi la nota redazionale a Cass. 8.2.2006, n.
[5] Così esplicitamente Pileggi, op. ult. cit., 49.
[6] In Not. giurisp. lav. 2006, 493.
[7] In Foro it., 2003, I, 2577.
[8] Con la massima n. 2, Cass. n. 2472/2006, ha poi inteso dissociarsi dalla precedente decisione dell’8 4.1998 n. 3613 (est. Foglia, in Riv. it. dir. lav. 1999, II,141) che aveva attribuito efficacia sanante della tardività della opzione, alla tollerata prosecuzione (per oltre due anni) del rapporto, in via di fatto, oltre l’età pensionabile, da parte aziendale. Questa decisione aveva, all’opposto della più recente, raggiunto la più ragionevole conclusione secondo cui: «Al mancato rispetto del termine previsto dall’art. 6 d.l. n. 791 del 1981, convertito nella l. n. 54 del 1982, per l’esercizio, da parte dei lavoratori che non abbiano ancora raggiunto l’anzianità contributiva massima, dell’opzione per la continuazione del rapporto di lavoro dopo il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, consegue una decadenza relativa ad un assetto di interessi che coinvolge prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, diritti disponibili inerenti al rapporto di lavoro tra le parti, con la conseguenza che la stessa decadenza prevista dall’art.