Mobilità ovvero la flessibilità problematica
Prof. Sergio Sabetta
Dagli anni ’70 del ‘900 vi è stata una progressiva modifica dei termini produttivi con il superamento della rigida fabbrica fordista in cui i processi erano determinati e cadenzati nel tempo ed i prodotti standardizzati, la macchina prevaleva sull’uomo il quale ne era una appendice, la produzione concentrata nei paesi economicamente sviluppati a cui i terzomondismi dovevano unicamente fornire materie prime e sbocchi per i mercati interni.
Il sistema produttivo di massa, entrato in crisi per motivi sociali interni e per l’avanzare di nuove realtà economiche soprattutto asiatiche, ha reagito in Italia con la delocalizzazione di molte attività delle grandi imprese nei vari distretti industriali e per tale via mantenendo in vita in termini competitivi il manifatturiero, secondo uno sviluppo quantitativo del passato che si appoggiava su una larga disponibilità di lavoro a scarsa qualificazione, una abbondanza di spazi in cui inserire i capannoni e le officine ed una ampia tolleranza allo sfruttamento delle risorse ambientali e all’inquinamento.
La riduzione progressiva della manodopera a basso costo è stata supplita con l’immigrazione mentre la disponibilità dei fattori ambientali si sono sempre più ridotti senza una possibile reale sostituzione, a fronte di una crescente aggressività competitiva dei paesi terzi ( Cina, India, Brasile, ecc.).
Nasce l’esigenza di sviluppare qualitativamente l’economia puntando sul terziario avanzato ossia sui servizi alle imprese e alle persone, questo tuttavia comporta il crescere dell’importanza dell’uomo sulla macchina e pertanto delle qualità immateriali date dalla creatività, dal rapporto fornitori clienti, dalla flessibilità, dall’esperienza del singolo nella gestione delle relazioni e della complessità ambientale non più riducibile ingegneristicamente in semplici procedure.
Il prodotto acquista valore non più solo per se stesso ma anche per il significato che esso incorpora, valore immateriale creato dalle capacità immaginifiche del singolo.
Dalla flessibilità organizzativa dell’impresa creata con i distretti industriali si è passati nell’ultimo ventennio alla flessibilità dell’uomo.
La crisi del fordismo ha portato alla reticolarizzazione mediante catene di forniture esterne, partnership e alleanze con il venire meno dell’industria di stato quale pilone portante, della figura finanziaria mediatrice e stabilizzatrice svolta da Mediobanca, oltre che di alcuni grossi gruppi industriali quali Olivetti e Mentedison.
I Knowledge Workers delle grandi imprese si sono “terziarizzati” specializzandosi tecnicamente e acquisendo al contempo autonomia decisionale ed una progressiva capacità di assunzione del rischio, questo tuttavia non comporta l’isolamento del singolo anzi al contrario deve essere accompagnato ad una accresciuta capacità di “fare squadra” al fine di ottenere una interdipendenza si approccio in modo da affrontare tutte le variabili in gioco; non si tenta più di ottenere una semplificazione bensì una accresciuta capacità di gestire la complessità circostanza che non può essere ottenuta con dei semplici manuali.
La stessa competenza può essere definita in termini individuali o strategici, quale fatto organizzativo di skill e tecnologie non appartenente ad una singola persona, in realtà le due visioni devono integrarsi in un equilibrio dinamico per rendere adattabile l’azienda.
I requisiti professionali richiesti risultano essere le conoscenze tecnico-professionali e le capacità di comportamento organizzativo, in modo da ricoprire tecnicamente il ruolo con le abilità relazionali pratiche necessarie, la carriera non si svolgerà più esclusivamente all’interno di una singola azienda ma si svilupperà nell’arco della vita lavorativa presso varie aziende, in funzione delle richieste di servizi tecnici avanzate.
Quanto finora detto si riferisce ad una fascia medio alta di professionisti forniti di capacità tecniche richieste e ben retribuite dal mercato, tuttavia la flessibilità si abbatte anche su le fasce meno specializzate o fornite di capacità fuori mercato, in tali casi i problemi risultano essere seri per l’emarginazione in atto e l’insicurezza di cui si è preda con i relativi stress familiari, sociali e fisici.
La continua mobilità non è sinonimo di avventura, come si tenta di fare credere, né è gratificante se imposta anziché scelta; se viene vissuta, soprattutto dalle classi meno giovani, come insicurezza quotidiana può impedire la creazione di una stabile e non oppressiva rete relazionale creando una mobilità di tipo americano senza averne gli spazi e le strutture sociali, finendo di fatto per polarizzare i rapporti sociali e le tensioni fra classi sempre più distanti.
E’ una mobilità subita che superata la fase entusiastica giovanile di apprendimento e ricerca, diventa precariato stabile con difficoltà di prospettive di vita, subentra un senso di instabilità e sfiducia mentre la ricerca dell’affermazione mediante una continua competizione sempre più spinta può portare a deviare come rilevato recentemente nell’uso crescente di determinate sostanze stupefacenti.
Deve concludersi che la flessibilità e la conseguente mobilità non possono acquisire una valenza assoluta quale placebo per le difficoltà economiche ma deve essere temperata, analizzando le specifiche delle diverse fasce a cui viene applicata e dei diversi settori, innanzitutto privati o pubblici, entro cui vengono attuate.
Si deve considerare che in ambito pubblico la mobilità e flessibilità sono state molte volte intese come comoda strada per rapide carriere anziché per un miglioramento gestionale, mentre da parte loro i maggiori sindacati tendono ad essere strutturati in termini di semplificazione del controllo.
Bibliografia
· G. Fumagalli, Gestire la complessità, www.eccellere.com/Rubriche/Gestione Risorse Umane;
· E. Rullari, Una rivoluzione per il terziario, in “L’impresa”, 86-95, 5/2003;
· T. Campanella, Dal concetto di competenza alla costruzione di un modello gestionale, www.eccellere.com/Rubriche/gestione Risorse Umane.