lavoroprevidenza

domenica 8 aprile 2007

LA QUOTIDIANITA’ DELL’AZIONE MANAGERIALE

del Prof. Sergio Sabetta - Componente Comitato scientifico di LavoroPrevidenza.com - Responsabile della Sezione Management di LavoroPrevidenza.com



LA QUOTIDIANITA’ DELL’AZIONE MANAGERIALE



Prof. Sergio Sabetta


Occorre innanzitutto precisare che per leadership si intende non la sola capacità, come usualmente si pensa, di prendere rapide decisioni a seguito di valutazioni più o meno ampie, ma la capacità innanzitutto di presentare un problema in modo adeguato affinché il team incaricato lo possa risolvere, analogamente vi deve essere di ritorno la capacità di ascolto, al fine di creare una corretta governance quale risultato del feedback.


Occorre innanzitutto sottolineare la necessità della creazione all’interno dell’organizzazione di ambienti di apprendimento “aperti”, evitando il formarsi di ambienti “chiusi” all’esterno ma favorendo, al contrario, la circolazione di informazioni controllabili e corrette contro il chiacchiericcio che altrimenti inevitabilmente si formerebbe o peggio la manipolazione informativa per asimmetria.


La verità come crescita della fiducia e conseguentemente dell’organizzazione, ma per creare la fiducia interna necessita il rispetto delle regole e la trasparenza dell’azione, acquista importanza in questa ottica la trasparenza amministrativa interna.


Deve comunque tenersi presente che vi è sempre il pericolo, una volta iniziato un rinnovamento, che vengano create nuove regole in una fuga in avanti per incapacità di sviluppare adeguatamente le vecchie, infatti deve tenersi presente che la rigida interpretazione delle regole è favorita dalla memoria operativa che porta alla ripetizione dello stesso percorso, né vi è facilità di analisi tenendo presente che nessuno ammette se non con difficoltà un proprio fallimento, circostanza che favorisce l’irrigidirsi dell’azione da parte della leadership.


Tornando all’analisi gestionale dobbiamo considerare che i processi fondamentali che possono essere individuati nell’attività manageriale, indipendentemente dal settore in cui opera l’organizzazione, sono:



- formulazione della strategia e delle decisioni strategiche;



- pianificazione e budgeting;



- misurazione delle performance e reporting;



- allocazione delle risorse;



- gestione delle risorse umane;



- comunicazione con gli stakeholder;



- processi di costruzione delle infrastrutture.





Il dirigente è colui che prevede e pianifica, organizza, guida, coordina e controlla; l’intensità delle funzioni varia con il variare del livello della dirigenza, mentre nell’alta prevale la pianificazione, l’organizzazione e la guida, nella bassa prevale il coordinamento e il controllo con una gestione di breve periodo.


L’attività decisionale per eccellenza è la pianificazione, la quale deve permettere un uso ottimale ed efficiente delle risorse e deve tenere presente tre fasi successive:



1) l’evoluzione dell’ambiente;



2) la determinazione degli obiettivi;



3) la definizione dei piani per l’azione.





Il piano deve essere caratterizzato da:



1) coerenza ed unità degli obiettivi parziali;



2) continuità nel tempo fra previsioni di breve e di lungo periodo;



3) flessibilità ed adattamento ai mutamenti che potranno avvenire;



4) accuratezza e precisione nella valutazione dei fenomeni.



L’attività di pianificazione solo raramente può essere svolta in modo strutturato, molte volte l’incertezza delle informazioni porta il manager ad agire mediante la propria percezione selettiva dell’ambiente, la qualità di tale percezione porta alla qualità della programmazione.


Alle funzioni sopra esposte possono aggiungersi la comunicazione e la motivazione, la misurazione e lo sviluppo delle persone che con lui collaborano.


Nelle moderne organizzazioni strutturate come learning organization, in cui gli individui singolarmente o in gruppo innovano e sperimentano, discutendo le precedenti procedure, uno dei valori fondamentali è la libertà degli attori del sistema. Se questo da una parte limita le attività di controllo e supervisione diretta, concentrando l’azione del manager sulle attività di supporto e guida, è da tenere presente che dall’altra è comunque il capo che definisce il tempo dell’esecuzione e quello della riflessione e sistematizzazione.


Il manager tende a contatti personali di breve durata in cui deve sapere gestire reti complesse di conversazione e di distribuzione di informazioni, dando forte risalto all’ascolto.


In un ambiente a forte turbolenza la capacità, anche attraverso contatti personali, di acquisire i segnali deboli provenienti dall’esterno per anticipare i cambiamenti risulta essere di fondamentale importanza. Sempre in questo ambiente vi è l’introduzione di organizzazioni più “piatte”, con un numero ridotto di livelli gerarchici, ma più agili e flessibili, senza che questo si trasformi in un sovrapporsi indefinito e ambiguo di funzioni, diventa pertanto attività strategica per il successo la gestione del know how dell’organizzazione e delle persone.


Nel sostenere il cambiamento l’amministrazione ha bisogno di perseguire condizioni che appaiono tra loro contraddittorie:



- più specializzazione ma anche più integrazione;



- più autonomia ma anche più partecipazione al gioco di squadra;



- più innovazione ma anche più rapidità ed efficienza.



Due strumenti hanno in parte sostituito i tradizionali sistemi di coordinamento e controllo gerarchico ai fini dell’integrazione tra le diverse funzioni.


Il primo è l’utilizzo estensivo dei “team” a tutti i livelli dell’organizzazione, il secondo è dato dai “ruoli professionali aperti”, ossia dalla trasformazione degli specialisti e dei capi tradizionali verso figure professionali dotate sia di elevate competenze tecniche e scientifiche che di una visione puntuale dei processi e dei problemi di management.


Nelle nuove forme organizzative si esige meno controllo e più fiducia nei confronti dei collaboratori, al fine di meglio utilizzarne le potenzialità, diventano in quest’ottica fondamentali le dimensioni dei gruppi di lavoro, che devono essere tali da costituire vere e proprie “comunità” autonome di lavoro a configurazione variabile, e la capacità del manager di gestire positivamente gli inevitabili conflitti interni al gruppo.


Nella nuova direzione per progetti emerge che il manager oltre alle capacità amministrative e tecniche, deve avere soprattutto qualità morali tali da convincere i collaboratori alla massima lealtà e qualità dei rapporti lavorativi. In altre parole occorre recuperare l’aspetto etico dei rapporti interpersonali, questo in particolare nella “learning organization”, in cui l’organizzazione è fortemente impegnata in un continuo processo di apprendimento e adattamento all’ambiente.


In una tale organizzazione necessita la leadership:



1) un approfondimento continuo sia come visione personale sia nell’impegno di apprendere, in quanto un’organizzazione non può apprendere in modo superiore ai suoi membri;



2) una analisi dei propri modelli mentali con un continuo sforzo di aggiornamento e modifica, in quanto questi costituiscono la lente con cui rappresentare i fatti del mondo e più è veloce e rapido l’adattamento maggiore è il vantaggio competitivo;



3) una visione condivisa per creare un impegno comune nella costruzione del futuro organizzativo. La condivisione di questa visione da parte degli individui porta ad un forte impegno volontario ed orientato ma non imposto, in cui il leader trascina con l’esempio più che ordinare;



4) un apprendimento di gruppo in cui l’apprendimento individuale viene codificato e trasfuso nel gruppo superando i nostri modelli difensivi che bloccano il trasferimento del sapere e facendo sì che la mancata osmosi porti a performance di gruppo minori rispetto alla somma delle singole capacità. Necessita in altre parole una forte socializzazione in senso orizzontale e verticale;



5) quanto detto va integrato con un pensiero sistemico per il quale un insieme strutturato è sempre maggiore della somma delle singole parti, affermazione negata dal riduzionismo per cui le cose equivalgono alla somma delle loro parti. Occorre considerare che ogni organizzazione è un sistema complesso che va articolato con altri sistemi complessi.





Caratteristiche comuni dei sistemi complessi sono:



1) reazione attiva alle sollecitazioni esterne, tenendo presente che più un sistema è complesso maggiore è l’energia necessaria per sostenersi;



2) esistenza di un limite alla quantità di cambiamento che un sistema può sopportare;



3) non vi è mai un equilibrio statico, ma vi sono sempre più o meno piccoli aggiustamenti sia per l’ambiente esterno turbolento che per i costi eccessivi dei sistemi di regolamentazione;



4) mancata immediata reazione ai cambiamenti, se non dopo un certo lasso di tempo; fatto che induce alcuni sistemi a dotarsi di meccanismi idonei ad anticipare le situazioni per le quali mancherebbero i tempi per la reazione;



5) esistenza di parti di sistemi “non evidenti”all’interno di altri sistemi complessi per cui determinate azioni sul sistema possono comportare risultati inaspettati;



6) molte volte hanno comportamenti e dinamiche autonome indipendenti dai tentativi di controllarli e finalizzarli;



7) alcuni sistemi si riprogrammano in base ai comportamenti al fine di evitare gli errori già commessi.




La consapevolezza della complessità permette di rendersi conto che molti problemi sono di natura dinamica, riguardando sistemi che cambiano nel tempo. Quindi, se molti problemi nascono principalmente dalla struttura interna di questi sistemi, il salto di qualità consiste nello spiegare dal di dentro le dinamiche prevalenti di tali sistemi senza cercare all’esterno fonti di disturbo inesistenti.


I due stili organizzativi e gestionali emergenti sono la learning organization (teorizzata da Senge) e il Knowledge management (teorizzato da Nonaka). Tra le due visioni della direzione vi sono strette analogie ed in entrambe fondamentale è la conoscenza quale fonte di vantaggio competitivo per cui a fianco di una progettazione organizzativa sulla base delle attività vi deve essere una progettazione organizzativa sulla base delle conoscenze.


Della learning organization ne abbiamo già parlato prima, ora dobbiamo affrontare l’analisi della knowledge management, questa viene definita come un processo incrementale e continuo nel quale le conoscenze esistenti vengono raccolte, organizzate e rese disponibili.


Il processo si riferisce tanto alla conoscenza esplicita, costituente il patrimonio cognitivo dell’organizzazione, che alla conoscenza tacita, propria dell’esperienza e delle intuizioni degli individui. La conoscenza dovrà essere gestita in modo da trasformare il capitale intellettuale in capitale strutturale, riconoscendo la conoscenza come capitale.


Il punto focale della teoria di Nonaka è il trasferimento della conoscenza che da individuale e tacita diventa esplicita e collettiva, entrando nella memoria lavorativa di tutto il patrimonio cognitivo dell’organizzazione.


Consegue che punto centrale non è il possesso della conoscenza ma la sua mobilitazione nel sistema organizzativo. L’organizzazione, per potere crescere, necessita di un sistema di relazioni reticolare con la capacità di alimentare le relazioni tra persone e tra ruoli.


Nel knowledge management sono presenti alcune caratteristiche:



1) consapevolezza delle conoscenze di un’organizzazione (Knowledge mapping);



2) incentivazione a scambiare e acquisire conoscenze (Knowledge sharing);



3) esistenza di un’organizzazione che persegua sistematicamente strategie di accumulazione della conoscenza (ambiente pro-learning);



4) presenza di packages di conoscenze che possano essere scambiate (Knoledge codification e Knoledge transfer process management).





La creazione e lo scambio della conoscenza sono attività immateriali che non possono essere né controllate né imposte, pertanto si realizzano solo con una cooperazione volontaria. Il concetto si contrappone all’idea di controllo propria della tradizionale teoria gestionale scientifica di Taylor. Infatti, afferma Nonaka che per fare emergere la conoscenza occorre dare ai dipendenti un ampio spazio di autonomia, non tentare di controllarli.


Al crescere dell’autonomia aumentano i conflitti e le tensioni nei rapporti interpersonali e fra gruppi. Questi conflitti possono essere produttivi o meno a seconda se si concentrano sull’interpretazione della situazione organizzativa o al contrario sono originati da una struttura organizzativa che non rispecchia più la mission dell’amministrazione.


Altre volte è l’incapacità del management di gestire i conflitti a disperdere gli effetti positivi per la crescita che possono derivare dalle tensioni interpretative interne. Si deve, inoltre, considerare che l’equilibrio emotivo di coloro che ricoprono ruoli manageriali particolarmente delicati può essere compromesso dagli stress derivanti dalla necessità di raggiungere gli obiettivi prefissati, dai carichi di responsabilità e dalla necessità del mantenimento costante delle relazioni interpersonali, anche al fine di ricomporre i conflitti.


Dobbiamo sempre tenere presente che nell’analisi dei conflitti che sorgono all’interno di un’organizzazione è importante l’analisi della situazione personale degli attori chiave, quando una persona entra a far parte dell’impresa porta con sé oltre alla sua esperienza personale e capacità, anche i vari tratti personali, egli inconsciamente o consciamente crea un modello di riferimento e giudica in relazione a questo modello. Importante diventa capire quale tipo di “modello” l’interlocutore ha in mente; ma altrettanto importante è la consapevolezza del proprio ruolo che il dirigente deve avere con le conseguenti responsabilità verso l’organizzazione. Occorre considerare che una salda leadership deriva, non solo da alleanze di interessi, ma anche da una superiorità morale, conseguenza dei comportamenti derivanti da responsabilità accettate e gestite con equilibrio e dalla capacità di non vivere alla giornata solo in funzione di sé, ma di elaborare progetti a lungo termine che coinvolgano il “noi” della collettività.


Non dobbiamo illuderci che una qualsiasi legge sulla governance sia sufficiente ad una buona gestione, se coloro che devono adottarla possiedono valori di gruppo contrari con atteggiamenti di rifiuto o esclusivi, vedasi alcuni dei più recenti casi Bankitalia, BPI , PARMALAT, UNIPOL; necessita, pertanto, la formazione di una classe dirigente eticamente consapevole, in quanto reggere le responsabilità da soli in un ambiente ostile rende deboli ed esposti a tentazioni e stanchezza, soprattutto quando si vedono premiati i comportamenti puramente individualistici.












BIBLIOGRAFIA







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